Venezia

chi di mostra colpisce…

giugno 1978

terza ed ultima puntata della pesante diatriba sulla mostra-mostro. Patrocinata dall’assessorato alla cultura e messa in piedi dal grafico di Paese Sera, Giulio Italiani, che non manca di usare l’appalto ottenuto dal Comune di Venezia come referenza per ottenerne a Roma un altro di due miliardi (negatogli), la mostra sui manifesti delle donne, che sarà senza dubbio tecnicamente ineccepibile, frutta ad uno studio decine di milioni e alle donne lascia l’ironica sorte di vedersi interpretare con criteri di cui non sono a conoscenza, bensì a completa discrezione degli organizzatori (non ci interessa se ci sarà qualche nome femminile di copertura). È evidente che l’organizzazione di una mostra è un fattore culturale ancora più determinante dei singoli pezzi esposti (o NON esposti): perfino l’UDI di Roma, prima di dare i manifesti al grafico, aveva preteso garanzie di come sarebbero stati presentati: garanzia che l’UDI può avere, ma non tutto il movimento delle donne. La mostra, si svolgerà parallelamente a convegni pensati come supporto «femminista» all’iniziativa. I convegni assorbiranno altro denaro ‘(sembra 40 milioni, non più 20) e questo nonostante non esista il minimo di strutture per la donna. In un articolo uscito in febbraio avevamo esposto il nostro scetticismo per un’iniziativa che, in tempi di disoccupazione, privilegia iniziative culturali altisonanti, ma manca di studiare possibilità di assunzione e decentramento culturale per tutti, e per le donne in primo luogo, nei quartieri, nei consultori sempre vuoti, nei centri sociali chiusi, Certo che finché a Venezia si preferiscono le corse in bici, è probabile che possa passare per femminista un’iniziativa che a Roma sarebbe dell’UDI di destra. A questo proposito, ci siamo soffermate anche sulla collaborazione prestata da alcune donne femministe, e sull’ambiguo rapporto da loro tenuto con gli assessorati, che da una parte assumeva gli aspetti del lavoro non pagato (era pur sempre un servizio al comune), dall’altra si ammantava talora di pretese di prassi femminista, non mancando di coincidere con specifici interessi professionali delle singole. Queste compagne (Lia Chinosi, Adriana Bisconti, Gin Franco, Pia Miani) ci hanno attaccato sullo scorso numero senza minimamente controbattere i nodi centrali del problema, né d’altronde smentire alcun punto di quanto riferivamo, preoccupate solo di esibire un patentino femminista («non siamo prostitute e facciamo il lavoro domestico il meno possibile», beate loto) che nessuna gli aveva chiesto e di imputarci di pratica maschile. A prescindere dal fatto che a più riprese sono state invitate da noi a collaborare su Effe, e dal fatto che ci dispiace che sentano l’esigenza di fare inforrnazione solo per recriminare vittimisticamente (in modo piuttosto artificiale data la loro identità di militanti di vecchia data) ci meravigliamo che compagne con pratica politica decennale alle spalle abbiano ancora «la pia illusione che se il comune mette a disposizione dei soldi» ne conceda la gestione, a chi non si è neanche sognato di chiederla. Difatti la loro «proposta di gestione collettiva dei fondi» è successiva al documento del nostro collettivo sulla mostra-convegno: è facile rispondere dopo tre mesi, avendo avuto tutto il tempo di rappezzare «femministicamente» la cosa. In quel documento non veniva denunciata solo la carenza di gestione collettiva dei fondi, ma anche il fatto che già da un anno lo studio del grafico lavorava alla mostra (particolare che le nostre continuano a rimuovere) e il fatto che le liste delle disoccupate restavano una beffa, mentre trovava lavoro un supertecnico maschio e altro personale maschile, e loro stesse venivano assistenzialmente a sostituire servizi culturali inesistenti, Ma ancora sfugge alle compagne il nucleo centrale della nostra critica: non ci interessa assolutamente che loro percepiscano un minimo di stipendio dal comune per un po’ di femminismo da convegno, ma intendiamo politicamente affermare il diritto delle disoccupate a lavorare, in questo ed altri contesti (disoccupate che loro non sono). Eravamo e siamo sfavorevoli al; l’iniziativa non tanto per i contenuti sulle cui tematiche non abbiamo niente da dire, anche se ci sembra veramente troppo pacificatorie quello su «architettura-spazi donna», dopo lo sgombero della Casa della Donna a Mestre, ala cui occupazione aveva partecipato tutto il movimento (aspettiamo che sia il comune ad indicate la prossima casa da occupare?), e troppo pacifico, moderato, quello sulla letteratura — quanto per le modalità di gestione dell’insieme: difetti, se le nostre sono arrivate a pensai una gestione collettiva dei fondi, sembra impressionarle ancora troppo la prospettiva dell’autogestione, per la quale ci eravamo dette ben disponibili.
Non ci sembra politicamente valica l’accettazione incondizionata ed assolutamente non contrattuale rispetto alle proposte del comune. Per un mese, come collettivo, abbiamo cercato di confrontarci con le compagne, ma è stato un mese di inseguimenti infruttuosi ed appuntamenti mancati. Volemmo far capire loro (ma pare se ne siano accorte da sole, quando dicono: «le donne del PCI e del PSI si riuniscono privatamente e ci incazziamo») che la cosa andava affrontata tutte assieme e non a gruppetti di professioniste o militanti di partito: avevamo alle spalle l’esperienza dello spettacolo teatrale sull’aborto escluso all’ultimo momento dal programma degli assessorati l’anno prima e ce n’eravamo accorte. Manifestiamo alle compagne la nostra solidarietà per l’esclusione che hanno ricevuto, esclusione che non ha trovato loro solidali con noi.
E’ giusto anche precisare che la frase incriminata «11 femminismo non è un partito che si tacita dando potere ad dicline sue esponenti che isolate dalle altre, non solo non rappresentano il femminismo, ma non hanno alcuna forza contrattuale» non fa parte dell’articolo di Antonella, ma del documento del nostro collettivo. La frase, estremamente generale, è stata sentita dalle compagne come personalmente indirizzata loro.
E inoltre antipatica la manovra di Pendersela con Antonella, rendendole responsabile di tutto quello che è stato scritto: questo ha il sapore di stativo di isolare una singola per editare la fonte di informazione.

Savina, Emilia, Cristina