Medicina

il parto punitivo

gennaio 1974

«Ricordo chiaramente il travaglio del mio parto: sono entrata in maternità martedì alle 21 e ho partorito dopo 86 ore, cioè sabato alle 11. I dolori sono cominciati subito dopo il ricovero e sono continuati per giorni e notti senza tregua. C’erano quattro lettini, continuamente occupati e liberati e io ero sempre lì. Un mio zio conosceva il processore e gli chiese di fare qualcosa, gli rispose che il bambino stava bene e io pure, ma io non avevo più mangiato e neppure ero stata visitata da nessun dottore da quando ero entrata…

Nel paese della Mamma, dove essere Mamma è ancora l’unica possibilità di identificazione sociale, dove la Mamma come simbolo, è adorata come fosse una madonna colbambino, si partorisce ancora così, come è raccontato nella raccolta di testimonianze “Basta tacere”, messo insieme dalle femministe di Ferrara: si partorisce cioè nel dolore, nella crudeltà, nel sadismo, nell’abbandono, nell’indifferenza, nell’ingiustizia, nel pericolo, nell’enorme colpa di una disorganizzazione sanitaria che ammazza più di 30 mila neonati ogni anno, ne rovina altrettanti, manda al creatore nove partorienti su 10 mila, lascia su migliaia di donne ferite indelebili nella salute fisica e psichica. Nel Paese della Mamma il 39 per cento delle donne partorisce ancora in casa in una situazione di altissimo pericolo per la madre e per il bambino. Secondo un’inchiesta dell’Istituto di Igiene dell’Università di Napoli, su 500donne prese a campione, l’82,2 per cento “preferisce” partorire in casa. È importante sottolineare il verbo “preferire” usato dai dotti maschi dell’università. Romantiche o birichine, tutte queste dolci signore rischiano volentieri la vita e la loro integrità, la vita e l’integrità del figlio, perché “preferiscono” così: e non magari perché nessuno gli ha spiegato il rischio cui vanno incontro, il diritto che hanno ad essere assistite, o gli ha fatto superare certi pudori, certe credenze, la sfiducia e la rassegnazione; o perché l’ospedale più vicino è a 50 chilometri, o le dòglie capitano all’improvviso, come una fatalità non programmata, o ancora perché non si sa a chi affidare gli altri figli che resterebbero abbandonati se la madre si allontanasse. Davanti a un’incuria sociale così criminale, c’è ancora qualche zuccheroso signore, come un certo Gozzini che, nel suo libro “Verso una maternità felice”, può scrivere idiozie come queste: “Per ragioni tradizionali, affettive e morali, la maggior parte delle future mamme preferisce partorire a casa. C’è infatti qualcosa di così intimo e familiare nella dolce atmosfera della casa, tutto sembra amico, le persone più care possono essere vicine in un momento tanto delicato e importante della vita. La ostetrica che ha seguito la giovane mamma durante la gravidanza, è presente dall’inizio delle doglie per darle coraggio e fiducia e il bambino nascerà nella tiepida atmosfera della famiglia». Idillico quadretto che si può difficilmente applicare al caso di Carmela Biondillo, 40 anni, che ha partorito il suo dodicesimo figlio nella sua miserabile casa in piena Milano ed è morta dissanguata in totale solitudine, con in braccio il penultimo nato e l’ultimo, morto tra le gambe.

In tutto il mondo e fatta eccezione per l’Olanda che è organizzata in modo perfetto per il parto in casa, più alto è il numero delle nascite in ospedale, più basso è il tasso di mortalità dei neonati. In Svezia per esempio i parti in ospedale corrispondono al 99,4 per cento e la mortalità perinatale al 19 per mille (i dati risalgono al 1963 e sono migliorati). In Italia partorisce in ospedale il 53,3 per cento e la mortalità perinatale è del 36,9 per mille (dati del 1966, che ci pongono al terzultimo posto, prima dell’Ungheria e del Portogallo, Angola compresa, nelle statistiche mondiali).

Il signor Gozzini non ha comunque del tutto torto quando, parlando del parto a domicilio pur non sottolineandone la pericolosità, ne vanta l’atmosfera amichevole. Atmosfera che nella maggioranza dei casi manca completamente quando si partorisce in ospedale.

Nel Paese della Mamma infatti, appena una donna ricoverata entra in travaglio, diventa per la maggior parte delle infermiere, delle ostetriche, del medico, (ammesso che le capiti di attirare la sua attenzione) un’animale scomodo e fastidioso, il cui dolore non commuove perché non causato da una malattia, la cui paura è un intoppo ad un’organizzazione che non ha tempo per essere umana: non più una donna che ha il diritto di sapere cosa le sta accadendo, cosa succede intorno a lei, non più una persona da rispettare, da consolare, da aiutare. Sino a qualche tempo fa l’inferno del parto era un argomento di cui non si parlava se non con vaghe parole come di un dolore inevitabile, da subire comunque: ma non era educato, non era “femminile” addentrarsi in particolari carnali, viscerali, addirittura sessuali o peggio ancora schifosi. Adesso le donne sono stanche di tacere: stanno capendo che se il parto non è quell’esperienza squisita che sa raccontare tanto bene chi non l’ha provata, non deve neppure essere quelpauroso martirio, quell’avvilente, inutile punizione che sono costrette spesso a subire. Così raccontano: del sadismo delle infermiere, dell’ignoranza di certe ostetriche, dell’incuria del medico; dell’insofferenza e dell’indifferenza di tutti.

