aborto
policlinico: una prima riflessione
dopo il passaggio della legge sull’aborto le compagne del Collettivo San Lorenzo, di Roma scelsero come momento di verifica e continuità della loro esperienza dei “nuclei di autogestione sull’aborto”, il Policlinico, sia per la vicinanza, sia per la presenza di una situazione di lotta che garantiva un minimo di autogestione. L’occupazione di un Reparto del Policlinico riattivato per gli aborti è stata l’esperienza più avanzata di lotta in una struttura sanitaria pubblica avvenuta a Roma. Dopo tre mesi il Reparto è stato “sgombrato” con una operazione di polizia; la “loro” occupazione dura ancora. Le compagne hanno iniziato una riflessione collettiva su questa esperienza e hanno raccolto le loro testimonianze, con una completa documentazione, in un volumetto di prossima pubblicazione. Ci sembra importante far conoscere a chi di noi è impegnata in prima persona negli ospedali per l’applicazione della legge e a tutte noi donne a cui un diritto è stato riconosciuto e subito tolto la natura e la complessità dei problemi nati da questa esperienza.
dopo tre mesi di “occupazione femminista”, il reparto del Policlinico riattivato per gli aborti, è stato riportato alla normalità con una operazione di polizia. Questo significa diverse cose:
1) Riaffermazione di un potere tecnico della classe medica sul personale paramedico e i pazienti e soprattutto sulle donne; un potere che non può essere intaccato senza rimettere in questione comportamenti che sono anche politici: basta pensare a come avviene normalmente l’accettazione, a tutti i passaggi che si percorrono nell’ospedale prima e dopo la sala operatoria. È stata molto chiara la volontà di riaffermare — addirittura con la presenza della forza pubblica — la intoccabilità di questo potere che si trincera dietro il possesso di una formazione e di una specializzazione scientifica completamente controllata da un ordine professionale chiuso e corporativo.
Appoggio incondizionato delle forze politiche che governano l’amministrazione locale agli assetti di potere esistenti nelle strutture sanitarie pubbliche e private; si tratta di poteri fondati sulla cooptazione, sulle clientele (a volte di tipo mafioso) e sul mantenimento della subalternità psicologica delle persone che fanno parte della categoria medica a vari livelli: la loro subalternità viene pagata con diversi tipi di privilegio e mediante gratificazioni psicologiche, riconosciute a chi detiene un sapere e sa come usarlo a vantaggio proprio e nel modo più conveniente per la categoria che lo controlla. Sembra proprio difficile lottare contro centri di potere che non sono mai isolati l’uno dall’altro, ma anzi intrecciati fra loro, con le dirigenze dei partiti e con interessi di altri settori (fra cui l’industria e la cultura qualificata).
Una applicazione della legge sull’aborto che non concede in pratica nessuna possibilità di iniziativa diretta delle donne. Non a caso gli estensori della legge si sono attenuti a una regola generale che impone di rendere controllabili i soggetti sociali di ogni provvedimento; il controllo avviene attraverso la normale azione amministrativa. Infatti l’autodeterminazione ha avuto un riconoscimento formale, ma ci si è ben guardati dal creare la possibilità che aggregazioni di donne incidessero realmente sul funzionamento delle istituzioni chiamate a “servirle”. L’autodeterminazione è riconosciuta come possibilità semplicemente individuale; inoltre, è negata di fatto in ogni passo della legge da un’impalcatura di passaggi burocratici che ribadisce, per chi non lo avesse ancora capito, che lo stato protegge la maternità e tutela le donne e i bambini. Cosi, col favore di una legge ambigua e generica in molti punti, le strutture sanitarie e i pochi consultori esistenti stanno già dando prova di cosa significhi questa possibilità di controllo statale che non solo tende a smussare le richieste delle donne atomizzandole, ma è già usata specificamente per impedire che esse siano fatte