maternità

humor in amore

note sulla maternità. Una discussione nella redazione dei «cahiers du grif» in preparazione del numero «Madri-Donne».

giugno 1978

dall’insieme degli argomenti discussi ne sono emersi due principali. Anzitutto si tratta di distinguere la maternità dal femminile e di domandarsi se queste due nozioni e queste due esperienze si sovrappongono o no. Essere donna vuol dire necessariamente essere madre? e viceversa, essere madre, vuol dire essere donna in’ modo più completo, o al contrario non essere più donna?
In secondo luogo si tratta di mettere in discussione la nozione stessa di maternità, di scoprire ciò che copre, di liberarla da tutte le sovrastrutture che una cultura patriarcale de ha imposto e che forse non le appartengono. Essere madre vuol dire vivere la maternità così come ci è assegnata in uno schema che non definiamo noi stesse, o piuttosto questo schema non falsifica la nostra maternità? E ancora: se c’è maternità, le donne ne sono le sole responsabili?
Femminile e materno
Per lungo tempo, e ancora oggi, il femminile è stato confuso con il materno. Una donna è fatta per avere o allevare bambini (i suoi o eventualmente quelli degli altri) e, in mancanza, per coprire con le sue ali il mondo intero, incominciando dagli uomini.
L’esistenza di mezzi contraccettivi discutibili ma efficaci, e di sistemi abortivi semplici, permettono oggi, o dovrebbero permettere, alle donne di considerare la maternità (e a tutti l’essere genitore) come un atto libero e non come un fatto inevitabile. Siamo ancora ben lontane da ciò, ma i mezzi scientifici ci sono. Le donne oggi devono poter decidere non soltanto quanti figli vogliono avere e con quale intervallo, ma anche se averne o non averne. Invece la disponibilità di mezzi scientifici adeguati non pone fine alle abitudini e ai tabù culturali. Si conosce la resistenza di molti uomini e perfino di molte donne ad usarli. La libertà ha qualcosa di terrificante per quelle che hanno creduto di vivere secondo la legge di «natura». La libertà ha semplicemente qualcosa di terrificante. Per la Prima volta possiamo chiederci: perché ho dei figli? Perché voglio mettere al nido dei bambini? per dovere? ma “<* dove mi deriva questo dovere? E che senso ha un simile dovere in un mondo sovrappopolato? Per piacere? per il mio piacere? Certamente. Ma perché scegliere questo piacere invece di altri, come per esempio lavorare o creare?
Per la prima volta abbiamo la possibilità di realizzarci (e con nostra gioia) senza passare per la maternità. E già molte di noi, e sempre più numerose, affermano: essere donna non vuol dire necessariamente essere madre. L’essere madre anzi può a volte impedire a una donna di realizzarsi. Di qui l’urgenza di dare ad ogni ragazza il diritto ad una vera scelta, fornendole i mezzi tecnici per evitare la maternità, ma soprattutto cessando di farle pesare, nell’educazione e in tutte le strutture sociali, l’ideale della maternità. È certo che molte donne sono diventate madri per costrizione e non per un vero bisogno personale. Perché non c’era modo di fare altrimenti o perché tutti gli altri avevano figli, o perché la famiglia le premeva, o perché, senza figli, si sarebbero sentite a disagio nella società. Essere donna, oggi, significa anzitutto assicurarsi della propria esistenza e stabilirne le condizioni. Esistere di per se stessa, per se stessa. E se ancor oggi si interroga la non maternità: «perché non avete figli?», verrà il tempo, è già venuto, di interrogare la maternità: «perché avete figli?». Ma se essere donna non vuol dire necessariamente essere madre (dal punto di vista biologico o educativo), si può volere e si dovrebbe poter essere al tempo stesso donna e madre. Ora, date le condizioni socio-culturali e economiche della nostra società, la donna soccombe il più delle volte sotto il peso della madre (di se stessa in quanto madre), a volte per la pressione ideologica e psicologica e a causa delle condizioni materiali ed economiche che le sono imposte; dai doveri e pretesi doveri che le si impongono (ella non ne ha mai abbastanza) e dai carichi materiali e pratici da cui è sommersa.
Gli effetti del «maternato»
Il distacco dalla maternità biologica o perfino pedagogica non ci sembra sufficiente. La maternità non è solo un fatto per le donne, è anche un atteggiamento profondamente radicato in loro con l’educazione, nell’interesse di una società fallocentrica. È ora che le donne smettano di avere esse sole il ruolo di madri universali e in particolare di madri degli uomini; è ora che smettano di essere coloro che alimentano psichicamente e moralmente tutta la loro vita, senza che ciò venga mai riconosciuto. Perché le donne non mettono al mondo gli uomini una sola volta, li rimettono al mondo in continuazione. È con loro e in loro che essi vengono a riprendere forza per andare a costruire il loro mondo e produrre, ciascuno a suo modo, le loro opere. È con loro e in loro che vengono a trovar rifugio e consolarsi dalla violenza e dall’orrore di quello stesso mondo, svuotando così le donne della propria sostanza, della propria vita. Perché, se gli uomini possono, più facilmente delle donne, dedicarsi ad attività dette simboliche non è perché sono passati attraverso la castrazione, ma al contrario perché sono sicuri di ritrovare intatto lo stock di maternità e di «maternato» che si sono costituiti. «Mamme» o «puttane», le donne garantiscono loro questa sicurezza e questa riserva di vita. È per questo che essi possono impunemente assumersi il rischio della morte nel loro lavoro di «civiltà», la civiltà di Rembrandt e di Hiroshima.
