dialogo

una donna nel regno della scienza

Abbiamo incontrato Rita Levi Montalcini, neurobiologo di fama internazionale, direttrice del laboratorio di Biologia Cellulare del CNR a Roma e vincitrice del premio St. Vincent 1979 per la medicina, secondo soltanto al Nobel. Oltre a dirigere uno staff di 80 scienziati in una delle più grandi istituzioni scientifiche d’Italia, ha una cattedra alla Washington University di St. Louis, negli USA. E’ una donna piena di vitalità e di “sense of humor”, particolarmente sensibile ai problemi della condizione femminile. I suoi lavori sono fondamentali. Ha infatti contribuito alla scoperta del fattore di crescita nervoso (NEG), una proteina che fa crescere e sviluppare certi nervi. Ci dice di non aver avuto difficoltà, come donna, nel suo lavoro. In realtà alcuni ostacoli lì ha incontrati, primo quello del padre che le ha impedito di proseguire negli studi…

settembre 1979

casualmente mi è stato offerto il cosiddetto potere…senza che io lo desiderassi “

Lei ha lavorato negli Stati Uniti prima di essere chiamata come direttore dell’istituto di biologia cellulare del CNR…

“Mi sono laureata in Italia, in medicina, poi mi sono specializzata in psichiatria, malgrado fossero già in vigore le leggi razziali. Per un’eccezione mi è stato permesso di dare gli esami di specializzazione, quando già chi era di razza ebraica non poteva più farlo. Ma io grazie all’intervento di una persona che sapeva anche che io ero antifascista — e lui era un grosso fascista — non sono stata ostacolata. Negli Stati Uniti ho fatto ricerca e all’inizio ho insegnato, ma non ho frequentato l’università. Forse per le condizioni favorevoli dell’ambiente della ricerca non ci sono stati attriti, o difficoltà, né a livello di rapporti con i colleghi, né con gli studenti”.

Ma questa la ritiene una cosa eccezionale, diciamo, rispetto all’atteggiamento nei confronti in genere delle donne?

“Non penso si tratti di una situazione eccezionale, forse si tratta del campo che favorisce questo. Certamente la donna, nella libera professione, è handicappata. Pensiamo alla professione di medico, se una donna vuole fare carriera nel campo della chirurgia, ad esempio, un campo considerato maschile, trova senz’altro difficoltà. Io probabilmente se mi fossi formata in Italia, se avessi cercato di ottenere una cattedra universitaria avrei incontrato difficoltà. Se nel ’46, quando sono stata invitata negli Stati Uniti, avessi posto la mia candidatura per una cattedra avrei trovato problemi maggiori, ma a me interessava la ricerca e siccome non si identifica la ricerca con il potere allora non c’è la caccia. Alla donna è permessa la ricerca fin dove lei non costituisce ostacolo. La mia situazione è abbastanza comune dal punto di vista della donna ricercatrice, gli ostacoli invece si trovano appunto quando si va a cercare una netta presa di posizione a livello accademico, dove si ricerca potere. Casualmente a me il cosiddetto potere è stato offerto, sono stata nominata direttore dei laboratori del CNR senza che lo desiderassi, anzi contro la mia volontà. Le donne in genere sono ostacolate laddove c’è l’urgenza del guadagno. Io stessa ad esempio mi sono trovata in una posizione sgradevole quando ho dovuto affrontare un problema che riguardava appunto le donne: il CNR nel 1973 cercava del personale tecnico. Mi era stata proposta una giovane donna, nell’età di avere un figlio. Sono stata molto esitante nell’accettare, perché il CNR mette le donne in posizione di notevole gravità, le donne in laboratorio diventano un peso. Ma non è colpa loro, bensì delle leggi che la rendono un peso per i datori di lavoro, lo stessa mi sono trovata dunque nella difficoltà di accettare una persona, che so per mia esperienza, a livello tecnico darà una prestazione minima nell’età della riproduzione, cioè diciamo dai 15 ai 35 anni. Allora preferisco una donna che ne abbia 36, dalla ‘ quale non ci si può aspettare questo. Io potrei essere dunque accusata di antifemminismo, cosa che è all’opposto dei miei desideri, perché per il bene del laboratorio ho cercato di non prendere donne…

Questo naturalmente non è da imputare alla donna, ma al CNR e ai sindacati i quali danno troppe vacanze, anche quando non è necessario”.