valere in modo collettivo. Il funzionamento dei consultori ci ha già insegnato qualcosa in proposito. La trafila per avere il certificato che permette di abortire serve, da sola, a mettere in chiaro alcune norme scritte e non scritte che regolano il rapporto dell’utente — in particolare dell’utente donna — con le istituzioni, Se ha la fortuna di superare le barriere dell’accettazione in un ospedale o in una clinica, la donna si trova poi completamente alla mercé di questa struttura. Così, al peso psicologico delle umilianti trafile iniziali si aggiunge il rischio fisico: i bisogni di cui si tiene conto non sono certo quelli della persona che usufruisce del servizio, ma quelli dell’organizzazione che lo gestisce, cioè delle persone che in essa operano esercitandovi potere. Anche se il rischio fisico può essere ridotto da una migliore attrezzatura, da un medico più capace di un altro, il vivere da sole questa esperienza diventa traumatico proprio perchè il momento dell’aborto porta conflitti e angosce che hanno dietro di sé tutto l’intreccio dei rapporti col “maschile”; l’impatto con una istituzione come l’ospedale è talmente duro che, in genere, viene rimosso dalla coscienza; «dimenticato»; è solo il rapporto con altre donne, vissuto in questo momento, che aiuta a trovare il filo di una consapevolezza (e non una semplice consolazione). Di fronte ai primi tentativi di presa di coscienza collettiva, i partiti e le organizzazioni della sinistra si comportano come cani da guardia del potere esercitato sulle donne, limitandosi a premere affinché gli ospedali si attrezzino per fare un numero adeguato di aborti; per i tempi, i modi, le condizioni dell’intervento, le donne dovrebbero affidarsi a chi ne sa più di loro, cioè alle direzioni ospedaliere e ai medici.
strategie partecipative
Tutto questo avviene in un quadro politico sempre più repressivo, dove la sinistra subisce o addirittura appoggia l’isolamento e lo schiacciamento di tutte le sue componenti che resistono alle strategie partecipative, messe al servizio di chi guida il gioco.
Il Pei è diventato paladino della normalizzazione. Negli ospedali, come dappertutto, cerca di rifondare le gerarchie basandole su un potere riverniciato di tecnicismo.
Si fa forte di una quantità di norme giuridiche nuove che in teoria sono destinate a rendere conto di che accade nelle istituzioni, in pratica sono altrettante armi usabili per tenere in piedi dei privilegi ben consolidati e per emarginare, cooptare, controllare. Così la normalità diventa una gabbia per tenere fuori i diversi.
Sembra impensabile che, in un momento in cui il richiamo all’ordine è così forte, le donne — queste “diverse” per antonomasia — mettano veramente in questione valori culturali e scientifici su cui poggia tutto un complesso sistema di relazioni e di poteri,
I partiti della sinistra adottano, verso le femministe, tattiche morbide che servono ad assorbire in modo indolore ciò che il movimento ha di più vitale e stimolante: questo è palese nell’editoria, nella stampa, nei mezzi di comunicazione di massa in genere. Come al solito, l’operazione cerca di affermarsi per mezzo di riconoscimenti dati a titolo individuale alle donne «brave». Anche nella vita politica le donne funzionano da tonico, sono nuovi soggetti: accettati finché non minano davvero i valori maschili massicciamente presenti in tutte le situazioni di vita e nelle coscienze. Se le donne pretendono di difendere le loro esigenze collettivamente, incidendo sulla realtà del potere, i loro amici della sinistra sentenziano che le “buone” vanno divise dalle “cattive”. Proprio questo è successo nella lotta per l’aborto. La sinistra loda paternalisticamente la spinta partecipativa che le donne sanno esprimere per fare applicare la legge; con le loro proteste contro le istituzioni, dimostrano di saper imprimere nuovi stimoli alla vita politica. Ma la repressione colpisce subito quando i «nuovi soggetti» credono sul serio di poter contrastare il comando esercitato su di loro.
