continua il dibattito sulla donna e l’informazione
Questi sono tre interventi, diversi nel tono e negli scopi, che ci sono arrivati in seguito al discorso che abbiamo aperto nel numero scorso sulla stampa e sulla comunicazione attraverso giornali e radio. Sono due voci a dall’interno» dell’informazione che critichiamo e una da quella che cerca di essere alternativa. Ve li proponiamo come ci sono arrivati.
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se tante volte ho pensato di scrivervi con tutt’altro atteggiamento e su altri argomenti, mi dispiace di doverlo fare per la prima volta spinta dall’incazzatura e, ritengo giustamente, offesa dal sentirmi definita una «donna di penna», che del femminismo sa pochino e che forse spera di impararlo rubando risposte con domande idiote fatte a bruciapelo o infiltrandosi nelle riunioni dei collettivi femministi per orecchiare e scrivere quattro cazzate. Scrivo, naturalmente, a proposito dell’articolo «Sbatti il rosa in prima pagina», che si riferisce al mensile «Lei» di cui sono «collaboratrice». Dunque, compagne, voi vi indignate nel leggere questo numero della rivista che io, come voi, vedo per la prima volta in edicola, poiché non sto in redazione ad «orecchiare, fraintendere, spiare fuori dalla finestra, strumentalizzare alla moda», e partite in quarta vomitando odio per chi scrive su questo mensile. Sembra che qualcuna si sia dimenticata cosa significhi essere donne e lavorare nel campo della carta stampata, fuori dei canali di movimento. O forse che dire che per le collaboratrici esterne dei giornali, in particolare nel settore dei femminili, la situazione non è allegra, che si rischia continuamente di venire strumentalizzate perché non esiste controllo sul materiale prodotto, età, ere; è diventato per voi solo argomentazione con cui sciacquarsi la bocca ai Convegni? Tutto questo ve lo dico non per sfogarmi istericamente della rabbia che provo nel sentirmi paragonare ad un «avvoltoio misogino» (non è bello!), ma perché mi interessa, come mi ha sempre interessato, confrontarmi con le altre donne sulle mie scelte e le mie contraddizioni.
Non accetto assolutamente, invece, di salire sul banco degli accusati, come la violenza della vostra presa di posizione sembra esigere, per difendermi dall’accusa di una pratica mistificante che non ho mai usato. Capirete perché poi mi sfiora il dubbio della malafede quando, in risposta alla denuncia delle compagne di Roma contro una collaboratrice della stessa rivista che si è, evidentemente, comportata in modo scorretto, mi vedo citata come responsabile della faccenda, insieme ai nomi di altre due collaboratrici che conosco quanto voi e rispetto a cui ho lavorato autonomamente. E dire che lo sapete come vengono fatti i giornali e come vengano usate le collaborazioni!
Non posso non dirvi, a questo punto, e non per giocare al rilancio delle accuse ma perché lo sento proprio in questo modo, che chi ha scritto l’articolo «Sbatti il rosa in prima pagina», in questa occasione almeno, si è comportata esattamente come quei giornalisti contro cui giustamente inveisce, che giudicano prima di conoscere o non se ne preoccupano proprio, e ricordano tanto la regina di cuori di Alice quando esclama «Tagliate la testa», ed esige l’esecuzione della sentenza prima del verdetto!
Se la contraddizione fra il mio modo di essere donna e il mio scrivere su un giornale non di movimento, certamente esiste (e non è piacevole), non ho mai cercato di mascherarla, sdoppiando me stessa o presentando il giornale su cui scrivo per ciò che non è; nelle inchieste che ho fatto, ho intervistato molte compagne femministe, a proposito di diversi argomenti, che hanno accettato o meno di rispondere, senza che nessuna di loro abbia mai avuto motivo di lamentarsi di essere stata ingannata o travisata, e da nessuna di loro sono mai stata investita da una scarica di violenza e aggressività quale quella che voi mi riversate addosso.
Mi spiace se da questa mia trasuda incazzatura ad ogni parola; ma penso siate in grado di capire il mio stato d’animo.
