suore come donne

gennaio 1974

Ho conosciuto Suor Enrica, Suor Marcella, Suor Federica e Suor Maria Cristina attraverso un’amica, che lavora come assistente sociale nell’istituto in cui insegnano, in una grande città del nord. Ver un anno ci siamo viste occasionalmente: io portavo negli incontri l’ambivalenza che molte di noi hanno nei confronti delle “suore” (la curiosità per questo loro mondo segregato, pietrificato da secoli di silenzio e la diffidenza istintiva verso il “diverso”, accentuata dai ricordi di quattro anni di collegio ); da parte loro sentivo il desiderio di aprirsi, tenuto a bada dalla lunga abitudine al controllo di sé, al non rivelarsi.

Siamo diventate amiche senza volerlo, con la riluttanza di quando ci si avventura in territori poco noti, ma anche con la gioia di scoprire, di volta in volta, che in realtà avevamo molte più cose in comune di quanto avessimo mai immaginato.

Quel che mi raccontavano mi è parso così interessante che ho chiesto loro il permesso di intervistarle per Effe: ci hanno pensato su per un mese, hanno detto di sì, poi di no, infine si sono decise a parlare. Mi hanno invitata una domenica pomeriggio al loro istituto: seduta in un salottino con il blocchetto per gli appunti e una bottiglia dì aranciata sul tavolino, le ho ascoltate per quattro ore, ad una ad una. Di quello che hanno detto non ho cambiato una parola (ho sostituito solo ì nomi, per ovvii motivi).

Suor Marcella

“Io sono di un paesino dell’Appennino modenese. Sono entrata in istituto a 11 anni per studiare perché al mio paese non c’erano scuole. Ero una bambina che veniva dalla montagna, senza problemi, bastava che mi facessero studiare e vedere mia madre ogni tanto. Era l’unica alternativa al lavoro nei campi, l’unica possibilità di studiare. L’educazione che mi davano in istituto era a senso unico: mi parlavano sempre della vita religiosa, mai del matrimonio o di altre eventuali scelte. Sono andata avanti nell’incoscienza fino ai 18 anni circa, poi ho cominciato a riflettere, a leggere moltissimo: la lettura mi ha fatto capire che c’era altro. Tuttavia ho deciso di provare l’esperienza religiosa, anche se fin d’allora ho avuto il pallino di come mi potevo realizzare umanamente, come donna. ‘È stata una ossessione per sapere come fare questo, come non sentirmi mutilata. Pensavo che la via per realizzarsi fosse quella di aiutare gli altri, ma il fatto di dover rinunciare ad avere un figlio, a dare la vita, mi faceva sorgere molti punti interrogativi. E da poco tempo che mi sono convinta che posso realizzarmi come donna anche se non faccio un figlio. L’altra cosa che mi ha fatto pensare molto era il rapporto con l’altro sesso: cioè come mi potevo completare non avendo famiglia, al di fuori del matrimonio. Adesso sono convinta che il rapporto con gli uomini mi può dare molto sul piano del lavoro, dell’amicizia, dello scambio di esperienze. Faccio l’ultimo anno di assistente sociale e sono al primo anno fuori corso di pedagogia. Sento molto la necessità di scambio con l’altro sesso, che vedo come un’amicizia profonda: non è che il rapporto sessuale mi faccia paura, n°, ma ora come ora conta l’amicizia, nel futuro si vedrà. 1° non so come sarà il mio futuro: me ne vado via perché Don ho voluto accettare un ordine di trasferimento in un’alba casa. Volevo restare, finire gli studi, farmi le ossa nellavoro. Mi hanno detto che l’ordine era in funzione della mia ‘ preparazione spirituale ‘ ma io penso che lo spirituale non debba mai sorpassare l’umano. Mi è stato chiesto un atto di ubbidienza, ma non me la sento di ubbidire, non ne vedo la ragione. L’ubbidienza deve essere anche razionale, altrimenti non posso accettarla. Uscirò, finirò gli studi, mi cercherò una camera e un lavoro. Però dentro rimango tale e quale, suora come ero. Cambierà solo il vestito, ma la disponibilità rimane la stessa. In fondo cosa significa essere suora? La figura della suora così come è stata messa in circolazione è sballatissima. Per esempio, ho frequentato gli studi per due anni vestita da suora, adesso da un po’ di tempo ci vado così, in pantaloni e golfino, normale insomma: gente che prima non mi aveva mai avvicinato adesso mi parla, vuol stare nel mio gruppo. Eppure io sono sempre Marcella. Prima però avevo l’abito e si vergognavano di me.

