letteratura

il corpo dei personaggi

intervista con Milena Milani, la scrittrice che nel 1964 suscitò scalpore con il romanzo “La ragazza di nome Giulio”.

settembre 1979

Venezia, 27 maggio 1979

Tu scrivi e dipingi. Consideri più importante una delle due attività?

Sullo stesso piano. Avrei voluto studiare pittura, ma nella mia città, Savona, non c’era liceo artistico. Allora mio padre, che era anarchico, ma per quello che riguardava le faccende del sesso era molto attento a ciò che poteva succedere, siccome avrei dovuto prendere il treno per Genova, mi ha impedito questi studi. Mia madre, invece, che era cattolica, mi ha poi permesso di andare all’università a Roma. In quegli anni frequentavo studi di pittori. Ho cominciato a scrivere i primi articoli su un giornale locale. Da allora ho sempre scritto e dipinto.

Ti viene rinfacciata questa interdisciplinarietà?

In una società ancora dominata dal maschio, nonostante le lotte e le vittorie del femminismo, capita ancora. Ricordo che in un settimanale di cultura, in prima pagina, no, non c’ero io, c’era un mio caro amico poeta, una riproduzione di un suo quadro, perché anche lui disegnava e dipingeva, invece, dentro, una piccola notizia, c’era scritto: “Milena Milani abbandona la letteratura per la pittura” , tutto perché avevo fatto due o tre mostre personali in un anno. Sempre gli uomini, i critici, sia letterari che artistici, non vedono la donna che ha parecchie attività.

Per ‘‘La ragazza di nome Giulio», uscito nel ’64, sei stata condannata a sei mesi di prigione, poi il processo di appello si è concluso con l’assoluzione.

Il processo sì doveva fare per direttissima, per oltraggio al comune senso del pudore — infatti ero stata denunciata da parecchie associazioni cattoliche, da signori, da maestre di scuola — ma sono passati quasi due anni. Io sono stata condannata a fine ’66, poi per il ricorso in appello è passato un altro anno, tanto è vero che il romanzo, assolto, è uscito nel ’68. Era un libro che avevo in mente da molti anni prima, ma io stessa non osavo pubblicarlo. Fu rifiutato da parecchi editori.

 

Che aspetto del libro ha più degli altri scatenato la censura?

Soprattutto il fatto che una donna, per prima, in Italia, abbia trattato dell’argomento sessuale, cioè della “frigidità” della donna, la sua incapacità fisica e psichica di raggiungere un dato piacere, di dare al suo corpo e al corpo dei suoi partner l’importanza che gli si dà oggi. Quello che era colpevole ieri oggi non lo è più.

Questo libro è stato uno dei più importanti della mia adolescenza, forse quello che più di tutti mi ha preparato a quello che mi aspettava poi. Anche mia madre mi ha ringraziato dì averglielo fatto leggere. Il libro anticipa molte tematiche femministe, il rapporto con la madre, l’omosessualità femminile, la solitudine, l’insoddisfazione nei rapporti coi maschi. L’hai scritto solo basandoti sulla tua esperienza o ne parlavi anche con altre?

No, non è solo la mia esperienza. La spinta a scriverlo me l’ha data un incontro occasionale. A Venezia, un’estate, ero sulla diga a prendere il sole e c’era una ragazza poco lontano da me. Abbiamo cominciato a parlare, come si parla normalmente, tra donne. Era molto più giovane di me. Mi ha detto: “Col mio ragazzo non provo niente. Devo arrivare al matrimonio con questa infelicità o parlargliene rischiando che abbia un’immagine negativa di me?” . Nei colloqui che ho avuto nella sua tarda età, anche mia madre mi ha confessato che con mio padre — io che sono nata per amore, perché mia madre lo amava moltissimo — non ha mai provato niente di fisico.

C’è un punto del libro che dice: “Io, Jules, parlavo molte volte con me». La coerenza profonda del libro è data soprattutto dalla chiarezza dei rapporti che la protagonista ha con se stessa. La sua economia affettiva non è mai offuscata da stereotipi. Jules non si sente mai. Tutti i tuoi libri sono scritti in prima persona. Si tratta di una scelta, e perché?

