disegno di sogno
“le disegnatoci hanno fatto la loro scelta: cominciano a raccontare dal sogni più mostruosi. Una lunga caduta a capofitto verso il ruolo femminile, orrido fin dentro la pancia”.
“da dove cominciare, ricordare, raccontare?” Così si chiede una donna raffigurata su una pagina di Strix, nuovo giornale a fumetti fatto da donne. La donna che pone queste domande, si scopre alla fine, è chiusa dentro un manicomio. Intanto le altre disegnatrici hanno fatto la loro scelta: cominciano a raccontare dai sogni più mostruosi, tutte quante. Il sangue mestruale esce dalla infiorescente vagina di una pietosa adolescente; una talpa mangia un uomo sanguinolento anche lui, e si rinchiude soddisfatta sotto terra, “sazia” come dicono le scritte in caratteri gotici, più avanti una ragazzina ripesca nella palude la testa della madre da un’acqua melmosa e carica di velette e cappelli inzuppati; non manca l’incubo della nascita, una lunga caduta a capofitto verso il ruolo femminile, orrido fin dentro la pancia. E ancora così, avanti verso la morte per aborto illegale, dopo esser finita dalla mammana. Non poteva mancare.
Perchè, infine, non è l’orrore che piomba sulla lettrice e la rende, per così dire, “cosciente” delle sue disgrazie di donna, la invita a riflettere, magari a lottare. È invece l’irritazione nel trovar ripercorsa la stessa strada per l’ennesima volta, il viottolo del femminile come disperata rivendicazione del buio. Deve essere tutto nostro, non ne lasciamo agli altri neppure un pezzettino.
Non credo alla rappresentazione delle donne di Strix, e neppure a Strix come rappresentazione delle donne che l’hanno confezionato, messo in piedi con capacità organizzativa e di tratto. Dodici, si sono autoritratte sull’interno della copertina, grasse e magre, sorridenti e tristi, con i riccioli e senza. Ognuna, in quegli schizzi, «dimostra» palesemente una storia, una storia sua e quindi molto più vicina alle altre donne di quanto non lo sia il costante disegno di vuoto e di sofferenza che viene perseguito in tutte le strisce.
Non è Strix, naturalmente che ha inventato un’ideologia del vuoto e del dolore come nocciolo della condizione femminile. Il fatto che vengano assunti come dimensione totale, da cui è impossibile l’uscita, su cui non si fa autoironia, è proprio di buona parte della cultura femminista italiana, che ha prodotto poca letteratura, poco teatro e spesso, quando l’ha fatto, non ha saputo né voluto sottrarsi alla tentazione di insegnare, ammaestrare, indurre riflessioni, giusto alla maniera di un monco realismo di buona memoria da cui la realtà, tuttavia, come di consueto è per gran parte assente. Non perché naturalmente, il dolore, non esista, né perché non abbia una matrice comune nella condizione femminile: solo che la sua espressione è multicolore e intrecciata; è dolore di maternità e di scontro con la metropoli, di subalternità storica e di quotidiano scontro con mariti e fidanzati, di orrore del proprio corpo e di desiderio di mostrarne l’inappagata forza, sempre piegata nella stretta dell’asfalto, della scrivania, della casa. C’è l’aborto, e c’è la inapplicata legge sull’aborto, c’è la bambola spezzata che noi siamo da bambine (vedi il terribile poster che accompagna Strix) e c’è, fiammeggiante Marilyn Monroe, incubo e delizia, del nostro povero immaginario; c’è la testa della mamma ma anche “Una donna tutta sola”, che mi fa gentilmente da mamma quando vado a far ginnastica e mi sforzo di godermi le luci della città. C’è, in una parola, la contemporaneità ricca e furibonda, e le mie mestruazioni si arginano con tampax; la mamma, gli uomini cattivi hanno facce non omologabili, quella fa la casalinga e l’altra la giornalista, lui fa il muratore e mio marito lo storico. La mia sessualità, si è costruita negli anni 50, quando tutto era ancora ambiguamente peccato, la tua un po’ dopo, quando tutto era pigramente americano. Quando l’autocoscienza ha cominciato ad essere lo strumento centrale di analisi della condizione femminile e la pratica essenziale del movimento femminista, il suo ruolo doveva essere giusto quello della spietata deideologizzazione della condizione femminile: maternità; divisione dei ruoli, dovevano mostrarsi nude e crude, caso per caso, calate nella realtà spesso segreta, inconsapevole, sconosciuta. Non si può dire che questo non sia successo, che non si siano venute a sapere molte cose, che queste cose non abbiano clamorosamente contraddetto l’ideologia patinata della maternità e della sessualità-oggetto, oltre a molte altre storie, su cui non mi dilungo. Ma la mia sensazione è quella di un duplice inganno successivo a queste scoperte: il primo è quello della pretesa della loro iscrizione in una dimensione finalistica, in cui non vincono le donne ma la Donna; la seconda è quella di una forzosa definizione di questa Signora che non ho il piacere di conoscere mentre conosco tante amiche simpatiche o antipatiche, ma tutte vive e non troppo incipriate. La Donna non poteva essere, una volta messa nella bara, che fredda, bianca, memore solo della sua inaudita sofferenza. È buon uso che, iscatolate, le idee si comportino in questo modo.
Se la donna non soffre ma è sofferenza, niente può piacerle: rivendica continuamente qualcosa che non le piace, poiché il femminile non può che aborrire ogni maschile conquista, e del resto la società che ci circonda è maschile in ogni sua virgola. Dunque la Donna non rivendica niente; ma le donne, invece, sì. La Donna non ama neppure fare un fumetto, poiché la “fumettitudine” se esistesse, dato che tutto è maschile, sarebbe maschile a sua volta.
I fatti invece sono altri: le donne di Strix hanno desiderato fare un fumetto e lo hanno disegnato e impaginato con abilità e capacità professionale, sempre che non se ne offendano: hanno però pagato un tributo al finalismo del femminile negando la gioia della creazione, nei soggetti scelti, annegandosi in un sogno cupo. Il loro desiderio di fare una rivista rimanda ad altri desideri di realizzazione; il loro scegliere i fumetti come mezzo di espressione rimanda ad un sogno di sorriso, di ironia, di colori e anche di partecipazione non subalterna alla grande girandola dei mezzi di comunicazione di massa. Se non è così, ha ragione di far paura con le sue orbite vuote la cupa sirena in copertina, ha ragione di galleggiare nel vuoto. Se invece ho ragione io, bisogna che la sirena si trasformi in donna, che Alessia, Maristella, Margherita, Patrizia abbiano il coraggio di raccontare e di progettare. Magari spaccando tutti gli schemi del fumetto maschile, della poesia maschile, del teatro, della rappresentazione: capace di spaccare, però non c’è che la vita vera.