STUPRO

cronaca di un processo per stupro

da quando Ie donne hanno avuto la forza di denunciare certi episodi di violenza subita (percosse, lesioni, stupri) facendoli uscire dalla sfera privata, si sono ulteriormente chiariti i meccanismi economici, politici e sociali su cui si fonda il nostro sfruttamento.

dicembre 1978

noi diciamo che lo stupro è solo l’aspetto più evidente e più esecrato della violenza esercitata contro le donne, (a patto naturalmente che esse abbiano le caratteristiche ideologiche di S. Maria Goretti). Sappiamo che i rapporti personali di violenza sembrano più temibili dei rapporti di produzione, che sono fondati sullo sfruttamento e quindi sulla violenza. In realtà, il comando del lavorò sulle persone è molto più efficace del rapporto di violenza personale. Anche perchè il comando del lavoro non coinvolge solo chi visibilmente produce, ma anche chi resta apparentemente ai margini del processo produttivo.
Ossia per estorcere lavoro gratis alle donne, necessariamente gli Stati (e chi per essi controlla il nostro lavoro quotidiano, cioè la nostra vita) devono esercitare rapporti personali di violenza. Tracciate le discriminanti tra “comportamento femminile normale” e comportamento disapprovato, ogni donna sa, fin dall’infanzia, che se trasgredisce possono accadere i seguenti episodi: percosse, manicomio, carcere, stupro e, ultimo, che tutti li riassume, disapprovazione e emarginazione totale. Ovviamente, una vita fondata sullo sfruttamento di un lavoro estorto gratis, è per definizione violenta: cioè una “vita normale” non ci garantisce l’esenzione dalle violenze più evidenti. Infatti, se non cercassero di terrorizzarci fin dalla nascita (leggi ciclo educativo) come potrebbero anche solo sperare di farci lavorare gratis?
Come sarebbe possibile, senza le minacce, farci credere di seguire le nostre inclinazioni naturali, mentre eseguiamo invece un loro comando? Come sarebbe possibile, senza il terrore, farci credere di dare amore in cambio di amore, quando invece si tratta di lavoro in cambio di sopravvivenza? Un esempio basti per tutti: si dà lo stupro quando l’uomo non ha diritti legali sul corpo della donna; non si riconosce come stupro un rapporto sessuale estorto con la violenza quando l’uomo può avanzare diritti di proprietà sul corpo e sul lavoro di una donna.
La sera del 5 settembre di 2 anni fa quattro uomini violentano una donna di 19 anni, in una pineta a pochi chilometri da Ravenna.
La ragazza sporge denuncia. Due anni fa, 1976, in molte città d’Italia il Movimento Femminista faceva esplodere nei tribunali tutta la rabbia delle donne contro la violenza subita. Ma a Ravenna e, più in generale nelle zone “rosse”, la pace sociale andava garantita ad ogni costo. La difesa degli stupratori viene subito assunta da due grosse personalità del PCI.
L’intero paese si scaglia contro la ragazza, l’ambiente stesso che frequenta, le diventa ostile, il suo isolamento totale: esprimere anche livelli minimi di solidarietà, significa condividerne l’emarginazione.
Si apre così l’istruttoria, che viene affidata a un brillante e solerte giudice in odore di sinistra: Monti. É lui che la reinterroga. Forse anche perché sono stati convocati alcuni ragazzi per testimoniare sulla sua moralità, la ragazza è a disagio, piange, non riesce a parlare. Allora lui l’aiuta, ottenendo così una deposizione valutata come una ritrattazione della prima. Immediatamente i quattro stupratori vengono scarcerati, mentre passano due mesi per far decidere al coscienzioso Monti che il fatto non costituisce reato e avanzare quindi la richiesta di proscioglimento in istruttoria. Ma sorge un intoppo: la Procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Bologna, non accetta la soluzione proposta dal solerte e brillante giudice, rilevando fra l’altro che: 1° esiste un certificato medico (5 gg. di prognosi) redatto dall’Ospedale di Ravenna; 2° si ritiene incredibile che una donna denunci uno stupro per giustificare un ritardo ed evitare così una lavata di capo. Sono passati 2 anni: il 27 settembre si è svolta la prima udienza del processo, che la ragazza ha voluto a porte aperte. Nonostante il tentativo di trasformarla da accusatrice in imputata, l’unica deposizione chiara e non contraddittoria è stata proprio la sua. Ancora oggi il tribunale si pone il problema della verità giuridica a partire dall’assunto che una donna, per subire violenza, deve averla provocata con un comportamento spregiudicato. Come se, essere disinibita, o non vergine o sessualmente disponibile desse il diritto a qualcuno di usarci come oggetti sessuali e per di più contro la nostra volontà. Il clima intimidatorio dell’aula, ultimo anello di una serie di violenze, ha ottenuto, invece risultati “positivi” nei confronti di A. Casanova, una teste che ha modificato la deposizione precedentemente favorevole alla donna violentata. A. Casanova, L. Billi, e altre non hanno esitato a dare solidarietà agli stupratori nel tentativo di garantirsi due cose: — prendere le distanze, e quindi non essere identificate con una donna sulla cui moralità si sono fatte pesanti affermazioni, perchè ha subito e denunciato una violenza sessuale;
— in questo modo possono sperare di avere l’approvazione sociale necessaria a sopravvivere nel loro giro e, in generale, nel luogo in cui abitano. Ma torniamo al tribunale. Alla luce dei fatti risulta chiaro che la nostra presenza «silenziosa e corretta» alla prima udienza, se.è stata vissuta da tutte noi in modo frustrante, è però densa di un significato politico estremamente importante. Non è stato certo l’ossequio o il timore per l’autorità che ha impedito di esprimerci e di prendere posizione attiva: a volte il comportamento spontaneo e informale delle donne precede la teoria.
Il nostro silenzio è stato un rifiuto: anche un solo slogans avrebbe conferito al tribunale un’autorevolezza che non siamo disposte a riconoscergli. Non sprechiamo più fiato ed energie per una struttura che sappiamo classista e sessista. La nostra presenza va letta esclusivamente come solidarietà alla donna violentata e come tale la rivendichiamo. Certo non lo sappiamo da oggi che la giustizia dello Stato è classista e sessista. Ma se alcuni anni fa la classe era ovviamente disposta a riconoscere il carattere classista del tribunale (come ogni altro strumento dello Stato) non era capace di vedere l’ulteriore discriminazione che viene operata ai danni dello strato donna. Il M F, forza politica autonoma, ha allora deciso di dimostrarlo praticamente, usando le aule dei tribunali come terreno di lotta in grado di far risuonare socialmente una situazione ritenuta fino a quel momento confinabile nella sfera del privato e nella cronaca nera.
La presenza organizzata delle donne ha garantito, in alcuni processi esemplari, che un reato come lo stupro fosse considerato come tale.
Ma istituzioni nate dallo Stato per la garanzia della sua sopravvivenza fondata sullo sfruttamento non possono, per definizione, funzionare in senso diverso. Ossia della violenza si è voluto vedere solo lo stupro e non certo la normalità che lo permette e lo giustifica.
Per noi risulta quindi ovvia la nostra estraneità al tribunale: ciò che volevamo dimostrare è ormai fin troppo chiaro. Il 17 ottobre c’è stata la seconda udienza di questo processo.
Le studentesse, che per questa giornata avevano indetto uno sciopero in tutte le scuole, hanno partecipato numerosissime al corteo di donne che ha in mattinata percorso le strade della città. Il tribunale, a conclusione del processo, nel tardo pomeriggio ha emesso un verdetto di condanna: i 4 imputati sono stati riconosciuti colpevoli del reato di violenza carnale.
Al di là di questo verdetto due cose vanno ribadite con forza: 1) la sentenza del tribunale che ha riconosciuto la violenza carnale e l’ha punita è stata possibile per la mobilitazione delle donne; 2) non esiste per noi un tribunale in grado di decidere quante e quali violenze comporti il nostro sfruttamento quotidiano. Infatti, da quando le donne hanno avuto la forza e quindi il coraggio di denunciare certi episodi di violenza subita (percosse; lesioni-stupri) facendoli uscire dalla sfera privata, si sono ulteriormente chiariti i meccanismi economici, politici e sociali su cui si fonda il nostro sfruttamento. È diventato chiaro per tutte noi che le violenze subite assimilabili a un reato (percosse-lesioni-stupri) si danno come “puntelli” indispensabili a garantire la continuità del lavoro domestico che tutte facciamo gratis, a prescindere dall’età e dal ruolo che abbiamo nella famiglia e nella società. Ossia, percosse-lesioni-stupri sono “la cosa che si vede” di un rapporto di sfruttamento per definizione violento.