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Sono una delle persone a cui fa riferimento la lettera a pag. 12 di Effe giugno, e precisamente Vivia Benini di Roma; vorrei rispondere alle studentesse del Liceo’ Virgilio. Quando dalla redazione del giornale «Lei», del quale avevo visto il numero zero e il primo numero, mi hanno chiesto di fare un’inchiesta sul femminismo, sono stata contenta (cretina), non trovando che la domanda «cos’è per te il femminismo?» fosse particolarmente «idiota», dato che almeno per me significa ed ha significato qualcosa di ben preciso. Mi sono poi resa conto di come questa domanda possa facilmente diventare «idiota» se viene fatta a 20 persone alle quali si dedicano quattro righe ciascuna. Tanto meno pensavo di «rubare» risposte, orecchiando nelle assemblee e nelle feste delle donne, perché, militando in un collettivo femminista da un anno, non credevo di averne bisogno. Che «Lei», edizione italiana di Glamour, non fosse Effe o Sottosopra, me ne rendevo certamente conto, ma non ho rifiutato per tre ragioni: 1) essendo una delle tante disoccupate, non rifiuto lavori tanto facilmente, e questo lo consideravo un lavoro; 2) non pensavo, sbagliando, che la capacità di strumentalizzazione della stampa maschilista toccasse simili livelli di squallore e quindi ritengo di non essere stata ambigua ma purtroppo politicamente ingenua, il che forse è ancora più grave; 3) l’inchiesta mi interessava molto.
Sono andata al Liceo Virgilio, dove era in corso l’autogestione, e ho parlato con un gruppo di studentesse e studenti ai quali ho detto che l’intervista
sarebbe stata pubblicata sul mensile per giovani edizione italiana di Glamour, del quale sarebbe uscito o stava uscendo il primo numero. Più che fare un’inchiesta avevamo parlato insieme di molte cose, ed io ero uscita ancora più entusiasta di prima (cretina due volte!), Quando il numero è uscito con tutte le scritte che ben si sanno: femminil-femminista, frizzi e lazzi ecc. ecc., mi sarei sotterrata e infatti non ho nemmeno portato il giornale al Virgilio, come avevo promesso, ed ho sperato vivamente che nessuna o nessuno di loro lo vedesse. In seguito ho incontrato al Governo Vecchio una delle compagne studentesse e le ho spiegato che non avrei mai pensato che l’unico scopo di questo giornale fosse di recuperare qualsiasi tipo di «novità», (così loro chiamano evidentemente ogni movimento rivoluzionario) per ridurla a «Comprate! Comprate!».
Dissi a questa compagna, della quale non ricordo il nome, forse Camilla, di riferirlo alle altre e certo non mi aspettavo, dato che ho avuto ancora occasione di vederle al Governo Vecchio, che zitte zitte, mi facessero il processo sottobanco, senza neanche venirmi a dire in faccia quello che pensavano. Forse, compagne del Virgilio vi siete sentite più femministe parlando solo fra voi di questa cosa? Vi siete per caso chieste, invece di lanciare accuse a destra e a manca che in tutta questa storia, se voi vi siete sentite sfruttate, in realtà, sono stata sfruttata e strumentalizzata anch’io in prima persona e per di più ora mi trovo e mi sento anche isolata, e questo non è successo a caso, perché, secondo me, ci siamo lasciate intimorire e ‘dividere dal solito /vecchio strumento maschilista: quello del potere. Avrei voluto fare con voi autocoscienza su questa contraddizione che mi sto vivendo e trovare un modo comune per ribellarci a questo episodio di strumentalizzazione culturale.
una ipotesi di nuova comunicazione
Lo strumento radio è diverso per vari aspetti dalla carta stampata: non è cioè un momento di ricomposizione a posteriori con forti mediazioni intellettuali e politiche, ma un mezzo immediato che permette di essere «nei fatti» mentre stanno avvenendo. Per noi la cosa è emersa evidentissima nei giorni dei gravi incidenti dell’I 1 e 12 marzo a Bologna. Ma veniamo alla situazione delle donne nelle emittenti cosiddette libere. Abbiamo fatto una breve inchiesta tra una ventina di radio che operano a Bologna e nella provincia. I dati emersi sono sconsolanti; in alcune radio non ci sono donne in redazione, e nelle altre le pochissime donne (da una a un massimo di cinque su una media di 20-60 uomini) si sono inserite in un progetto del tutto maschile, trovando la loro collocazione o come segretaria, o in qualità di disc-jockey e di vallette e in due casi come «esperte di problemi femminili». In molti casi si tratta di studentesse che non hanno l’immediato problema della sopravvivenza. Le uniche tre situazioni diverse si verificano in radio non commerciali di sinistra, Radio Alice, Radio Quartiere e Radio Città. Radio Alice e Radio Quartiere non hanno donne in redazione ma sono aperte ai collettivi femministi che le usano in modo autonomo. Radio Città (la nostra) ha 4 donne su circa 25 uomini. Noi lavoriamo in redazione come uomini, facendo quello ohe fanno loro; ma questa presunta parità viene raggiunta a scapito di tutto il nostro essere donne e ci costringe alla schizofrenia tra il pubblico e il privato, costringendoci ad assumere modelli maschili per poter competere con loro. Dal disagio che ne derivava è nata la nostra volontà di avere uno spazio di sole donne: abbiamo chiamato questo spazio «LA RADIA».
