letteratura

il bikini bianco

Note parlate su Sylvia Plath, nate da una conversazione tra donne.

luglio 1979

ho ritagliato la foto in bikini. Scartata dal mazzo, risalta nel vuoto del tavolo, s’ingigantisce, occupa la stanza, si fa manifesto. Potrebbe propagandare una qualsiasi cosa, mettiamo una lattina di birra o una vacanza. La ragazza è decisamente carina. La ragazza in bikini è un’intellettuale: un’austro-tedesca-americana, con padre professore universitario, uomo bizzarro (che lei definirà più semplicemente bastardo) morto prim’ancora di morire con la fissazione di un cancro immaginario; una madre di gran lunga più giovane del marito, presto rimasta vedova, insegnante lei pure, disposta a suon di sacrifici ad assicurarle la migliore educazione della media borghesia maccartista; una madre (sembra) dalla convivenza difficile ma alla quale, per tutta la vita, scrive lettere ora frivole, ora gaie, ora pensose, ora penose. Una ragazza coltissima ma non noiosa, con tanto di borse di studio alle spalle, di complimenti, corteggiamenti, pubblicazioni e, davanti, un esaltante destino da prima della scuola. E’ pressappoco all’epoca dei capelli platinati e del bikini bianco che Sylvia cerca la morte in un tubetto di pillole. Occorre a salvarla l’elettrochoc e una clinica psichiatrica, poi tutto riprende normalmente; l’università, i corsi di poesia, la tesi di laurea su Dostoevskij, il viaggio in Europa, l’amore per Ted Hughes, oggi uno dei maggiori poeti inglesi.

Lo sposò nel ’56 e per lui svolse, onorevolmente, le normali mansioni di casalinga: lavò, stirò, cucinò e il tutto (apprendiamo dall’epistolario) le sembrava soffuso di “un’aura celestiale”. Né, i primi tempi, la sua creatività ne era andata compromessa, sembra anzi che quest’uomo l’avesse persino spinta ad imboccare definitivamente la strada della poesia, riconoscendone immediatamente il talento. Poi erano venuti i figli, due, a breve distanza (Frieda nel ’60, Nicholas nel gennaio del ’62) e Sylvia aveva amato anche loro di un amore immenso, tenero, entusiasta ed entusiasmante.

Ma i figli si fanno in due e si crescono in una, poiché anche nella società umana (commenta tristemente) la funzione del maschio è quella del fuco.

Da gesto creativo la maternità si risolve in frustrazione: camicie vittoriane, allattamento, veglie notturne, depressioni, suppliche e preghiere perché in lavanderia, per una volta, ci passi lui, tempo che sfugge, impossibilità di scrivere, con in più l’amaro sospetto, ben presto fatto certezza, che lei sta diventando sempre più irrimediabilmente la moglie, che dall’altra parte c’è l’amante. Sylvia si separa, portando con sé i figli, decisa a pensarci da sola. Cominciano le ristrettezze economiche, i salti mortali per guadagnare qualche ora alla penna ed ha termine, finalmente, il viaggio a ritroso, già da tempo intrapreso, verso l’adolescenza e la prima giovinezza; il viaggio a ritroso verso l’America maccartista in cui quella prima giovinezza era andata vissuta, fra ì miti complementari del successo e della famiglia, della verginità e dell’efficienza; è il romanzo La campana di vetro, tentativo di liberazione, messa fuori del vissuto, piuttosto che sublimazione dello stesso, come era avvenuto nelle opere precedenti: The Colossus, Winther Trees, Ariel,

Un mese dopo la pubblicazione del romanzo (pubblicazione avvenuta con lo pseudonimo di Victoria Lucas), in una alba londinese, presumibilmente livida e lattiginosa, Sylvia si toglie la vita, in cucina, col gas, dopo aver preparato ai bambini, ancora addormentati, la solita colazione.

Smascherati e il mito del successo e quello del grande amore, esauritili, forse, anche letterariamente, la liberazione si era convertita nel rifiuto definitivo; vagamente pavesiano.

Nel ’63 la ribellione delle donne non era ancora scoppiata e, a una totale comprensione dell’opera della Plath mancavano, anche nel pubblico femminile, quegli strumenti d’analisi che il Movimento avrebbe elaborato di là a qualche anno, nel giro di un decennio. Il femminismo sarebbe servito anche a questo; a rendere razionali i nodi di una condizione (quella femminile, appunto) già intuita a livello poetico dalla Plath e a precisare i termini politici della disperazione.