Le domandiamo se però a questo punto una donna che voglia fare ricerca debba rinunciare al rapporto con l’uomo, con i figli, e a quello che si chiama “godersi” i figli… anche nel caso in cui possa trovare collaboratrici…

“Per me godersi i figli vuol dire avere un rapporto più spirituale, più elevato, cosa che si verifica proprio laddove le donne sono soddisfatte. E a questo appunto dovrebbe
pensare la società, a facilitare questo rapporto. Ma non penso che godersi i figli voglia dire stare dalla mattina alla sera a loro disposizione, questo non è un godimento, ma
un falso rapporto fra madre e figlio. Ed è anche evidente che ad una donna deve essere concessa la possibilità di avere figli. Guai se così non fosse! Ma non vedo come una carriera ben fatta possa interferire nel rapporto madre-figlio, anzi… nel laboratorio qui ci sono delle donne che hanno ottimi rapporti con la famiglia e con i figli. Ma naturalmente non è sempre così”.

Ma questo, ci sembra in contraddizione con quanto affermato prima…

“No, quello che dicevo prima, è che le donne sono spinte a prendere i massimi vantaggi dalla gravidanza, la società concede delle vacanze assurde per la maternità — cosa che ad esempio in America non avviene, le mie assistenti infatti si ritiravano al massimo una settimana prima del parto, mentre qui ci sono cinque mesi di permesso prima e un anno dopo. La gravidanza è un fatto fisiologico, non. è una malattia. Se la si considera una malattia, si trasforma la donna in un peso, poi non la si aiuta dopo quando realmente ne ha bisogno, per esempio con gli asili nido. Mi sembra di aver detto dunque delle cose molto diverse. Volevo chiarire che è la società ad imporre alle donne questa figura di malata, quando invece l’attesa di un figlio dovrebbe comportare altro… Nel caso dell’attività di ricerca, in un laboratorio come questo, si tratta di lavorare a tavolino. Certo se le donne durante quei cinque mesi non sono assistite sul lavoro, naturalmente vengono messe nella condizione di aver paura di qualunque cosa,..”. –

// colloquio continua sul tema sempre dei rapporti con la famiglia, l’asse del discorso si sposta questa volta però nel campo del rapporto con l’uomo, e con la competitività.

Fare ricerca significa fare comunque una scelta in qualche modo di competizione… in genere non è una “caratteristica” femminile quella di mettersi nella gara…

“Questo fa parte del ruolo “submissive” della donna. Lo so, purtroppo le donne hanno paura ad entrare in sede competitiva, perché l’uomo preferisce una persona che abbia un ruolo inferiore, ma non è questo che dobbiamo incoraggiare. Purtroppo di questo ne soffriamo perché sin dalla nascita la donna è portata a ritenere che le sue qualità, quelle che possono “attirare”, non sono quelle dell’intelligenza. Ma sono banalità quelle che sto dicendo…”.

No, le rispondiamo, sono invece molto interessanti. Ma le vogliamo chiedere se poi secondo lei, il fatto che le donne in genere rinuncino alla carriera sia strettamente legato a fattori culturali… Naturalmente, ci risponde, ma ci sono anche casi opposti, quelli in cui il trovarsi di fronte a difficoltà può rappresentare un incentivo. E’ il suo caso: “Io sono di quei casi, ci dice, in cui le difficoltà di cui abbiamo parlato danno risultati opposti. Provengo da un ambiente vittoriano che considerava la donna come destinata al matrimonio. Cosa curiosa, perché poi mio padre credeva moltissimo nei valori intellettuali e spirituali dell’individuo, però nello stesso tempo considerava che nella vita della donna non ci fosse la possibilità di conciliare una vita culturale ed una intellettuale. Naturalmente non è detto che io poi vi sia realmente riuscita. Ma tutto questo è stato per me un incentivo ad andare contro le regole… Le donne, prosegue, si trovano diversamente, rispetto alla cultura ed alla vita intellettuale in genere, che una persona povera ad esempio: sono come poste in uno stato di attutimento delle loro capacità, cosa che le rende depresse e poco combattive. La maggior parte delle donne allora si adegua a questo stato, non reagisce. Si favoriscono in lei le facoltà femminili, a danno delle altre, senza tuttavia che lei si renda conto di essere una vittima”,

Ma il suo, diciamo noi, è stato un caso eccezionale in questo senso.

