donne
colette la vagabonda
il sue campo espressivo sfrutta fino in fondo la “sensazione” in ciò che questa ha di trascrivibile, di visivo, di tattile. Ed il corpo femminile si presta a questa trascrizione, in quanto luogo delia più intima esperienza dell’autrice.
per evitare che fosse il mio punto di vista a “pesare” nel rivisitare Colette (anche se questo rischio non è del tutto eliminato) e per contenere perlomeno il solito tipico procedimento della rivisitazione, che in molti casi finisce per diventare una manipolazione del tutto soggettiva di un autore, di un testo, senza alcuna possibilità per il lettore di entrarvi in contatto, ho preferito che fosse Colette stessa ad esprimere il suo mondo interiore, a guidarci attraverso le tappe della sua vita. L’infanzia a Saint Sauveur, in Borgogna, dove nasce il 28 gennaio del 1873, il giardino della casa paterna che ricorderà sempre come “magico”, pieno “di luci, odori, armonia di alberi, di uccelli”, la natura, gli animali, che tanta parte hanno avuto nella sua vita, le scoperte ed ingenuità giovanili, saranno costantemente presenti nella sua opera. Colette comincia a scrivere per caso, spinta dal marito Henri Villars a “buttare giù” qualche ricordo d’infanzia. Inizia così la fortunata serie di romanzi dal titolo Chiudine che firmerà con lo pseudonimo del nome del marito: Willy. Questa fu, come doveva dire più tardi, “la rinuncia più imperdonabile che la paura abbia ottenuto da me”. È negli ultimi romanzi di questa serie che troviamo gli accenni alla sua nuova realtà di vita: il trasferimento a Parigi, l’angoscia della grande città, le difficoltà economiche, le prime delusioni. Dopo il divorzio da Henri Villars, Colette continuerà a scrivere, sarà comunque una più matura produzione che risentirà delle sue nuove esperienze di vita. La ritroviamo infatti attrice-mimo, ballerina di music-hall, collaboratrice letteraria a Le Mutine. Si sposerà di nuovo con Henri de Jouyenelle dal quale avrà una figlia (l’unica). Fino alla sua morte, avvenuta a Parigi nel 1954, parteciperà attivamente alla vita letteraria degli anni quaranta. Anche se non basta cosi poco per conoscerla, sarà una scoperta entusiasmante ritrovarsi un po’ in Colette. I suoi personaggi femminili, amplificazione del suo mondo interiore, li possiamo meglio comprendere attraverso il saggio autobiografico Mes apprentissages da cui sono tratte alcune citazioni di quest’articolo, in un continuo riandare dall’autrice al personaggio femminile.
“Vieni tu che lo ignori, vieni che te lo dica piano: il profumo dei boschi del mio paese sembra fragola e rosa! Giureresti, quando i cespugli di spino sono in fiore, che un frutto matura non si sa dove, — là, lì, qua vicino, — un frutto inafferrabile che si respira aprendo le narici. Giureresti quando l’autunno penetra e ammacca le foglie morte, che una mela troppo matura è caduta, e la cerchi e la fiuti,
Locandina di uno spettacolo di music-hall. Colette Willy è il nome d’arte scelto come attrice-mimo.
Dice la dedica della foto: “La guancia incavata, l’aria di cane bastonato. Sono proprio io… nel 1897»
qui, là, qua vicino…
E se tu passassi in giugno, fra i prati falciati, nell’ora in cui la luna luccica sui pagliai tondi che sono le dune del mio paese, sentiresti, al loro profumo, aprirsi il tuo cuore. Chiuderesti gli occhi, con quella fierezza grave con cui nascondi la voluttà, e lasceresti cadere la testa, con un silenzioso sospiro… E se tu arrivassi in una giornata d’estate al mio paese, in fondo a un giardino che conosco, un giardino nero di piante e senza fiori, se tu guardassi diventare blu, in lontananza, una montagna rotonda, dove pietre, farfalle cardi si tingono dello stesso azzurro violaceo e polveroso, ti dimenticheresti di me e ti siederesti lì per non muoverti più fino alla fine della tua vita”. (Les vrilles de la vigne) È in questo giardino, un tempo curato, che ritroviamo Sido madre di Colette: “una mano rapida fermava la mia, cosa non ha formato, dipinto, cesellato questa mano di Sido presto scolpita segnata di rughe dai lavori domestici, il giardinaggio, l’acqua fredda ed il sole…” (Sido). Sido è la sua «complice ideale», l’“appoggio vero», è colei che le insegnò ad ascoltare tutto quello che nella natura vibra, mormora, a guardare una fioritura fugace o lo schiarirsi incantevole del cielo.
