terapie

psicoterapia e/o lotta politica

incominciamo a riappropriarci delle conoscenze e capacità terapeutiche
“i modo da poter esercitare un maggior controllo sugli analisti ed elaborare
modalità terapeutiche più consone ai nostri bisogni

giugno 1978

diventare femminista ha probabilmente significato per ognuna di noi anche veder emergere bisogni nuovi, esigenze profonde di vivere diversamente. Mutate dentro, ci troviamo ogni giorno a fare i conti con una realtà molto poco cambiata e a noi ostile. Dalle contraddizioni, frustrazioni, delusioni che quotidianamente subiamo sul lavoro, in casa, a scuola, nei rapporti con l’uomo e anche fra noi donne, nasce per molte di noi un enorme disagio psichico, una grossa sofferenza. Questo «star male» a seconda delle circostanze e della classe sociale a cui apparteniamo ci può far approdare sempre più frequentemente nei manicomi, nelle cliniche private o negli uffici degli psicoterapeuti.
Negli ultimi anni nel movimento si è molto parlato del rapporto donna-follia, follia-istituzionalizzazione, meno, mi sembra, del problema della psicoterapia. Si sa che le donne vanno «in analisi» più spesso degli uomini e già questo dato ci dovrebbe far nascere qualche sospetto. Inoltre i terapeuti sono nella maggioranza maschi, specie quelli appartenenti alle scuole più prestigiose. In Italia sono particolarmente diffuse le terapie analitiche che si ispirano a Freud, Jung e Reich, ma cominciano ad essere praticati anche altri tipi di psicoterapie d’impostazione comportamentistica, umanistica e relazionale, I sostenitori di questi vari modelli formano parrocchie isolate in perpetua lite tra loro sulla validità delle rispettive tecniche, Finora le poche ricerche fatte non dimostrano la superiorità d’un tipo di psicoterapia sull’altra, una volta tenuti costanti l’esperienza dello psicoterapeuta, tipi di problemi e durata della psi~ terapia. In Italia l’esercizio della psicoterapia non è soggetto a nessuna regolamentazione giuridica, per cui è difficile per chi vuole entrare in psicoterapia sapere come scegliere e di chi fidarsi. Chiunque può autodefinirsi «analista» e far pagare dalle 5 alle 50.000 lire l’ora i propri servizi. Eppure è ormai documentato che una psicoterapia può avere effetti negativi oltre che positivi, per cui è cruciale che noi donne, che siamo le principali utenti degli analisti privati, incominciamo a riappropriarci delle capacità e conoscenze psicoterapeutiche, in modo da poter esercitare un maggior controllo sugli analisti, poter vagliare criticamente i vari metodi ed elaborare modalità terapeutiche più consone ai nostri bisogni.
Occorre innanzitutto chiedersi, come fa la Chesler (3), che validità può avere per noi donne entrare in psicoterapia con analisti imbevuti di ideologie psicologiche patriarcali e operanti in istituzioni che rafforzano queste ideologie. Per la Chesler infatti l’incontro terapeutico rischia di divenire per molte donne solo un altro esempio di rapporto ineuguale:
«Molte donne entrano in terapia come entrano nel matrimonio: con un senso di urgenza e disperazione, e senza chiedersi perché. La psicoterapia e il matrimonio sono le due maggiori istituzioni socialmente approvate, in modo particolare per le donne di classe media.
Dai dati sembra emergere che le donne nubili e divorziate cercano un aiuto psichiatrico più spesso di altri gruppi, come se il non essere sposate fosse vissuto come una “malattia” che la psicoterapia può curare. Sia il matrimonio che la psicoterapia incoraggiano la donna a parlare piuttosto che ad agire, isolano le donne le une dalle altre e tutte due le istituzioni prediligono soluzioni individuali piuttosto che collettive ai problemi dell’infelicità, tutte due sono basate sulla dipendenza da una più forte figura maschile e tutte due possono essere viste come riedizioni del rapporto bambina-padre in una società patriarcale» (4). Quali modelli psicoterapeutici sono meno imbevuti di questa ottica maschilista, quali possono essere trasformati per meglio aderire alle nostre esigenze? Quali sono invece più pericolosi? Che senso ha fare una terapia, individuale, di gruppo, tra sole donne? Alcune compagne femministe hanno cominciato a tentare di rispondere a queste domande. In questo numero continuiamo una discussione iniziata su Effe nel 1975 e presentiamo il contributo di due compagne che descrivono alcuni aspetti d’una forma di lavoro di gruppo elaborata negli Stati Uniti. Nei prossimi numeri intendiamo approfondire questo argomento, discutendo i pregi, i limiti, e le implicazioni ideologiche dei vari modelli di psicoterapia esistenti, il concetto e l’uso stesso della psicoterapia, e presentando i tentativi di creare forme d’aiuto alternativo fatti da alcune femministe in vari Paesi. Invitiamo pertanto tutte le compagne interessate a mandarci resoconti di esperienze, studi e critiche.