i prezzi

sono bloccati eppure salgono

gennaio 1974

Si dice «blocco drastico dei prezzi» fino al ’74. Il CIP (Comitato Interministeriale Prezzi), non autorizzerà aumenti di prezzi, salvo casi speciali di ingenti aumenti delle materie prime sul mercato internazionale. La fase del «blocco rigido» sui prodotti alimentari e sui listini delle grandi industrie (quelle cioè che nei primi sei mesi del 1973 avevano un fatturato superiore ai cinque miliardi), quella, tanto per intenderci, in cui si poteva «telefonare al Governo», è stata prolungata fino alle feste di Natale.

Intanto però i prezzi aumentano. Quando i prezzi non aumentano, diminuisce la qualità o il peso (le tavolette di cioccolato di quasi tutte le marche, ad esempio, sono silenziosamente passate da cento a ottanta grammi). Altri prodotti come riso o pomodori pelati, hanno preso il via verso mercati esteri perché la svalutazione della lira li ha resi concorrenziali.

Su una cosa sono tutti d’accordo, sindacati, cooperative, produttori agricoli, esercenti: il controllo dei prezzi per essere efficace e per non strozzare i dettaglianti deve essere fatto alla produzione e sulle importazioni. Vediamo come operano i mercati generali, dove si riforniscono i dettaglianti, che dovrebbero avere la funzione di fissare «prezzi medi». Chi stabilisce i prezzi nei Mercati generali sono i commissionari che fanno da tramite tra produttori e grossisti. Poiché da alcuni anni non è più fatto obbligo di far passare tutte le merci in arrivo in una città attraverso il mercato generale, quando la merce è troppa rispetto al prezzo che si vuol mantenere, il concessionario la dirotta verso magazzini privati. Così il mercato generale funziona come fissatore di prezzi non medi ma massimi. Lo stesso alto costo di gestione del mercato generale diventa profitto per i concessionari mantenendo alti i prezzi dei prodotti, che il concessionario vende poi attraverso il proprio magazzino privato. Produttori agricoli, cooperative agricole, cooperative dì consumo, sindacati chiedono che uno strumento pubblico, l’AIMA (l’azienda di stato per i mercati agricoli) intervenga sul funzionamento dei mercati generali. Un intervento dell’AIMA, dai «mercati alla produzione», dove i contadini convogliano i loro prodotti, ai mercati generali, funzionerebbe da calmiere, impedendo speculazioni e accaparramenti. La carne è arrivata a prezzi inaccessibili: 4.200 il filetto, 3.800 il girello. Recentemente un’iniziativa di un. gruppo di macellai genovesi ha fatto parlare di sé stampa e televisione: questi macellai, dopo aver acquistato collettivamente la carne da produttori polacchi, avevano potuto ribassarne considerevolmente il prezzo.

Anche per la carne sindacati, cooperative ed esercenti ritengono necessario un intervento pubblico per frenare le speculazioni. Le iniziative di gruppi di dettaglianti o delle cooperative di consumo da sole non bastano.

Gli importatori di carne hanno infatti praticamente monopolizzato ì mercati dei paesi produttori. Se si pensa che l’Italia importa per due miliardi di lire al giorno di carne dall’estero, ci si rende conto dell’enormità degli interessi coinvolti. Gli importatori, assorbendo ad esempio l’intera esportazione di carne di paesi conte l’Ungheria, sono in grado dì imporre ì loro prezzi sia ai produttori ungheresi sia ai consumatori italiani. Un’idea dei super prof itti realizzati in questo settore ci viene se pensiamo che le cooperative di consumo, pur non avendo accesso ai mercati come quello ungherese per le ragioni dette sopra, riescono a vendere la carne nei propri supermercati a 350 lire in meno al chilo rispetto ai prezzi correnti. Questa cifra viene risparmiata comprando carne dalle cooperative di consumo francesi invece che dagli importatori italiani. I superprofitti degli importatori, fra l’altro, vengono accresciuti attraverso una serie di manovre sui dazi doganali della Comunità europea. Per l’importazione di carne da paesi fuori della Comunità sono infatti previsti, oltre a un dazio fisso, speciali prelievi doganali variabili e fissati per tempi molto brevi, che gli importatori riescono spesso a far salire o scendere secondo la propria convenienza.

Un ultimo ma considerevole gonfiamento dei prezzi è provocato dalla esasperazione dei mezzi pubblicitari e dall’artificioso moltiplicarsi delle confezioni. Di «sprechi» e di costi della società dei consumi si parla da molto tempo, ma il consumismo ha continuato a svilupparsi a pieno ritmo. Anche l’ecologia, pur diventata popolarissima, non è servita a frenare la dilatazione dei consumi. Il 25% del costo per una serie di prodotti di largo consumo, fra cui gli alimentari, è dovuto a spese per imballaggi, pubblicità, vendite a premio, sollecitazioni varie al consumatore. Soltanto nelle spese pubblicitarie troviamo 1.107 milioni di lire all’anno per i dadi da brodo; 1.284 milioni per pubblicizzare merende; 1.295 milioni per sollecitare l’acquisto di biscotti normali, e 1.427 milioni di propaganda del biscotto detto «dietetico»; e così di seguito. Prendiamo un settore di quelli compresi fra le 21 «famiglie», quello dei detersivi: un fustino che si vende a 3.200 lire costa alla produzione (compreso il profitto industriale) 1.500. Un detersivo messo sul mercato dal CON AD (Consorzio Nazionale Dettaglianti) viene venduto al dettaglio, a 2.200 lire il fustino da cinque chili. È noto che la differenza fra i vari prodotti nel campo dei detersivi è puramente pubblicitaria. Produzione e distribuzione, in questo settore, sono in mano a poche grandi società multinazionali che dietro le diverse etichette tutte facenti capo alle stesse società dominano il mercato in condizioni praticamente di monopolio, imponendo ì prezzi che vogliono.