A lei Colette scrive due o tre lettere a settimana “piene di notizie vere e false, di descrizioni, di millanteria, di niente, di me, di lei…” Anche dopo la morte di Sido, Colette continuerà a scriverle. E perchè cessare di scriverle? Fermarmi di fronte ad un ostacolo così futile, così vanamente interrogato come la morte? (Mes apprentissages). Di Sido conosciamo il buon senso, la saggezza e non solo, anche gli “impazienti appelli alla libertà”, il senso dell’inutilità di certi lavori “Quando asciugo a lungo e con cura le mie tazzine cinesi, diceva, mi sento invecchiare…” (ma)… Ogni presenza vegetale agiva su lei come un antidoto, ed aveva una maniera particolare di sollevare le rose per il mento per guardarle in pieno viso. — Guarda come questa pansé somiglia ad Enrico Vili d’Inghilterra, con la sua barba rotonda…” “Mi ricordo di me con una chiarezza, una melanconia che non mi ingannano. Lo stesso cuore oscuro e pudico, lo stesso amore appassionato per tutto quanto respira all’aria libera e lontano dall’uomo — albero, fiore, animale timido e dolce, acqua furtiva delle inutili sorgenti — le stesse gravità presto mutata in esaltazione senza causa… Tutto questo sono io bambina e io adesso… Ma quello che ho perso, Claudine, è il mio bell’orgoglio, la segreta certezza di essere una bambina preziosa, il sentire in me un’anima straordinaria di uomo intelligente, di donna innamorata, un’anima capace di far scoppiare il mio piccolo corpo… Tu non immagini quale regina della terra ero a dodici anni!”
Il primo marito Willy lo ricorderà così: “In Chiudine à Paris compare un personaggio che sarà presente ormai in tutta l’opera — se così posso dire — di M. Willy Henry Maugis è la sola confidenza su sé stesso che M. Willy ci abbia fatto. Questo Maugis tutto infiammato dal vizio paterno, amatore di donne, d’alcool esotici e di giochi di parole, musicologo, ellenizzante, letterato, spadaccino, sensibile, senza scrupoli, che schernisce nascondendo una lacrima, che chiama bimba mia le donnette in camicia, che i preferisce lo svestito al nudo, e i calzetti-ni alle calze di seta, questo Maugis non può essere mio”. Io credo che M. Willy cedette nel creare “Il grosso Maugis” ad ) una delle sue megalomanie, l’ossessione di dipingersi, l’amore di contemplarsi. 1 {Mes apprentissages). Ed ancora parlando di sé sempre in Mes apprentissages, “Si potrà capire che il fatto di aver cambiato il mio destino di paesana in cambio della vita che conducevo dal 1894, è un’avventura tale da gettare nella disperazione una ragazza di 20 anni. Aiutata dalla giovinezza, dall’inesperienza, io , avevo iniziato con esaltazione, una consapevole esaltazione, un terribile ed impuro slancio d’adolescente. Sono numerose le ragazze ancora nubili che sognano di essere il passatempo, il giocattolo, il capolavoro libertino di un uomo maturo. È un | desiderio malsano che pagano… Io fui punita, dunque, abbondantemente è presto».
“Ma non pensavo a fuggire. Dove andare, e come vivere? E. sempre questa preoccupazione per mia madre, quel rifiuto intransigente di tornare da lei, di confessare. Bisogna capire che non avevo niente di mio. Bisogna capire anche che un prigioniero, animale o essere umano, non pensa tutto il tempo a evadere, malgrado le apparenze, malgrado il via vai dietro le sbarre, malgrado un certo modo di lanciare lo sguardo lontano, attraverso le muraglie… Si tratta di riflessi imposti dall’abitudine, dalle dimensioni della cella.