La sua gestione è affidata a un gruppo variabile di donne con ruoli completamente interscambiabili: emergono spesso anche i problemi che lo stare insieme comporta, la fatica di dover partire da zero. Ora stiamo affrontando in particolare il problema della comunicazione e del linguaggio. L’ipotesi di una comunicazione femminista è tutta da creare proprio a partire da un linguaggio che, così com’è, è veicolo di trasmissione di valori che di solito ci sono ostili e ci offendono. La lingua che usiamo è infatti espressione del predominio maschile e non può costituire per noi un mezzo di espressione sufficiente. La donna che scrive è costretta a prendere coscienza della brutalità e dell’aggressività di essa. Basta riflettere sul significato dei termini. Un medesimo termine può acquistare un significato diverso se è usato al maschile o al femminile, e ancora più specificamente in quei casi cui il termine, se usato al femminile, acquista un’accezione peggiorativa: pensiamo al diverso valore che il termine professionista assume nei due casi: l’uomo, il professionista, evoca una immagine positiva, di capacità e di serietà; la donna, la professionalista, diviene sinonimo di prostituta, come se alla donna venisse riconosciuta una competenza solo nel campo della mercificazione della sessualità. Del resto non è neppure un caso che, in grammatica, il genere maschile valga per tutti, mentre quello femminile per vederlo, deve essere sottolineato con qualche caratteristica specifica. Gli esempi potrebbero continuare a lungo e dimostrano sempre la stessa cosa: il termine, al femminile, viene ad evocare più spesso riferimenti sessuali di quanto non accada per il termine al maschile, quasi a voler imporre un ruolo definito una volta per tutte. Pensiamo alla violenza di tutte le espressioni che riguardano il coito, a come queste espressioni impongano ancora e maggiormente alla donna un ruolo passivo, e investano l’uomo del ruolo di protagonista: gli esempi continuano, non solo riferiti alle parole, ma al modo in cui esse vengono usate e alla loro intonazione. Il fatto che esistano atteggiamenti verbali definiti da «maschiaccio» e quindi volgari e duri, e invece toni cantilenanti definiti graziosi e dolci, ribadisce come fino dalla più tenera età anche tramite il linguaggio le donne vengano spinte dal desiderio maschile ad essere il più sottomesse e remissive possibile. A questo proposito è interessante osservare i risultati di una ricerca sulle leggi che regolano il linguaggio nel suo uso interpersonale (Fishman). Il materiale è stato raccolto in situazioni pubbliche di vario tipo. Risultati: in una conversazione uomo-donna, se uno degli interlocutori p interrotto, protesta e cerca di finire il discorso. Per la donna la situazione è diversa: nel corso di un esperimento gli uomini hanno interrotto la battuta della donna 46 volte contro le due volte in cui è successo il contrario: delle interruzioni maschili, il 25% aveva la funzione di correggere o di rimproverare la donna, e la cosa più esemplificativa è che, mentre nel rapporto bambino-adulto, il bambino interrotto (tenta di riprender il sopravvento, la donna se interrotta non riprende il discorso ma entra in fase di silenzio. I ricercatori (hanno commentato questo fatto con la supposizione che le donne abbiano interiorizzato la situazione e quindi imparato a stare al posto loro. L’ordine linguistico come quello politico è dunque il risultato di una prevaricazione maschile. Per questo il linguaggio della cultura dominante è come una ragnatela di cui bisogna diffidare per non rischiare di restare invischiate. Di quali codici servirsi allora; o come inventare un nuovo codice? Ci hanno per ora provato femministe come Valerie Solanas o Veren a Cixousama in altre lingue. Su questo dobbiamo fare chiarezza; le donne che hanno voluto competere col mondo maschile han avuto finora due strade: una è quella della mimesi; mimetizzarsi da uomo lasciando dietro sé i rottami della propria femminilità. Negri travestiti da (bianchi, con i capelli stirati, bianchi ormai in tutto con una ridicola pelle nera. Ma poiché non vogliamo diventare uomini con la vagina, castrati del personale, vogliamo recuperare tutto ciò di cui ci siamo vergognate finora: questi saranno i nostri nuovi valori, non femminilità da rotocalco, ma specificità di donne da esprimere con forza. Questa è l’unica diversa strada che abbiamo da percorrere, quelle dello scontro decisivo, del rifiuto del travestimento come della divisione dei ruoli. Non ci interessa una carriera giornalistica in strutture mastodontiche di potere maschile, perché non ce la sentiamo di pagare i costi personali di una lotta impari, crediamo invece nella possibilità di ritagliarci uno spazio nella prospettiva di costruire una radio tutta di donne, come un momento necessario di una fase di crescita e quindi di conflitto.