Quando ho cominciato a scrivere in prima persona, non molti in Italia la usavano. “Anna Drei” è del ’47. Sentivo molto immediato il bisogno di trasferire quello che sentivo sulla pagina. Che poi si dicesse che ero io la ragazza Jules, che ero io l’Anna Drei (un articolo sul Gazzettino lo recensì col titolo “Sporchessi”, immondizie), questo è l’equivoco di chi non tiene conto dell’elaborazione che passa tra la scrittrice e il personaggio. Ho ricevuto decine, centinaia di lettere di maschi che si proclamavano forti amatori, credendo che io fossi la ragazza di nome Giulio, per farmi provare determinati piaceri. Comunque prima o poi pubblicherò un romanzo in cui ho voluto provare la terza persona, ma non è poi così importante, basta che corrisponda alle tue esigenze del momento. C’è chi aspetta l’uscita dei miei libri credendo di leggere le mie esperienze personali. E’ una mentalità piccola, direi. Il mio ultimo libro, che è “La rossa di via Tadino” e sta uscendo adesso, inizia con una donna sul letto, in questa grande città che è Milano, e questa donna si sta toccando, si sta accarezzando, si masturba. Si masturba per disperazione, perché in questa città caotica, svuotata, fa un bilancio della propria vita e cerca di trovare nel suo corpo qualcosa, non da adolescente, come Jules, ma con disperazione. Anche di questo particolare di ordine erotico diranno chissà cosa, perché è scritto in prima persona. Durante il processo del libro, mi ha fatto molto piacere l’attacco terribile del P.M. e di certi altri giudici che indicavano, vivisezionavano le qualità “negative” del personaggio. La vivisezione era così accurata che mi confermava la vitalità del personaggio.

Hai gli atti del processo?

Non qui, ma ti posso raccontare di una mia visita al Procuratore Generale, Carcasio. Sono andata a parlargli, prima del processo, per vedere un momento come mai, cosa pensava. Sono entrata in questo immenso palazzo di Giustizia, che è un’isola di marmo in una città come Milano, così caotica e disordinata, questo palazzo in stile littorio, questi uffici dai soffitti altissimi: mi trovo in una stanza, dove c’è questo Carcasio che ha centinaia di libri — lui era “l’addetto ai libri sporchi”, chiamiamolo così — e li sfogliava febbrilmente, cercando i passaggi, leggendoli ad alta voce. E quando mi sono trovata davanti a lui, lui ha preso il mio libro, e lo sfogliava qua e là, io guardavo nella stanza e ho detto: “Che strana cosa” , perché aveva un altro tavolo che era zeppo di soldatini di piombo e di cannoni. Faceva la raccolta di soldatini di piombo e di cannoni. E sembra che ce l’abbia tuttora al Palazzo di Giustizia.

Da quel libro è stato tratto, nel ’70, un film. Per quel che ricordo il testo era stato abbastanza manipolato. Si puntava tanto sul rapporto lesbico tra la governante e Jules, che, nel contesto, diventava quasi la causa della frigidità della protagonista, mentre passavano in secondo piano le responsabiilità maschili: la violenza del gerarca fascista e le morbosità del prete nei confronti di Jules.

Il regista che parte da un libro ne fa sempre un’opera sua. L’insistenza sulla storia della governante è dovuta anche a ragioni di cassetta, hanno voluto la Moffo attrice e la Sylvia Dionisio in minigonna, come usava allora, anche se in fondo non si è trattato di un intervento volgare, ma ha conservato un po’ della poesia originaria. Il rapporto omosessuale tra donna e donna, specialmente adolescenti, è una cosa naturalissima, non c’è niente di peccaminoso. Il fatto che sia stato accentuato nel film non mi preoccupa. Trovo che il corpo non è mai volgare.

Sempre nel libro, ci sono parecchi rapporti propositivi, ad esempio con le mestruazioni, col sangue. Ugualmente propositivo è il rapporto di reciproca comprensione con gli animali. Pur esponendo una situazione drammatica,di cui con le discriminazioni e ingiustizie, non cadi mai nel vittimismo. Come definisci il tuo modo di scrivere? Realistico?

Può darsi che ci cadrò, non so. Io parlo come scrivo. Lo definirei uno stile realistico-poetico. Nasco come poetessa. Il mio primo libro è di poesie, “Ignoti furono i cieli”, L’anno prossimo uscirà una raccolta di poesie dal titolo “Mi sono innamorata a Mosca”. “Realistico” perché sono estremamente nella realtà, però la realtà mi investe talmente, investe talmente i miei personaggi da tramutarsi in poesia. Ho la gioia di essere viva. Io amo molto gli elementi, la natura, la pioggia, il sole, il- mare, gli alberi, i palazzi, la civiltà. Non so quanto tempo ci è concesso sulla terra, però è talmente bello poter essere vivi.