Sylvia intanto porta nella sua opera la traduzione simbolica della propria fatica di viversi donna: donna in un mondo alienato: l’amore, la maternità, il rapporto col padre in testi sorvegliatissimi, alieni dal semplice abbandono diaristico,

“Una ragazza coltissima ma non noiosa, con tanto di borse di studio alle spalle, di complimenti, corteggiamenti, pubblicazioni e, davanti, un esaltante destino da prima della scuola”.

Si sente nel verso, insieme al talento, il mestiere, l’impegno stilistico, l’esattezza formale.

Tre donne può essere un buon approccio, nel senso che il contenuto, la materia stessa dell’opera, fa sì che la lettura riesca agevole a prima presa. I monologhi sono tre, quasi fughe che s’incrociano e si integrano, voci d ‘ donne nel reparto maternità di un grande ospedale, donne che parlano di sé a se stesse.

Ariel è poesia più culturizzata, dal simbolismo sottile, privo di riferimenti letterari, qua e là intinto di un estetismo raffinatissimo, barocco e decadente. Poesia mediata per la ricchezza culturale dell’autrice e perché quel tipo di poesia più corporea e sanguigna, quella segnata dalla rabbia e dall’urgenza non era ancora venuta fuori, né è lecito supporre che sarebbe mai venuta fuori da Sylvia Plath.

A far ciò occorreva spezzare l’allegoria, infrangere il simbolo: era ancora troppo presto.

Quanto a prosa, di romanzi Sylvia Plath ne scrisse uno solo ed è quella Campana di vetro cui gli anni hanno guadagnato consensi di critica e di pubblico di gran lunga superiori a quelli riservatigli all’indomani della prima edizione: segno, anche questo, che 1′ opera era in anticipo sui tempi. Esiste una tesi, accreditatissima, sulla sostanza autobiografica di quel romanzo, tesi indirettamente riconfermata dal ricorso allo pseudonimo nonché dal tentativo della madre di ostacolare l’edizione statunitense.

Tornano, nella Campana dì vetro, i temi di fondo della poesia di Sylvia Plath, con una più accentuata bipolarizzazione del contrasto tra libera individualità e istituzione, tra il tentativo di ribellione e il compromesso di sopravvivenza, tra vita e morte, normalità e devianza. Tutto torna (e tutto salta) in questo libro-rivelazione che è, fondamentalmente, un libro-liberazione. Tentativo di liberazione nel momento in cui, ponendosi come io narrante, la protagonista Esther-Sylvia racconta la storia di una schizofrenia, ripercorre a incastro il passato-presente di una ragazza medioborghese predestinata al solenne avvenire di una buona carriera e di un sensato matrimonio. Individuabilissimi il padre intellettuale morto quando Sylvia non aveva ancora dieci anni, la carriera di prima della classe, il rapporto con la scrittura (che fu una costante nella vita di Sylvia), il tentativo di violenza (sembra che Sylvia subì effettivamente il rischio di essere violentata e ne rimase shoccata), persino quel lancio catartico degli indumenti sulla città, l’immensa camaleontica e megalomane New York, prima del ritorno alla provincia bostoniana, il tentativo di suicidio e la degenza nella clinica psichiatrica: questi gli episodi rintracciabili nella vita di Sylvia e riscontrabili nel romanzo, il quale si ferma nel momento in cui Esther si presenta alla commissione medica che deve decidere se dimetterla o meno. Più che medici, giudici essi ci appaiono: riuscirà Esther a farsi assolvere? Sylvia, sappiamo, ci riuscì. Tornò, intelligente e brillante, nel mondo dei normali e ci rimase all’incirca dodici anni, il tempo per realizzare: una laurea, un marito, due figli, una separazione legale, tante poesie tra le più belle e le più tristi che si siano lette da un ventennio a questa parte, un romanzo significativo e un suicidio. Evidentemente La campana di vetro si estendeva oltre il manicomio, oltre la società americana, oltre l’Europa, la campana di vetro si chiamava alienazione.

Sylvia odiò profondamente l’America e tutto quanto significava in termini di efficientismo e consumismo, e ne denunciò con spietato rigore le ciniche seduzioni metropolitane non meno del gretto conformismo della provincia. Ne denunciò soprattutto la scienza al servizio del Potere e identificò in personaggi maschili i funzionari della medesima, massimamente in Gordon eBuddy (rispettivamente il primo degli psichiatri di Esther e un suo semi-fidanzato, studente di medicina, americanamente sano, quadrato, di ottime speranze che finisce, a dispetto del suo stesso ruolo, regolarmente in sanatorio a curarsi la tisi).