al di là della colpevolezza
I tribunali, i giudici, come tutti gli strumenti dello Stato (che è il garante della continuità dello sfruttamento) non possono far altro che riconoscere “la cosa che si vede”, che è cioè assimilabile a un reato e in genere lo fanno poco volentieri e solo in presenza di forti lotte di donne organizzate.
La sentenza del tribunale di Ravenna non fa quindi eccezione. Si può affermare ugualmente che è stata esemplare. Non per la pena inflitta ai colpevoli (dalla quale prendiamo le distanze perchè nessun tribunale può renderci giustizia), ma perchè gli intrighi del PCI, della sua congrega di avvocati e di clientelismi sono stati smascherati e parzialmente neutralizzati dalla forza delle donne organizzate. Abbiamo cioè “vinto” rispetto al riconoscimento di una violenza che è un reato; abbiamo vinto su chi diceva da due anni «questo processo non s’ha da fare» e non ha esitato a rendersi corresponsabile di sporchi intrighi e vili affermazioni sul conto di una donna già duramente colpita.
Ma nessuno come noi sa che queste possono diventare vittorie di Pirro, se non saremo in grado di costruire una rete organizzativa capace di resistere a tutte le violenze che scandiscono la normalità della nostra vita quotidiana, fino all’eliminazione dello sfruttamento che tutte le permette e le giustifica.