Se questa riserva viene a mancare (quando le donne iniziano a esistere per se stesse), eccoli vacillare nella loro sicurezza e nella loro azione. Ma certamente devono passare attraverso questa scossa. Se il «suolo materno» si rompe sotto i loro passi, se le donne diventano donne, allora forse saranno obbligati ad essere più umani, a costruire città più serene, a sospendere i lavori forzati, forse metteranno della tenerezza in tutti i momenti e in tutte le forme di civiltà, forse a loro volta diventeranno delle madri. Quando non
ci saranno più madrine di guerra, forse le guerre cesseranno. La messa in discussione della maternità e del «maternato» e perfino lo sciopero della maternità e del «ma-ternato» di cui noi a volte avanziamo l’idea, può essere nient’altro che un momento tattico, una specie di politica della terra bruciata che prelude a una generazione del «materno» grazie alla quale tutti, uomini e donne, si alimenteranno affettivamente gli uni con le altre, e si dedicheranno gli uni e le altre ad attività simboliche. E può essere anche un modo per esorcizzare definitivamente un atteggiamento e una struttura alienanti per gli uhi e per le altre, un modo di far trionfare il mondo della sorellanza (della fratellanza) sul mondo fallocratico.
Essere madre, che cos’è?
L’immensità del peso della madre sul proprio figlio ci ha fatto riflettere. La maternità sembra, nel bene e nel male, paralizzante. E ciò è inevitabile fino a quando la donna-madre non si definisce che in base a questa sola dimensione, fino a quando investe totalmente se stessa in questa sua funzione, dedicandovi le sue migliori energie. La pesantezza del «maternato» si fa d’altronde sentire nella maggior parte delle relazioni, per esempio nella relazione coniugale: gli uomini sfuggono generalmente ciò che richiedono loro stessi. Essi perseguitano le donne con una richiesta contraddittoria: sii sempre là, ma non esserci; sii là quando ne è bisogno e sparisci. La dialettica del «maternato» richiesto e odiato investe tutte le relazioni eterosessuali. Gli uomini risentono, come le donne, di aver avuto una madre. Ma hanno il vantaggio di poter delegare i loro problemi a tutte le donne. Come liberarci dalle madri? Come non essere a nostra volta quelle madri materne, avvolgenti, che ognuno, è vero, reclama a gran voce? Noi pensiamo che nelle nostra società ci sia una ipervalutazione o piuttosto una valutazione errata della maternità che contamina e paralizza tutte le relazioni, e che è dettata dagli interessi della famiglia (borghese) in una società patriarcale. Pensiamo che, contrariamente alle apparenze, questo tipo di maternità non appartiene per niente alle donne — alle madri — ma è loro imposta in modo insidioso: essere madre, non vuol dire controbilanciare il potere del padre o della società maschile, ma rinforzarlo. È forse demistificando la maternità, così come ci è stata imposta, che diventeremo donne e che diventeremo anche madri diverse, madri-non madri, madri-figlie, madri-sorelle, portatrici di un affetto fuori dalla Legge. Poiché, mettere al mondo un bambino, o decidere di assumersene l’educazione, è forse potere o ambizione di provvedere a tutti i suoi bisogni, nell’ordine prescritto, vuol dire forse incollarcelo addosso? Un bambino ci è affidato, ma questo bambino non è mai il «nostro» (il nostro bene) e noi ne ne siamo né responsabili né colpevoli. Essere madre vuol dire stabilire un rapporto privilegiato con una o più persone, ma rapporti comunque relativi come tutti gli altri: la maternità ha bisogno di «humour» (distacco) e di capovolgimento dell’«humour».
Il fenomeno dell’adozione ci porta già un po’ a questo «humour»: il bambino è «un bambino che viene d’altrove», è un altro, fin dall’inizio. Egli circola e si ferma tra di noi. Ciò che diverrà non dipende da noi sole. Il fenomeno dell’adozione ci insegna che tutti i bambini provengono d’altrove, che sono i bambini di molti, che si scambiano in un certo modo e che, al limite, potrebbero ben essere «i bambini di tutti».
La madre non è Dio, né la madre di Dio. E forse cominciamo a respirare quando comprendiamo che in fondo nostra madre non ci doveva niente, quando viviamo nostra madre come una figlia, come una sorella. Quando diventiamo delle donne. È possibile che nello stato attuale della società e della nostra storia noi non possiamo diventare donne, se non cessando d’essere, per un certo periodo, madri, né simboliche né reali, rompendo la catena del «maternato». È certo comunque che noi non diventeremo donne se non con un contatto permanente con altre donne, collettivamente, con l’emergere della sorellanza nella maternità, con la priorità della sorellanza sulla maternità. Il femminismo non è un sostituto del vecchio «maternato» ma indubbiamente l’invenzione più difficile di un altro amore, un amore di «humour», Gli uomini non saranno mai nostri fratelli se anzitutto noi non saremo sorelle (ma non siamesi). Alla relazione verticale e unilaterale della generazione e dell’eredità, richiesta dal patriarcato, noi dobbiamo sostituire la relazione orizzontale e reciproca dello scambio in cui si ritroveranno sullo stesso piano le nostre madri e le nostre figlie.