C’è l’infermiera che dice alla donna che grida da ore “Non gridavi così quando facevi l’amore” oppure “Spingi spingi come se fossi al cesso” o anche “Ne hai di ore da aspettare, quindi rassegnati”. C’è l’ostetrica che da un’occhiata e poi dice “La pera cade quando è matura” alla donna in travaglio da cinquanta ore, e la sua non è solo crudeltà, è anche colpa criminale, poiché dopo un certo numero di ore il travaglio non è solo un’inutile sofferenza, ma anche un grave pericolo per il bambino che può nascere leso. Ci sono i medici che entrano in sala parto solo in certe ore, perché dopo non hanno tempo e quindi l’assistenza completa l’hanno le previdenti che partoriscono la mattina, diciamo dalle 10 a mezzogiorno. Ci sono quelli che non intervengono a tempo, che non sanno intervenire, che commettono errori gravissimi.

Secondo una ricerca condotta nelle cliniche ostetriche ginecologica e pediatrica dell’Università di Torino, da Colli, Monti e Ballarlo, nel momento del parto su cento casi di morte del bambino, il 24,80 per cento poteva essere evitato, La percentuale più alta di mortalità infantile, secondo quanto riportano le statistiche sanitarie, nel periodo ’65-’67 era stata causata da traumi ostetrici, asfissia, incidenti avvenuti durante il parto.

Nessuna statistica invece tiene conto di quanto questi traumi incidano per sempre sulla salute fisica, sessuale, mentale della madre. Certi stati di malinconia, nevrosi, o addirittura psicosi che portano certe madri addirittura a accanirsi ‘ sul nascituro, nei primi mesi dopo il parto, sono ritenuti sempre, almeno quando i giornali li riportano, attacchi di follia e non i risultati di un’esperienza terribile, vissuta nella più crudele solitudine, nella più inadeguata assistenza. Né sono mai stati calcolati quanti uteri sono stati strappati per errore o lesi per sempre, durante un parto mài condotto, Il metodo più usato ancora oggi per far nascere i bambini, nel Paese della Mamma, è quello del ginecologo o dell’ ostetrica che saltano sul ventre della madre; sempre in auge il forcipe, diffuso sino all’abuso il taglio cesareo. In certi ospedali il forcipe è l’unico strumento a disposizione. Secondo Centaro e Decio, il primo, direttore della clinica ostetrica ginecologica di Padova, il secondo, primario dell’ospedale civile di Ancona, su 227.631 parti controllati in una loro inchiesta in Italia nel 1969, ci sono stati ‘ 80.306 applicazioni di forcipe e 16.593 tagli cesarei di cui meno della metà eseguiti nell’esclusivo interesse del nascituro. L’altra metà era stata fatta perché era più comodo, forse per la madre ma soprattutto per il medico, magari frettoloso, magari ansioso di evitare un parto da seguire con più attenzione.