Ci sono poi i burattinai del consenso, le false luci del mondo pubblicitario e c’è anche, giocato in un certo senso pure lui, Irvin, l’amante di una notte. Ad essi tuttavia, dal fondo d’una rabbia sotterranea e d’una capacità critica mai venuta meno, Esther irride. E’ lo scherno per Buddy, l’odio per Gordon, l’ironia che raggiunge il suo defloratore, ridotto, anzi scelto, a mero strumento.

Paradossalmente, in questo punto del romanzo, che pure si risolve in una corsa notturna al pronto soccorso, Esther fa il primo passo verso la riappropriazione di se stessa, è il momento della ripresa costruttiva, la fine di una lunga adolescenza. Decidendo di perdere la verginità e decidendo di perderla a quel modo, Esther la fa in barba da una parte al terrorismo moralistico della madre, dell’ex futura suocera nonché dell’avvocatessa che ce l’ha messa tutta a dimostrare, con parvenze parascientifiche, che l’unico modo sicuro di non far bambini è quello di non fare l’amore; dall’altra parte Esther la fa in barba al ricatto erotico-affettivo. Sceglie, volutamente, un uomo che non ama, fuori dalla cerchia delle proprie conoscenze, intelligente, esperto, “una specie di funzionario spersonalizzato e sacerdotale come in un rito tribale” (pag. 196) il tutto dopo aver preso le sue debite precauzioni anticoncezionali. Esther si metterà in contatto con Irvin, dopo quel primo incontro, una sola volta, per comunicargli “un conto di venti dollari per una cura d’emergenza a una certa data di dicembre e per il controllo una settimana dopo”. Irvin non batte ciglio, promette di firmare un assegno e tenta di fissarle un appuntamento, che Esther rifiuta perentoria, E’ una mezza pagina che vai la pena di rileggere:

Quando posso vederti?” “Desideri davvero vedermi?” “Moltissimo”

Mai” dissi e riappesi con gesto deciso.

Mi chiesi se Irvin avrebbe realmente mandato l’assegno all’ospedale dopo questo finale, poi pensai “Naturalmente, pagherà. E’ un professore di matematica… non vorrà lasciare dei conti in sospeso”.

Mi sentii inesplicabilmente sollevata (…) Irvin non aveva nessuna possibilità di mettersi in contatto con me, a meno di andare all’appartamento dell’ infermiera Kennedy, che d’altra partedopo la morte di Joan si era trasferita altrove senza lasciar traccia. Ero perfettamente libera. (pag. 208). Di Joan va detto perché, lesbica, è quella che paga il prezzo più caro: è lei infatti che, nel romanzo, finisce suicida, più perdente di tutte perché doppiamente fuori dagli schemi. «Che cosa cerca una donna in una donna che non possa trovare anche in un uomo?” Aveva chiesto Esther alla dottoressa Nolan. E la dottoressa aveva risposto “La tenerezza”.

Le donne che Esther incontra sulla propria strada (a parte le coetanee) sono, rispetto agli uomini, meno esplicitamente violente; a loro il compito di fare da spugna, attutendo gli urti dell’imposizione.

Non ci stancheremo mai, fino a quando il nodo non sarà sciolto e questa consapevolezza interiorizzata, di analizzare e chiarificare fino in fondo il ruolo materno (che non è solo della madre biologica) ovvero quella complicità al sistema, mista di affettività e protezione, che permette allo stesso di passare sul singolo sotto forme più accettabili perché addolcite e, al limite, gratificanti. Quanto alle emancipate, alle efficienti, alle affermate, anch’esse possono ricondursi nei loro atteggiamenti a una matrice materna, tutte comunque riflettono, sotto questo o quel’ aspetto, il prezzo pagato all’affermazione e all’integrazione, la scissione di fondo, la sopravvivenza in virtù non della trasformazione della logica maschile, bensì dell’appropriazione e della capacità di utilizzazione di quella logica stessa: così la caporedattrice della rivista per cui la ragazza lavora, così la poetessa famosa che davanti all’ipotesi di un matrimonio di Esther e di un suo probabile desiderio di maternità chiede scandalizzata: “Ma che ne sarà della tua carriera?” (pag. 189). Tutte, insomma, chi più chi meno, scisse, unidimensionali, a metà, naturalmente compiacenti e protettive, disponibilissime, in un senso o nell’altro, ad “adottarla”.

