e se fosse autarchia?

ottobre 1974

I monumenti e i palazzi dei nostri centri storici e le strade delle nostre città sono di nuovo illuminati. Noi esseri civilizzati che abbiamo ancora una ancestrale e incontrollabile paura del buio ne siamo fanciullescamente felici. Possiamo di nuovo camminare per le strade e per le piazze godendo delle luci delle vetrine e del caos del traffico, sentendoci di nuovo nel migliore dei mondi possibili. Possiamo camminare e ammirare. Ammiriamo, dunque. Piazza Navona, a Roma. A sera, il famoso caffè che ha esteso come una lebbra i suoi tavolini a quasi metà lato della piazza non ha un posto libero; gente aspetta in piedi di potersi sedere a sua volta. La consumazione più banale, un gelato, costa da un migliaio di lire in su a testa. I tavolini gremiti sono carichi di gelati. Trastevere, a Roma: ristoranti altrettanto famosi trasformano praticamente il quartiere in un’area di ristoro all’aperto, per un prezzo che oscilla tra le cinque e le diecimila lire a testa. I tavoli sono tutti occupati, e non tutti da turisti americani. All’ora dell’aperitivo, due volte al giorno, i due caffè famosi di Piazza del Popolo sono affollati quanto le piazze di paese il giorno del mercato settimanale. Fra il traffico di nuovo lento e intasato della città la solita Lamborghini parte a razzo per passare da velocità 0 a velocità 180 km. all’ora a velocità 0 nel tratto di cento metri fra due semafori. Nelle inserzioni del giovedì e della domenica vengono pubblicamente offerti in fitto appartamenti «prestigiosi» a mezzo milione e a un milione al mese. Sulle spiagge alla moda innumerevoli donne hanno indossato il tanga, in qualche località messo in vendita e presumibilmente comprato a 25 mila lire il pezzo. Tutto questo prende il nome di «austerità».

In effetti, l’italiano è una lingua molto maltrattata. Nelle mani dei burocrati, di certi politici, dei critici letterari e dei critici d’arte, è diventato di una fumosità tortuosa, di una quanto mai compiaciuta imprecisione esoterica, che non hanno riscontro in nessun’altra lingua. Fra le abitudini di questo pseudo linguaggio, c’è quella, apprezzatissima, di oscurare invece di chiarire, di adoperare una locuzione impropria invece di una propria: parole e frasi stanno ad adombrare e a significare altre parole e altre frasi. Per questa ragione, è molto probabile che il termine «austerità», che secondo il dizionario significa «severità di modi e di costumi», «rigidezza nell’osservare e nel fare osservare le regole», stia lì, nel linguaggio della nostra classe dirigente, per significare «presa per il culo». Per un’altra caratteristica implicita di questo linguaggio cristiano, «culo », in Italia, significa sempre e soltanto «culo dei più poveri». Di fronte al dramma della pasta aumentata di quasi il cento per cento nel giro di un anno, «una tantum» di centomila lire sulle barche di lusso non può, nemmeno per imprecisione di linguaggio, nemmeno per stupidità o per ipocrisia, prendere il nome di « austerità ». Di fronte alle tragiche difficoltà in cui la stretta creditizia ha gettato le piccole e medie imprese, di fronte alla cassa integrazione e allo spettro della disoccupazione per centinaia di migliaia di lavoratori, non regge il vaniloquio di sacrifici da affrontare insieme — insieme a chi ancora dà feste da nababbi. Di fronte al dramma che è per una famiglia tipo di ceto inferiore e medio dover spendere dalle venti alle cinquantamila lire in più al mese per mangiare, le venti o cinquantamila lire in più di chi non deve usare tutto il proprio denaro solamente per sopravvivere non significano assolutamente nulla. Chi usava andare l’estate (e in altri periodi dell’anno) in vacanza in luoghi di favola, esclusivi, in alberghi di lusso a trenta e più mila lire al giorno, ha continuato ad andare in vacanza. Chi usava scorrazzare in panfilo privato da Montecarlo alle Seychelles, ha continuato a scorrazzare; è chi andava in vacanza ad Ostia, che se ne è restato a casa. La diminuzione del consumo della benzina sbandierata come dimostrazione della giustezza della politica della stretta fiscale non è stata ottenuta tenendo ferme in garage le Mercedes e le Porsche, ma le seicento e le millecento. Sulla busta paga dei redditi fissi, le evasioni fiscali non sono possibili. Per ogni famiglia che paga mensilmente un fitto da 300 mila lire in su, cento famiglie di baraccati invadono disperate appartamenti costruiti e mai abitati e ricevono il nome di «abusivi»: la casa, in Italia, oggi, per una certa categoria di persone, è un «abuso»: e la polizia le respinge a colpi di mitra. Per ogni bambino che va in vacanza a Gstaad o su una costa di smeraldo, cento bambini passano l’infanzia intera per le strade, senza campi da gioco, senza spazio né fisico né umano, nelle nostre città e nelle nostre miserabili periferie. Per ogni donna che indossa un tanga, cento donne indossano abiti vecchi su corpi sfiancati e vanno a servizio a ore per far quadrare il da sempre precario bilancio familiare.
D’essere presi per il culo, a noi italiani, in fondo, stupisce poco. Dentro di noi sappiamo che in Italia siamo ancora all’epoca feudale, con zone isolate che sono avanzate all’epoca borbonica.
Siamo ancora sempre divisi in ricchi e poveri, in sfruttatori e sfruttati. Se le classi dirigenti, per antica tradizione, ci tradiscono, noi, per antica tradizione, non sappiamo dire loro «traditori».
Assistiamo alla corruzione, alle speculazioni, alle concussioni, e non sappiamo dire «traditori». Ci vediamo mentire spudoratamente, sulla faccia, da ministri in carica che ci dicono per esempio che noi abbiamo regolarmente ricevuto la posta che non ricevemmo mai; la situazione sanitaria è un caos; vediamo gli organi del potere fermare apertamente inchieste della magistratura, e insabbiare subdolamente indagini sulle più macroscopiche corruzioni; ciascuno di noi ha una conoscenza diretta della rete di nepotismi, dei giochi clientelari, delle raccomandazioni e delle protezioni che controllano gli impieghi di ogni genere e tutta la vita pubblica; e ci stringiamo nelle spalle, subiamo. Per antica abitudine ; ancora pensiamo a torto che il mal uso del potere sia da sempre parte del potere, da sempre componente inevitabile della nostra vita. E con questo atteggiamento fatalistico assistiamo impotenti alla nostra discesa verso un baratro sempre più vicino. Ma forse neanche questa discesa è un fatto accidentale. Se, dopo averci consigliato di fare la pasta in casa, ci consiglieranno di coltivare il grano nei vasi da fiore del balcone, e se, per un lapsus, gli sfuggirà detto «autarchia» invece di «austerità», sarà chiaro con chi abbiamo a che fare. Forse la classe dirigente che abbiamo mandato in parlamento credendo alla sua parola d’essere antifascista, dopo averci tradito quotidianamente per venticinque anni sta oggi, per inettitudine o per determinazione, compiendo I’ultimo tradimento.