L’argomento delle mestruazioni ha terrorizzato i giudici. Per l’uomo noi siamo dei misteri, ma lo siamo anche per noi stesse. Riflettiamo un attimo su come è congegnato il corpo di una donna: questo corpo leviterà, questo ventre si ingrandirà, il petto aumenterà di volume, verrà fuori questo latte, il bambino nascerà, è una cosa strabiliante.

Tu hai avuto figli?

No, non ne ho mai voluti coscientemente, non ho mai voluto creare una famiglia. Ho rischiato sempre molto.

Non ti sei mai neanche sposata?

No, io sono’ contro il matrimonio. Ho vissuto con uomini che ho sopportato relativamente, perché adoro essere libera, mi piace la mia indipendenza. Penso che il denaro sia necessario per non dipendere da un maschio per una cena, per il letto, assicurato. Ho sempre lavorato, se non ho soldi salto il pasto. E’ anche molto importante che il corpo si mantenga in salute, scriverei un manuale per questo, se sei malata sei molto più preda degli altri, se sei sana e forte puoi opporre più resistenza. Il corpo va nutrito, curato, allontanato da tutto quello che lo può rendere vulnerabile. Altrimenti cominci ad avere bisogno di quello che ti porta il brodino, o la famiglia di nuovo arriva coi suoi tentacoli per fagocitarti. Per quel che riguarda i figli, ero talmente orgogliosa di me stessa che non volevo che nessun maschio, anche se lo amavo, osasse fare di me qualcosa che potesse dipendere da lui, perché in fondo la moglie, la madre, finisce col dipendere dall’uomo. Non avrei saputo come fare per mantenere un figlio da sola, data la società ho voluto rinunciare a questa che è una grande possibilità della donna. A patto però che resti tua. Adesso sì farei figli, ma li terrei io, non mi interesserebbe il nome del maschio, la famiglia. Non sento comunque la mancanza dei figli. Chi, della mia generazione, ha puntato tutto sui figli, si trova difronte a tanti fallimenti.

Ferreri, con ‘‘L’ultima donna», ha scoperto l’acqua calda. Jules castra Siro per non essere castrata. Riconosci anche oggi questa proposta di violenza, o meglio, di dirottamento della violenza da se stesse?

Ah, sì, anche oggi, Donne, ragazze, violentate continuamente. Il gesto di Jules è un gesto di ribellione, un gesto contro tutti.

Anna Drei, nel ’47, si suicida. I rapporti tra i personaggi di questo libro sono rarefatti, disperati. Oggi, col femminismo, si suiciderebbe?

In “Soltanto amore” un personaggio ne ha la tentazione, ma non lo fa. Anna Drei si suicida perché non le interessa più il corpo, ha la sensazione terribile che il suo corpo sia disseccato, come un albero che non ha più foglie né fiori. Perciò si uccide.

Ma anche perché in quel rapporto a tre nessuno prende in considerazione quel corpo. L’altra donna non lo sa valorizzare, non lo riconosce, assorbita dal rapporto col maschio.

Nessuno, sì, è vero.

Mentre Jules dice “Non sarò mai una vera donna, lo sento», la sessualità della protagonista di ‘‘Soltanto amore» sembra accettare a livello sessuale, certi stereotipi che Jules non avrebbe mai accettato.

“Soltanto amore” io l’ho scritto quasi per rivincita contro la ragazza Giulio vilipesa, martoriata, portata in tribunale. Volevo andare a fondo dei problemi sessuali. La società va avanti, però travolge. Ho sentito di essere anch’io travolta e questo personaggio si lascia travolgere dagli eventi.

Mi aveva irritato l’amore verso il protagonista biondo, solare, quasi un indebolimento della rabbia di Jules. In realtà è un’affermazione di diritto al godimento, pone il problema tra l’essere se stesse e il proprio gusto sessuale, le proprie fantasie spesso acquisite, spetto ideologicamente contraddittorie.

La donna ha molta più fantasia dell’uomo. I miei personaggi amano molto il sesso, per fortuna.

Tu senti molto fortemente il problema della discriminazione tra i sessi, ma non hai mai lavorato in gruppi di donne. Come mai?

Io porto il mio contributo da isolata, in questo senso sono un po’ la ragazza Giulio. Spero di aver dato anch’io, se qualcuno, leggendo, si riconosce, se ho aiutato gli altri e le altre a capirsi.. Ma penso sia molto importante anche il lavoro individuale, la concentrazione, per esprimere la carica che senti. E, credi, la solitudine non è facile, è molto difficile. Io non scrivo “per me”. Io scrivo per un bisogno di essere capita e letta dagli altri.