cinema
da cannes in poi…
dal festival di Cannes in poi, è emersa la volontà di ancorare il cinema alla storia europea, intanto, dall’oriente, le donne registe aprono nuovi orizzonti alla ricerca e al confronto
Tre film, nel corso del Festival di Cannes, hanno toccato uno stesso tema con intenti diversi e diversissimi esiti: “L’uomo di ferro”, di Andrzej Wajda, “Mephisto” di Istvan Zsabo e “La Pelle” di Liliana Cavani.
I primi due sono stati premiati con palma d’oro e per la migliore sceneggiatura, il terzo è stato ferocemente attaccato. Tutti e tre analizzano il rapporto del singolo con la collettività in momenti cruciali per la storia del loro paese: gli ultimi dieci anni in Polonia, protagonisti Solidarnosc e Lech Walesa (L’uomo di ferro), la guerra civile, la crescita e la affermazione del nazismo in Germania (Mephisto), l’arrivo delle truppe americane a Napoli nel secondo dopoguerra (La Pelle).
Tratto comune ai tre diversi moduli narrativi è proprio la volontà di serrare gli uomini che agiscono dentro i fatti che li determinano, questo saldo ancorare il cinema alla storia europea.
Da un paese in rapida e straordinaria trasformazione giunge il film di Wajda, che registra con l’uso puntuale di fiction e filmati d’epoca dieci anni che esigono confronti e giudizi. Un discorso maturato dentro la nuova realtà sociale, che cresce riflettendo su se stessa, in cui registi, cineasti e protagonisti (numerosissimi) tengono a precisare di aver lavorato con l’obbiettivo del “giusto” e dell'”utile”. Certo un indispensabile punto di riferimento per chi voglia capire che cosa succede oggi in Polonia.
Scrittori e popolo sono a confronto anche nella “Pelle” della Cavani, che non riesce a sottrarsi al gusto dell’appiattimento vitalistico e populistico con una rappresentazione della Napoli del dopoguerra che privilegia la fiction integrale e iperrealistica e domina con la violenza delle immagini quella sottile, persistente, estraneità dell’intellettuale italiano che una secolare dimestichezza con poteri sempre nuovi e una perenne controriforma hanno addestrato alla “prudenza”, al “distacco”, al disinvolto e inerte “cinismo”.
Più complesso e aggrovigliato il rapporto col potere del protagonista-artista di Mephisto, più necessarie le ragioni che lo legano al teatro di Weimar prima ed al nascente e consolidato nazismo poi.
Hendrik Hofgen non vende l’anima al diavolo in cambio del successo, cerca sempre di esprimere il suo splendido talento nei tempi bui in cui gli è dato di trascorrere sentendosi legato prima di tutto alla Germania e al suo popolo. É quanto cerca di spiegare con scarso successo alla moglie che invece sceglie l’opposizione all’estero e a tutti quegli amici che il regime contrasta e a poco a poco sopprime.
Un artista, Hofgen ne è convinto, vive con la sua gente, ma chi è l’artista, in che rapporto si pone con l’organizzazione culturale che lo crea e lo distrugge?
Questo, in sintesi, l’interrogativo posto a Cannes, che non significa necessariamente prendere a modello film civili e noiosi, come i “Tre fratelli” di Rosi, così banalmente didascalico e pesantemente esemplare.
Significa magari rivedere alcuni presupposti teorici e stilistici ed è in questa direzione che si possono forse utilizzare gli orientamenti espressi dal festival. E sintomatico, in questo senso, il processo di chiarificazione e individuazione cui da alcuni anni è stata sottoposta l’estetica del nazi-fascismo. Sempre più, infatti, si tende a studiare il rapporto arte-politica-propaganda in relazione allo stato totalitario di cui furono emanazione e corollario.
Né risulterà più sorprendente assegnare ad una donna, stretta collaboratrice di Hitler, Leni Riefensthal, il merito di aver realizzato i due documentarti più significativi degli anni ’30: “Olimpia” e “Il trionfo della volontà”. Possiamo ora chiederci in che modo abbia operato l’artista più interessante, riconosciuta e dotata del regime nazista, ricostruendo, come ha fatto Susan Sontang, i canoni di una estetica in cui prevalgono la ricerca della perfezione corporea, l’ostinato perseguimento della forma, l’assoluta de-storicizzazione di ogni contenuto a favore dell’interpretazione mitica.
Stabilire nessi e rapporti con la nostra sensibilità di contemporanei, significherà scoprire il fascino di una ideologia corporea almeno quanto è carismatica e autoritaria, antintellettualistica e collettivistica, capire cosa significa “vita come arte” e “culto del bello”.
Chiarire forse un po’ meglio le origini della nostra civiltà dello spettacolo, sospesa tra una collettività vociante e inutile e una individualità disperata e solitaria.