Dopo l’occupazione del reparto al Policlinico, le autorità sanitarie e regionali, i partiti, hanno preteso di utilizzare la vicenda come un caso di intervento positivo delle donne, che aveva sbloccato l’immobilismo di un ospedale degradato dalla DC. Questo è successo quando tutti avevano ormai capito che l’occupazione era stata condotta dalle donne e non da pochi maschi dell’autonomia (anche se c’è chi nutre ancora dubbi).
Dopo che il reparto è stato rimesso in moto, anche i medici hanno riempito di elogi le femministe: brave! Grazie a loro il reparto d’ora in poi avrebbe ripreso a funzionare. Ma a questo punto, le hanno rimandate a casa senza complimenti, perchè cominciavano a diventare delle intruse. E siccome l’espulsione non era accettata tanto facilmente, si è cercato di dividere le donne, denunciando la sporca alleanza tra le femministe e le donne del Collettivo Policlinico, unica realtà che, per quanto diversa dalle femministe, si è messa subito in moto per fare applicare la legge nell’ospedale. La denuncia di questa alleanza è puramente strumentale: infatti i nostri amici che vogliono riportarci all’ordine — Unità in testa — evitano di parlare di un fatto: le compagne del Collettivo Policlinico sono state presenti con noi nel reparto come donne e sono state le prime ad affrontare dall’interno l’istituzione sanitaria nel momento drammatico dell’applicazione della legge sull’aborto.
Come al solito, si cerca di far passare il gioco politico sopra il corpo delle donne;
perchè, come si era capito subito, il bersaglio preso di mira è proprio il nascere di iniziative di controllo sottratte ai partiti che governano l’istituzione sanitaria. La salute delle donne è del tutto secondaria in questo gioco.
Pur di riaffermare il controllo pieno dei medici e dei politici (cani da guardia gli uni degli altri) si è perfino offerto alle femministe “buone” il contentino di una presenza simbolica — assicurabile da quattro o cinque compagne che avrebbero potuto tornare nel reparto — non si sa bene a quale titolo. Naturalmente sarebbe gradito che continuassero a svolgere un lavoro gratuito, che può sempre essere utile, dopo aver preso le debite distanze dal Collettivo Policlinico. Ecco il punto: le donne sono accettate perchè lavorano sodo, finché non danno troppo fastidio; se non accettano più di comportarsi “da donne”, tutte le controparti maschili vanno semplicemente in bestia.
La lotta ha aperto una serie di problemi su cui molti vorrebbero metter sopra una pietra. Quello più spinoso riguarda il lavoro. Gli amanti dell’ordine che si sono messi a strillare contro le “abusive” della lista di lotta, hanno cercato in tutti i modi di censurare i problemi veri che stavano dietro la presenza di donne volontarie nel reparto, e dietro la richiesta di essere assunte. Invece hanno detto altre cose, ad esempio che le abusive erano uno strumento di divisione dei lavoratori già in lista per tutto il Policlinico, eccetera. Certo, non potevano ammettere il fatto che le compagne cercassero di rimanere nel reparto per due motivi precisi: a) perchè non amano il lavoro non pagato, b) perché la loro presenza era l’unica vera garanzia alle donne perchè il controllo stava loro tanto a cuore, e in che modo pensavano che si dovesse esercitarlo. Così sarebbero venute fuori cose imbarazzanti da gestire. E poi, le compagne stavano nel reparto rivendicando non solo di lavorare, ma di farlo in un certo modo, e anche questo non è un problema facilmente liquidabile.
cos’è per noi il rapporto con le istituzioni?