Unica eccezione la dottoressa Nolan, la sola (mi pare) in grado di offrire ad Esther un aiuto concreto. Né basta chiamare in ballo la professionalità di questo aiuto perché allora dovremmo necessariamente scendere al confronto coi suoi colleghi e chiederci, per lo meno, se è del tutto casuale che Sylvia Plath abbia scelto di affidare a un personaggio femminile il compito di riuscire dove i suoi colleghi maschi hanno fallito. Tant’è che Esther teme gli psichiatri quanto i cattolici e che la sua paura che questi ultimi abbiano “occhi a raggi X” convive tranquillamente col terrore che i medici la ricaccino indietro,

fra i pazienti più gravi, nel reparto più reclusivo, il Wymark. Non di Es e Id disquisisce la Nolan né racconta strane favole di «fiumi e pellegrini”. A dire il vero, dichiara candidamente Esther, ella non sa neppure di che cosa parlasse con la Nolan. Con la Nolan il discorso torna al concreto, perde i toni fumosi dei meandri dell’inconscia.

Cosa c’è dietro 1 sensi di colpa di Esther, dietro le sue paure, dietro i suoi scatti di collera così a lungo repressi? Voglio dire a parte la problematica, non c’è, per caso, anche una volgare questione di mezzi? Quali sono insomma gli impedimenti reali in grado di opprimere e deprimere l’impresa liberatoria di una ventenne pure così intellettualmente emancipata e curiosa di tutto? — “Quel che odio è pensare di essere in balia di un uomo” avevo detto alla dottoressa Nolan “un uomo non ha preoccupazioni al mondo mentre sulla mia testa sta sospeso un bambino come un grosso bastone per tenermi in riga”. “Agirebbe diversamente se non dovesse preoccuparsi del bambino?” “Sì” dissi “ma…”. E raccontai alla Nolan di questa avvocatessa sposata e della sua difesa della castità. La donna aspettò finché ebbi finito, poi scoppiò a ridere.

Propaganda” disse e scribacchiò il nome è l’indirizzo dì questo medico su un ricettario. — (pag. 190). Precisiamo, per inciso, che tutto ciò “era illegale — almeno nel Massachusetts, perché lo Stato era pieno zeppo di cattolici — ma la dottoressa Nolan aveva detto che il dottore era un amico suo e una persona saggia” (pag. 189). Come vive Esther, nonostante le rassicurazioni della Nolan, l’attesa della visita? Con l’ansia di prammatica naturalmente, sentendo puntati sul suo “ventre piatto e verginale” gli occhi delle altre (quasi tutte o in stato interessante o con bambini piccoli). E in quel disagio medita qualche storia fantastica da poter rifilare al medico caso mai le avesse fatto delle domande imbarazzanti. Esther è ancora una volta tentata di giustificarsi e vive con sollievo la non richiesta di giustificazioni rinunciando all’ultimo momento all’alibi improbabile del prossimo matrimonio col marinaio che deve attraccare a Charleston. “Vuole un pessario?” disse (il medico) allegramente (…) “Sì”

Mi arrampicai sul lettino per la visita, pensando “Io mi sto arrampicando verso la libertà, sarò libera dal matrimonio con l’uomo sbagliato come Buddy Willard, per colpa del sesso, libera dalle case di Florence Crittenden dove vanno a finire tutte le povere ragazze che avrebbero dovuto avere un pessario come me per quello che avevano fatto o che ad ogni modo avevano fatto senza usare precauzioni…” — (pag. 191).

E conclude “Appartenevo a me stessa”.

Appartenersi, che magnifica parola! Nuova, inconsueta, anticipatoria.”

Di quante e quali valenze sia ricca La campana di vetro, di quanti spunti, di quante intuizioni non bastano certo quattro note — per di più parlate — a significarle. Ne abbiamo fatto una lettura al femminile con la chiara consapevolezza ch’è una lettura, per forza di cose, limitata. Perché La campana di vetro è anche la storia di una schizofrenia ma non è solo la storia di una schizofrenia; è l’analisi di un’educazione sentimentale anni cinquanta ma non è solo l’analisi di un’educazione sentimentale; è uno spaccato sociologico ma non solo uno spaccato sociologico; è un’operazione letteraria non indifferente ma non solo un prodotto letterario di buon livello e per di più nuovo e significativo (e questo finalmente l’hanno capito anche i maschi censori-recensori, sempre prima un po’ censori). Voglio dire è tutte queste cose insieme ed altro ancora. E’ la disperata ricerca di un «io» totale, rivendicazione di sé, esigenza di ricomporre, di contro a una società schizoide, l’intero donna. Fu il dramma di Sylvia. Resta il problema di mezza umanità.