Aprite allo scoiattolo, al leone, all’uccello, stesso, la porta che misurano, assediano, supplicano: quasi sempre, invece dello slancio che aspettate, la bestia, sconcertata, si ritrae verso il fondo della gabbia. Avevo tanto tempo per pensarci, e mi sentivo dire così spesso la grande I frase sdegnosa sarcastica luccicante di solide catene: “Dopotutto, sei assoluta-niente libera…” Fuggire… ma come si fa a fuggire? Noi ragazze di provincia avevamo della diserzione coniugale, nel 1900, un’idea enorme e poco maneggevole, ingombra di gendarmi, di bauli bombati, e di velette fitte, senza contare l’orario delle ferrovie. Fuggire… e questo sangue monogamo che ho nelle vene, che scomodità… Non è certo lui che mi avrebbe suggerito la parola fuggire col suo fruscio di serpe. {Mes apprentissages) Avvolgenti, tenaci, i pampini di una vigna amara mi avevano legata, mentre nella mia primavera io dormivo un sogno felice ed indifeso. Ma io ho rotto con un violento sobbalzo, tutti quei fili che già arrivavano alla mia carne e sono fuggita. Quando il torpore di una nuova notte di miele si è posato sulle mie palpebre io ho temuto i pampini della vigna ed ho gettato verso l’alto un grido che mi ha rivelato la mia voce”.
«Ne ho abbastanza. Voglio… voglio fare quello che voglio… voglio recitare una pantomima, una commedia anche. Voglio ballare nuda, se il costume mi ostacola ed umilia la mia plasticità… voglio scrivere dei libri tristi e casti, dove non ci saranno che paesaggi, fiori, dolore, fierezza, ed il candore di adorabili animali che temono gli uomini”.
È Renée Nérée la protagonista de la Vagabonde che le fa da contrappunto: «Ho davanti a me, dall’altro lato dello specchio, l’immagine di una “mal riuscita donna di lettere”. Si dice anche di me che “faccio del teatro”, ma non mi chiamano mai attrice. Perchè? Sottile sfumatura, garbato rifiuto, da parte del pubblico e dei miei stessi amici di darmi un grado in questa carriera che nonostante tutto ho scelto. Otto anni di matrimonio, tre anni di separazione…. Ecco cosa riempie un terzo della mia esistenza… la solitudine… la libertà…. il mio lavoro piacevole e faticoso di mimo e ballerina… i muscoli distesi e stanchi, la nuova preoccupazione, guadagnarmi i pasti, i vestiti, l’affitto; ecco qual è stato il mio destino”. “Vagabonda… Le mie partenze mi rattristano e mi ubriacano è vero, e qualcosa di me s’impiglia a tutto quello che attraverso paesi nuovi, cieli limpidi o nuvolosi, mari sotto la pioggia color perla grigia — si aggrappa così appassionatamente che mi sembra di lasciarmi dietro mille e mille piccoli fantasmi a mia immagine, trascinati dalle onde, cullati dalle foglie, sparsi in una nuvola… Ma un ultimo piccolo fantasma, il più simile di tutti a me stessa, non resta forse, saggio e sognatore, seduto davanti al mio fuoco, chinato su un libro che ha dimenticato di leggere?…” (da La Vagabonde)
Anche se doveva dire di temere il frequentare le donne, “ostile ad un lusso che richiedeva insieme cura ed una certa sfiducia”, rifiutando amicizie fatte di complicità, di attaccamento esclusivo, un profondo legame la unì a tante di loro. Una testimonianza l’abbiamo nelle lettere inviate a Marguerite Moreno e a Hele-ne Picard. “Solo le donne fra loro possono provare — dirà Colette — l’amare la felicità di sentirsi simili, piccole, dimenticate”. (La Vagabonde)
il corpo femminile
Considerando che il personaggio nell’opera letteraria è costruito attraverso un sistema di segni, interno all’opera stessa, in Colette, Yannick Resch nel suo saggio Corps feminin, Corps textuel, individua delle costanti formali che hanno la funzione di decifrare, di chiarificare il messaggio, di restituire la realtà del personaggio di volta in volta considerato. Attraverso l’intreccio di diversi piani connotativi, legati al colore, alla forma, all’odore, alla voce al gesto, al corpo quindi: occhi, capelli, seno, mani… Colette ha costruito il personaggio femminile e da questo sistema di segni si può arrivare al personaggio, a tutta la sua realtà.