Durante l’occupazione del Policlinico si è cercato di controllare ciò che avveniva dentro l’istituzione attraverso un lavoro svolto da compagne che lavoravano all’interno, come volontarie o come dipendenti dell’ospedale. Questo è stato importante per la qualità del controllo che abbiamo cercato di esercitare, ma ha sollevato anche parecchi problemi per noi. Il lavoro, volontario e non, è tutto da discutere fra le compagne: cosa significa lavorare in una istituzione, cercando di politicizzare il proprio ruolo professionale (ad esempio quello di medico donna, infermiera, ostetrica, portantina), e cosa comporta, invece, il lavoro gratuito autogestito? Inoltre, come si possono saldare le motivazioni di queste lotte a quelle di chi “transita” nelle istituzioni come utente? E in che cosa può consistere l’appoggio del movimento a queste lotte? Su questi temi vorremmo andare avanti, non tornare indietro. La lotta del Policlinico stava assumendo forme specifiche proprio nell’affermazione in positivo di contenuti riguardanti il lavoro sulla salute; si sviluppavano temi già presenti nel Collettivo Policlinico, ma anche altri propri, legati per esempio al self-help. C’è stata, in comune col Collettivo, la volontà di non essere controparte delle donne che venivano ad abortire, c’è stata la contrapposizione al potere medico. Ma il voler partire dalle esigenze delle donne e dalla esperienza di self-help ci ha condotto a tentare una autogestione che tendeva a scalzare il potere tecnico e decisionale dei medici, e non solo a denunciarlo. L’esperienza del reparto occupato è andata, in questo senso, oltre la soglia sopportabile da un’istituzione sanitaria e dalla nostra stessa capacità organizzativa. Più che proporla come un modello immediatamente sostenibile nel lungo periodo, dovremmo considerarla per tutto quello che ha significato nel tempo circoscritto della sua durata: è stata una esperienza che ci ha fatto verificare per la prima volta le conseguenze pratiche, che l’ascolto delle nostre esigenze può avere nell’organizzazione sanitaria: se si ascoltano queste esigenze, senza subordinarle a condizioni poste da altri, l’organizzazione sanitaria normale subisce uno sconvolgimento, viene messa in questione da capo a piedi. La nostra lotta non riguardava solo problemi di gerarchie e di retribuzioni, ma esprimeva decisamente anche una volontà di riappropriazione del sapere da parte di lavoratrici subordinate nei confronti del medici; e, per di più, presupponeva una socializzazione di conoscenze fra le compagne del reparto e le donne che venivano ad abortire. L’occupazione fisica del reparto, o l’interruzione della normale routine dell’ospedale, non avrebbero potuto esprimerne i contenuti, senza essere accompagnate da una complessa interazione coi medici, col loro sapere. Ecco perchè è assurdo interpretare i contenuti di questa lotta solo in termini rivendicativi del posto di lavoro, o come azione sostitutiva delle lacune dell’istituzione.
C’è stato, poi, uno stretto rapporto con le donne che venivano ad abortire, ma anche qualche ambiguità: infatti l’istituzione è sempre una “controparte”, che l’utente identifica nelle persone con cui di fatto si trova a confronto. L’aver vissuto un momento “caldo” della lotta ha portato una saldatura fra lavoratrici volontarie, infermiere, femministe presenti nel reparto e donne che dovevano subire l’intervento. Ma forse non ci si può affidare sempre e solo alle garanzie create da una situazione in movimento; possono esserci momenti diversi, in cui il nostro controllo non è così incisivo, ma più esterno, in cui la nostra mobilitazione è più fiacca, e come dovremmo organizzarci, in vista di questo? Possiamo proporci di entrare sistematicamente nelle istituzioni insieme alle donne utenti, per vivere accanto a loro le fasi della degenza, per controllare (anche quando non si è dipendenti dell’ospedale o della clinica) quello che i medici fanno? La lotta di donne esterne all’istituzione, che intendono controllare ciò che accade dentro, deve essere sempre raccordata con quella delle donne lavoratrici, e in che modo? Ed è possibile che presenti modi diversi o complementari di organizzazione?