La suora deve assolutamente cambiare, anche nelle cose che sembrano secondarie e che invece hanno un’importanza maggiore di quel che pensiamo. La famosa crisi delle vocazioni dipende dal ghetto in cui sono chiuse le suore, in cui si ostinano a rimanere chiuse. Pensano che sia la volontà di Dio di andare vestite così, ne conosco alcune che godono a sentirsi insultare e disprezzare perché dicono: “Siamo come Gesù». Anche questo è sbalattissimo, questo pensare che siamo noi a dispensare agli altri. Ma guardiamoci come siamo ridotte: non riusciamo a stare in un gruppo di giovani, siamo inibite, non so proprio cosa abbiamo da dispensare.

Un’altra cosa da buttare via è ih senso di inferiorità. Prendiamo gli esercizi spirituali: è sempre il prete a fare da guida. E noi lo lasciamo fare: non si sa per senso di inferiorità o per tradizione. Fatto sta che la strada della vita spirituale è sempre indicata da uomini. Non parliamo poi dei rapporti tra suore e preti, sempre lastricati di sospetti: la collaborazione è oggetto di scandalo. Siamo molto indietro in Italia.

Per strada, per esempio, quando mi insultavano dicendomi magari ‘ Corvo, Sacco di carbone, Cornuta ‘ e così via, se avevo l’abito non osavo rispondere, arrossivo e basta. Adesso, in borghese è un’altra cosa, mi sento libera di reagire, se capita.

Per questo io voglio iniziare una nuova vita fuori di qui. Non ho paura, sono tranquilla. Però ho paura tantissimo della solitudine. In quella stanza che mi troverò fuori, volente o nolente, la sera sarò sola. La sera non dico che la odio ma quasi. Adesso più che mai la solitudine mi fa paura.

Suor Federica

“Io sono dello stesso paese di Suor Marcella e anch’io sono entrata in istituto a 11 anni. Da bambina ero molto timida, molto isolata e ho sempre cercato di stare nascosta. La figura della suora mi piaceva in maniera vaga, il dedicarsi agli altri ecc. Però l’educazione che ho avuto è la peggiore che si possa immaginare. Uscivamo sempre inquadrate, portavamo calze nere lunghe, di notte dovevamo tenere le mani in un certo modo, guai a svegliarsi con il pensiero sbagliato… Per parlare con un’amica in camera dovevamo tenere la porta aperta, per questa gran paura che c’era delle amicizie particolari. Controllavano persino le giornate che passavi in famiglia. Io sono stata richiamata più volte per la ‘ andatura sbarazzina ‘: ad esempio, facevo le scale saltando i gradini, me le facevano rifare dieci volte in maniera composta. Io ho sempre continuato a saltare i gradini quando non mi vedevano, non ho mai seguito le regole, di nascosto ho letto sempre tutti i libri compresi quelli dell’educazione sessuale perché a me non aveva mai detto niente nessuno. Sono sempre stata una ribelle, con l’ideale della donazione, che è una cosa grande. Far la suora significa per me scegliere un tipo di vita in cui si è più disponibili agli altri, in cui si è libere di crescere spiritualmente e quindi si può dare di più, per esempio, di una madre oberata dai figli e dalla fatica. Vuol dire anche scegliere una maggiore libertà rispetto alle altre donne, Però anche per me uno dei tormenti più grandi è stato il dubbio di non essere realizzata come donna. Fino a 25 anni ero convinta che la vita da suora poteva portarmi alla realizzazione completa ma non vedevo come. D’altra parte ero sola, a parlare con le altre consorelle pareva parlassi arabo. Per loro valeva l’esteriorità: andare a messa tutte le mattine, pregare in un certo modo. Io penso che una suora, se un giorno non le va di andare a messa, può benissimo non andarci. Molte cose le ho sempre accettate per amore di pace, senza condividerle. Adesso, ho raggiunto un certo equilibrio, ma è un equilibrio sofferto e arrivato tardi per tutti i condizionamenti e i soffocamenti che ci sono stati.