Oltre che pericolosamente, in Italia si continua a partorire con dolore. Nei paesi più progrediti, dove sembra naturale far di tutto perché anche il dolore ‘ naturale ‘ del parto sia minimizzato, sono diffuse varie tecniche per alleviare se non per eliminare del tutto il male. Si usano per esempio la maschera a gas entonox, le iniezioni di un analgesico chiamato petidina e soprattutto l’anestesia caudale che va fatta però da uno specialista. In Italia al Nord almeno il 30 per cento, al Sud il 50 per cento dei reparti di maternità non praticano alcun tipo di anestesia. Molti medici sono contrari all’uso di qualsiasi anestesia o analgesia. Non tanto perché la ritengono pericolosa o un intralcio a unnormale, quanto perché richiede la presenza costante di un anestesista: e poiché non c’è quasi mai l’ostetrico non c’è quasi mai il pediatra, è impensabile che le donne italiane non ricche possano anche disporre, per il loro parto, di un altro specialista. Talvolta si tenta di risparmiare sul personale: come è accaduto in ottobre in una casa di cura privata della Liguria dove l’ostetrico si è trasformato anche in anestesista: mandando al creatore per un’errata dose di anestetico, la partoriente. In Svezia l’anestesia locale è obbligatoria, in Inghilterra è pagata dalla mutua. Secondo Maddalena Tabarracci, ginecologo padovano, madre da pochi mesi con un’esperienza, malgrado la sua qualità di medico, allucinante, nel costringere le donne al dolore c’è anche del puro sadismo. “C’è inconsciamente l’idea che con il dolore le donne devono pagare, naturalmente solo loro, l’atto d’amore. E c’è anche in alcuni medici una istintiva ripugnanza per un atto che considerano sessuale e perciò peccaminoso. All’ostetrico, il nume che ha sgarbatamente e silenziosamente in mano la vita tua e di tuo figlio, dà persino fastidio che tu sia preparata al parto psicoprofilattico: perché allora segui lucidamente, non sei più una cosa nelle sue mani, una macchina da ‘liberare’ da una sua parte». “Per fortuna” di questo tipo di medico, i corsi psicoprofilattici, in Italia, sono pochissimi: il numero delle donne che arriva al parto cosciente, preparata, senza paura, è quindi molto limitato. Ma le colpe, l’impreparazione, la crudeltà di singoli individui, medici, ostetriche infermiere (non tutti naturalmente, se no forse non partorirebbe più nessuna donna), rientrano in una colpa, in una responsabilità, in una criminale disorganizzazione molto più vasta: quella del potere sanitario italiano, ancora in attesa di una ipotetica riforma, ben arroccato invece nel disordine d’oro dei suoi piccoli mille piedi in mano ai grandi e inetti baroni. Manca il personale sanitario, mancano i medici, molti ospedali non vogliono pagare la presenza di ostetrici e pediatri 24 oresu 24: all’università non ci sono specialità di perinatologia e neonatologia; attualmente negli ospedali mancano almeno 15 mila letti di ostetricia di cui 9.000 nel Sud. Le cliniche di lusso sono pericolosamente mancanti di attrezzature elementari per seguire un parto appena un po’ complicato. Molti reparti materni negli ospedali sono nella stessa situazione.

Su “La Stampa” del 9 aprile 1972 Gabriella Poli dà una descrizione spaventosa della maternità più nota di Torino, la S. Anna, dove avvengono ogni anno almeno 14 mila parti, Un’unica sala parto serve 130 letti d’ostetricia. I letti del travaglio sono solo sette. Spesso le partorienti aspettano in barella, sedute su una sedia o anche in piedi. Capita che senza disinfezione si alternino sugli stessi lettini donne sane e donne con l’epatite virale o altre infezioni, magari la lue. Non c’è una sala di rianimazione, non esiste un reparto di radiologia.

Alla clinica Mangiagalli di Milano, forse la più organizzata d’Italia avvengono 8.000 parti l’anno. La sala parto è una sola, i letti 350. Ci sono tre sale travaglio con un totale di 12 letti dove 12 donne gridano tutte insieme il loro dolore. Le altre stanno in barella, in corridoio, a tenersi le loro doglie, quasi ammucchiate una sull’altra come in un doloroso carro bestiame.

Ma almeno la Mangiagalli ha giorno e notte presenti ostetrici, anestesisti, pediatri. Ha tutti gli apparecchi più moderni per seguire il parto in modo sicuro: per esempio il sistema di monitoraggio che controlla la frequenza del battito cardiaco e le contrazioni uterine, gli ultrasuoni, gli strumenti per misurare l’equilibrio acido basico del feto in travaglio e quindi la sua necessità di nascere. Ma sono numerosi (quanti non si sa, queste cifre sono tenute ben nascoste, o addirittura mai raccolte) gli ospedali che non possiedono nessuno di questi strumenti, oppure li hanno, regalo di qualche benefattore in cerca di pubblicità ma nessuno sa usarli, o ancora non c’è spazio ove metterli, per cui se ne stanno in cantina, dentro l’imballaggio, e l’ostetrico continua imperterrito a seguire la vita del bambino e della madre con una trombetta da appoggiare al ventre.

Ma la più grave delle colpe della nostra organizzazione sanitaria non è tanto la confusione e l’indifferenza in cui lascia partorire quanto l’incuria e l’abbandono con cui fa arrivare il momento del parto. È un discorso troppo duro e importante questo per trattarlo in poche righe, anche perché coinvolge non solo la colpevole organizzazione sanitaria ma tutta una serie di altre rozze paure che si innestano in un costume che opprime la donna e la ritiene in fondo solo un oggetto sessuale e una fattrice, e in un sistema politico ed economico che non vuole risolvere i suoi problemi.

Diciamo solo che non può esserci una buona maternità se non c’è un buon controllo delle nascite, una diffusa educazione sanitaria, un sistema generalizzato, di vaccinazione e prevenzione di malattie infettive, centri per le visite prematrimoniali e per gli esami genetici e quartieri di abitazione sani, ambienti di lavoro non avvelenati. Ma le donne hanno capito ormai che la maternità non è un fatto privato, individuale, una fortuna, o una disgrazia da godere o subire nell’ambito ristretto della famiglia. Che è invece un fatto che coinvolge tutta la comunità, che deve essere quindi protetto da tutta la comunità. Le donne, per fortuna stanno imparando, a loro spese, che bisogna chiedere, pretendere, costringere, e non più subire, accettare, chinare la testa.