Certo, le azioni collettive ripropongono il tema cruciale dell’organizzazione. Anche se l’autogestione completa non è praticabile e non lo sarà per molto tempo, né dentro né fuori le istituzioni, non possiamo evitare di porci il problema, se il controllo ci interessa veramente. E qui viene fuori con violenza non solo l’impatto con la realtà esterna, ma quello con i nostri stessi conflitti, tra i desideri da una parte e le necessità della tecnica e della divisione dei compiti, dall’altra. Rispondere con la fuga nel “privato” è un po’ come accettare la delega alle organizzazioni politiche, accettare i limiti posti dalla politica maschile alle nostre lotte, ed è per noi un grosso rischio. Significa, infatti, essere divise, per naturale conseguenza dell’organizzazione sociale, tra garantite e non garantite, tra donne inserite — anche se in modo subalterno — in qualche gerarchia di privilegio sul piano lavorativo, politico, delle condizioni materiali di esistenza, e donne con cui è difficile trovare punti di solidarietà, perché più emarginate dalle altre. Ognuna di noi sa che, da sola, non può combattere a fondo il suo sfruttamento ma solo cercarsi degli spazi per vivere meglio, per essere meno oppressa. Questa sembra, per ora, l’unica via d’uscita, dati i tempi lunghi che il movimento deve percorrere nella ricerca di mete che oltrepassino i traguardi finora raggiunti. Diverse sono le forme di alienazione e di subalternità, lo sfruttamento che ognuna subisce, e ci vorrà del tempo per scoprirle e collegarle.
Intanto, la nostra debolezza collettiva consente allo Stato; cioè alle persone che tengono in piedi, di farci partorire in condizioni che a volte sono peggiori di duemila anni fa; così come ci rende strumenti nel lavoro domestico, nelle varie forme di lavoro riconosciuto e gratuito. Questa strumentalità non è puramente fisica, ma anche psichica.
Si comincia ad uscire dall’accettazione fatalistica del rapporto d’inferiorità con quanti controllano la nostra vita, rendendoci conto che l’isolamento sofferto in una situazione, è il prolungamento di altre situazioni di oppressione che si susseguono nella nostra vita. L’ospedale, appunto, è un servizio pubblico che utilizziamo in solitudine. La donna che affronta l’aborto, il parto, è isolata in momenti traumatici della sua vita, come lo è in qualunque tipo di ricovero, soprattutto quando non si presenta come cliente di riguardo. Il funzionamento normale dell’istituzione è per lei oppressivo, sia negli ospedali fatiscenti che nelle cliniche attrezzate. L’oppressione deriva, in primo luogo, dalla totale impossibilità di controllare ciò che viene praticato sul suo corpo. Ma a quali condizioni potremmo intervenire per controllare? La mancanza di “strategie” collettive pesa sulle compagne che hanno cominciato ad aggredire qualche realtà istituzionale.
L’isolamento può far rifluire tematiche che erano presenti in queste esperienze.
Dovremmo rinunciarvi? Oppure dovremmo accettare i consigli politici di quanti insistono nel voler limitare il nostro intervento a un controllo esterno — non si sa bene come incisivo, a meno che non metta veramente in questione i tecnici e il loro sapere? Dovremmo fidarci dei medici, il cui livello di coscienza politica arriva a permettere alle donne di servirli perchè possano esercitare meglio la loro professione, o magari a delegare alle donne qualche funzione subalterna, ma non ad accettare che le donne lottino in prima persona per aprire la strada a valori diversi, a modi di esercitare la medicina che minerebbero l’istituzione e con questa il loro stesso potere?
Non crediamo, d’altra parte, che il confronto tra donne possa più essere svincolato da situazioni vissute collettivamente, e analizzate nella loro quotidianità. Per questo le manifestazioni in piazza non ci bastano più, ma vorremmo lottare sul terreno della esistenza quotidiana. In questo modo, forse, i bisogni di tutte possono cominciare a esprimersi.