“Sì, il mio è un caso eccezionale, disprezzavo tutte quelle che erano le qualità estetiche, rifiutavo di abbellirmi, questo fino alla morte di mio padre in particolare, rifiutavo di diventare solo una madre o una moglie. Ho puntato l’attenzione su cosa avrei potuto fare di meglio nella vita. Questo non è stato lottare, ma realizzare me stessa, in qualunque campo. Agli inizi avevo molti interessi nel campo del sociale, poi mi sono laureata, poi… è capitato quello che è capitato e mi sono indirizzata alla ricerca. La donna in genere è deviata da una tendenza della società a mostrarle che invece quelli sono i valori… e ci vuole molto tempo prima di riconoscere che invece non sono quelli”.

Ma, le chiediamo, nella sua vita non ha mai avuto un momento di dubbio, non ha mai sentito che rispetto alle scelte che lei faceva, scelte in qualche modo “controcorrente” ci fossero dei momenti di contraddizione… “Se parlate del matrimonio, mi sono ritirata tante volte… e direi che è una delle poche cose di cui penso che non ho sbagliato. In me c’era un’urgenza molto viva, non so… potete leggere la mia storia, quella che ho presentato al MIT, li racconto come è iniziata la mia vita. Naturalmente lì è molto forte il discorso razziale, è messo molto in evidenza quanto durante il periodo razziale ho sofferto. Posso ancora dire che ho veramente sempre evitato una vita casalinga, così come ho evitato il matrimonio. Non ho niente contro il matrimonio, ma non mi è capitata l’opportunità di trovare una persona adatta. La cosa migliore per una donna non è vivere sola, non è dedicarsi solo ad una cosa”. Quando assume la direzione del laboratorio del CNR, nel 1973, invece di fare un discorso “accademico”, parla della condizione femminile. Le reazioni sono praticamente nulle, nessuna risposta alle sue dichiarazioni viene da parte delle donne presenti. Di questo argomento dice che non ha voluto né fare il discorso classico, tipo signori, oggi sono la direttrice del laboratorio di biologia cellulare, né “prendere posizione”, insomma non ha voluto né affermare il proprio potere, né ancora alzare una bandiera parlando delle donne. “L’ho fatto, dice semplicemente, perché ero impegnata nella ricerca di alcuni aspetti della condizione delle donne nell’800, del movimento di liberazione di allora, e mi è sembrato logico parlarne. Penso che in certi momenti, continua, sia più importante occuparsi della politica che della ricerca e in quel caso mi sembrava più importante parlare della condizione della donna”. Ritorniamo ancora alla sua biografia, diciamo quella privata.„

“Eravamo tre ragazze e un fratello in famiglia. Mio padre come ho detto veniva da una famiglia con una forte tradizione intellettuale e culturale. Ma per noi donne ci fu la decisione di non mandarci all’università. Così fino a ventun anni ho sofferto di questa condizione, sinché non ho più accettato questa imposizione, non mi interessava la vita “normale”, insomma attendere un marito e così ho avuto da mio padre il permesso di studiare. In un anno ho fatto tutti gli esami di licenza liceale, sono entrata a medicina con l’intenzione di diventare un medico, Poi c’è stata la questione antisemita e ho perso questa possibilità. In realtà in casa mia non c’era un’ostilità palese, e non ho dovuto, come dire, sbattere le porte con mio padre, del resto ero troppo timida per farlo. Mio padre ha capito che volevo studiare e finalmente ha accettato. Mia sorella Paola, la mia gemella, ha poi anche lei seguito la vita che desiderava, è diventata pittrice e scultrice. Lei è una persona molto diversa da me e molto meglio di me, per lei le cose sono state più difficili. Ha molti meno riconoscimenti che se fosse stata un uomo, di questo lei ha sofferto più di me. Non mi pare di poter dire altro, se non cose di una banalità estrema! L’unica cosa ancora che vorrei dire è che credo come tutte voi in questo movimento. Il mio solo desiderio è che si realizzano delle cose, che la donna abbia una sua dignità”.

Il colloquio sembra così terminato, in realtà si è continuato a parlare delle lotte delle donne di questi anni, della lotta dell’aborto, in particolare, ed è ancora riemersa la difficoltà, quell’unica difficoltà, poi superata, di non aver potuto studiare, quella dell’antisemitismo, argomenti mescolati a quello del suo rifiuto a vestirsi e ad abbellirsi troppo, il suo desiderio di volersi imbruttire, come lei stessa ha detto, questo almeno fino alla morte del padre, cosa che ci ha chiesto se accadeva ad altre donne. Le abbiamo risposto che accadeva anche ad altre donne.