I condizionamenti più forti sono quelli relativi ai rapporti con gli altri, soprattutto gli uomini. Questo problema ho cercato di superarlo da sola, non ho mai osato discuterne: cercavo di tenere un atteggiamento sciolto, normale, verso gli uomini in genere. A 17 anni sono stata mandata in un istituto di soli ragazzi (dai 13 ai 15 anni) a cui facevo da assistente: lì, facendo amicizia, ho superato il senso di inferiorità, ma dopo un anno e mezzo mi hanno cacciato via con infamia: mi hanno affibbiato un sacco di fidanzati. Adesso ci rido sopra, ma è stato uno dei motivi che mi hanno fatto odiare la vita religiosa.

Eppure, mi dicevo, devo essere suora in un certo modo e preparare il terreno per quelle che vengono dopo di me. Così ho sempre pagato di persona, sono sempre stata cacciata via: in media mi trasferivano ogni due anni. È la prima volta che sto in un posto da otto anni. Penso che per fare la suora in un modo giusto si deve prima salvare l’elemento umano e poi costruirci sopra il religioso; invece quello che viene soffocato dalla vita religiosa è proprio l’elemento umano. Conosco delle consorelle ridotte al punto che trattare con loro è come trattare con questo bicchiere: non c’è traccia di affetti, di emozioni. Qui viene ucciso tutto quel che sa di umano, di delicatezza, di femminilità. Anzi la donna viene soffocata anche fisicamente. Prendiamo la storia dei reggiseni. Prima erano proibiti, gli indumenti intimi non esistevano. Le suore portavano il busto con le stecche. Quando io sono entrata si era nel ’49 e i voti li ho presi nel ’54: facevo le magistrali e non dico la vergogna di andare senza reggiseno tra le altre ragazze. Ero piuttosto florida, come facevo a nasconderlo? Allora l’ho chiesto: per tutta risposta mi hanno fatto una striscia che mi appiattiva il seno (e si era nel I960, non cent’anni fa). Quando hanno visto che mi lasciava i segni, si sono arrese. Questa è una cosa marginale, ma dà l’idea dell’atmosfera in cui sono stata allevata. E poi i libri: c’era il mercato nero in istituto. Ho letto tutti i russi, quando ho preso la patente ho sempre usato i soldi per la benzina… e i libri. Se me li scoprivano e li ritiravano, ne compravo uno uguale. Le prediche non le ascoltavo mai, loro leggevano le litanie e io mi leggevo il romanzo che m’ero portata di nascosto in chiesa. A un certo punto mi sentivo una doppia personalità, avevo il terrore di diventare schizofrenica. Le suore o diventano schizofreniche o morte come questo bicchiere. Noi siamo delle isolate nella chiesa, isolate dal mondo. L’abito ci isola sempre, ovunque.

Malgrado tutto voglio restare suora e sono dispostissima a continuare. Adesso mi rende più tranquilla e mi convince della vita religiosa il fatto che mettere al mondo un figlio non significa nulla. Nulla nel senso che la grandezza del genitori non sta nel fare i figli, ma nel aiutarli a realizzarsi. Perciò adesso mi sento all’altezza delle altre donne. In quanto ai rapporti con l’uomo penso che l’amicizia sia indispensabile. Il rapporto sessuale in sé e per sé non mi interessa, ha senso solo come manifestazione di un amore completo. Siccome è solo uno dei tanti aspetti dell’amore, non mi sento incompleta. Tante donne hanno quello e hanno mille altri limiti. Certo tra noi è uno dei problemi più sentiti, il tabù per eccellenza, che non si nomina mai… In quanto ai rapporti lesbici, ci saranno ma non più di fuori. Su noi il sospetto dell’amicizia particolare pesa sempre più che sulle altre…