Colette semplice e diretta nello scrivere, lontana dalla retorica, dallo strutturalismo, sembrava si dovesse prestare più ad un’analisi “impressionista” sulla natura, gli animali, il piacere. Il suo campo espressivo invece, sfrutta fino in fondo la “sensazione”, in ciò che questa ha di trascrivibile, di visivo, di tattile. Ed il corpo femminile si presta a questa trascrizione, in quanto luogo della più intima esperienza dell’autrice e della sua scrittura più delicata. Ogni elemento del corpo femminile attraverso la sua descrizione, la sua ripetizione, il suo posto nel/in un momento dato del testo, costituisce un’unità narrativa che entra in funzione con gli altri elementi dell’opera e ne scandisce la progressione. La donna segna l’opera di Colette con la sua costante presenza. Figura dominante all’interno della coppia e dell’universo, la donna esprime il desiderio di vivere. Il dinamismo che le appartiene esprime un bisogno primordiale di ricongiungersi alla natura attraverso ciò che un essere ha di più concreto: il corpo. Questo in relazione al mondo che lo circonda è costruito in modo da essere esso stesso ambiente, da tradurne l’atmosfera. È il corpo a descrivere il passare del tempo attraverso una terminologia che l’associa al giorno, alla notte, all’alba. Il colore del corpo diventa fondamentale: un espediente formale nella caratterizzazione del personaggio, non solo da un punto di vista estetico, ma anche rispetto alla salute, alla forza vitale. Il colore opera anche una divisione all’interno del testo, tra personaggio più attivo / meno attivo., tra energia / ed inerzia e se si considerano i personaggi principali, questo corrisponde all’opposizione donna/uomo. Trovando nella sua forza fisica e morale la capacità di adattarsi ad ogni situazione, la donna, il personaggio femminile si contrappone a quello maschile, che è privo d’energie, di vitalità. La donna è capace di reagire alla malattia, sempre di origine sentimentale, essa nel cibo nuove forze trova: il vocabolario culinario, la nutrizione sottolineano la vittoria del corpo sulla malattia, questo è ancora una volta simbolico del profondo legame che la donna ha con la vita. Nella descrizione della nudità tutto il naturale del corpo femminile si rivela, porta anche un’inversione nei ruoli, infatti alla libertà della donna fa riscontro il narcisismo maschile che si propone come femminile lasciandosi amare ed ammirare, mentre la donna dà e protegge. Nella vita sociale la donna si mascolinizza, fuma, beve, guida. Ha raggiunta un’autonomia che è forza critica, lucidità. Così si definisce una nuova nozione di femminilità: dalla vitalità prorompente quindi il senso della propria “trascendenza” una libertà sia materiale che intellettuale. La fisionomia, la testa e più particolarmente il viso che ha un’importanza fondamentale nei romanzi di Colette ha la facoltà di esprimere, è azione. Nella seconda parte del saggio la lettura del personaggio femminile attraverso il corpo è vista dal modo dì comunicare della donna, quindi attraverso il gesto, l’espressione visuale, vocale. Non è meno interessante, perchè infatti è questo il momento in cui il corpo entra in relazione con il mondo che lo circonda. Analizzando infatti il campo lessicale dove compaiono queste espressioni, l’autrice del saggio, trova un gioco formale che serve a caratterizzare i personaggi. Attraverso il rapporto visivo si arriva alla distinzione dei personaggi principali e secondari. Nell’espressione verbale la caratterizzazione del personaggio è data nei differenti toni di voce. Le mani tracciano anch’esse attraverso le loro correlazioni il ritratto fisìo-psicologico dei personaggi. Tenendo presenti ancora queste espressioni dell’analisi del rapporto donna/uomo, si arriverà ancora ad una relazione in cui la donna è l’essere dominante, l’uomo il dominato.
Le citazioni sono tratte da Sitlo, Le.s vrìlles de In vigne, (Hachette), La vagabonde, (Albin Michel), Mes apprentissa-ges, (Hachette). Traduzione e scelta dei brani di M. Grazia Mostra, e dall’Agenda 1979, Ed Dalla parte delle bambine, trad. di Adela Turin. Cfr. anche Yannick Resch, Carps fémi-nin, vorps textuel, Paris, Klincksieck, 1973.