Suor Enrica

“Io vengo da un paesino del frusinate. I miei sono agricoltori, avevano la campagna. Siccome al paese non c’era la scuola media, sono andata in una cittadina vicina, in un istituto di suore dove c’era una mia zia suora. A me la vocazione è venuta, come dire, in modo naturale: ci pensavo fin da piccola e mi piaceva. Mi piaceva pregare, pensare di stare con tanti bambini, di aiutare gli altri. A 15 anni ho fatto il noviziato, dopo sei mesi di probandato (cioè di preparazione al noviziato). Ero contenta, mi sentivo al mio posto e accettavo tutto con entusiasmo, senza pensarci su due volte. A 16 anni ho fatto la professione, cioè ho preso i voti temporanei. Intanto frequentavo le magistrali in una scuola ‘ normale ‘, poi ho fatto il magistero e sono venuta qui. È stato dopo i ventun anni che ho preso coscienza di cosa vuol dire essere suora: cioè una persona che ha scelto un tipo di vita che le permette di dedicarsi completamente agli altri. Ho sempre sentito che voler bene a una persona sola non mi sarebbe bastato, sarebbe stato un limite troppo grande. Sentivo che doveva esserci la possibilità di realizzarmi come persona e come donna, facendo la suora. Adesso, che ho trent’anni di questo sono ancora convinta.

Certo è difficile farsi accettare come si è: lo vedo con le ragazze, (io insegno alle medie e sto con le mie alunne al pomeriggio) che mi accettano abbastanza come persona ma sono segnate da esperienze negative avute prima con suore ‘ vecchio stile ‘, per cui vedono la suora come una donna diversa mentre siamo come le altre. Tanto è vero che anche noi siamo discriminate: dipendiamo dal diritto canonico che è in mano agli uomini. Ma adesso chi decide di me sono io e soltanto io. L’educazione che mi hanno dato insisteva molto sulla rinunzia di sé, sulla mortificazione: invece capisco ora che quello che ha valore è una vita interiore ricca e che mantenere questa vita interiore è l’unico presupposto per poter dare. Qui in istituto abbiamo tentato di ottenere una maggiore indipendenza, specie in campo educativo, ma è andata male. Questo fatto di dover sempre chiedere può essere un grosso peso nella vita di una suora. Altro ostacolo è il dover vivere sempre insieme, osservare l’orario e così via. Di autonomia personale ce n’è ben poca. Poi c’è il fatto di sentirsi separate dal mondo. Dovremmo uscire di più, senza contatti ci si impoverisce. Oggi la vita religiosa è basata sui voti, domani potrebbe essere diverso, ci potrebbero essere gruppi spontanei come Mani Tese. Il fondamento della vita religiosa è la consacrazione a Dio per essere disponibile agli altri. E per essere disponibile agli altri, devo conoscerli, sapere come la pensano. Per questo dicevo che bisogna essere a contatto con il Wondo. Io cerco di farlo. Per esempio leggo di tutto, seguo 1 premi letterari (dato che insegno lettere). Leggo ogni giorno i quotidiani e i settimanali. Films ne vedo parecchi, anche se esiste una regola, in questa città, che impedisce allesuore di frequentare le sale pubbliche. Io mi metto ‘ in borghese ‘ e ci vado. L’ultimo film che ho visto è stato quello di Lelouch ‘ Una donna, una canaglia ‘. Vacanze ne faccio, vado ai campeggi con le ragazze e poi torno al mio paesino, in montagna. Mi comporto insomma, normalmente: invece la società fuori ci vuol vedere diverse a tutti i costi. Da noi suore si aspetta che prestiamo tutti i servizi però non ci considera, non si dà peso ai nostri diritti. Se sbaglia una suora, va su tutti i giornali, se sbaglia una famiglia no. Se una suora lascia il convento grande scandalo, se uno ha sei amanti nessuno fiata…”.

Suor Maria Cristina

Ho 34 anni e mi dico: mi rifarei suora? Non so, tante volte mi viene il dubbio. Dal punto di vista umano, formativo, non lo rifarei perché fuori si sbaglia ma ci si fa una personalità più presto. Qui il processo è rallentato. Io sto vivendo ancora in un periodo di transizione, di confusione. Sento che le cose stanno cambiando, che si profila una suora nuova, ma è ancora troppo confusa quest’immagine. La liberazione delle suore è cominciata ma non si può sapere come saremo fra dieci anni. Io per esempio sono a metà strada: non so staccarmi dai vecchi schemi, ma non ho le capacità di agire diversamente. Si continua a stare lì, vedendo un po’ quel che succede. Perché mi sono fatta suora? Mi piaceva, così, vagamente… Comunque dubbi fondamentali allora non ne avevo, volevo farmi suora. I dubbi veri sono venuti dopo: il problema della fede, di come intendere la vita religiosa. E poi la paura di essere diverse.