DANZA
dopo isadora l’androgino
mettere in scena il nostro quotidiano, vogliamo veramente rappresentarci come siamo o avremmo voglia di fare altro? a questi interrogativi sorti dopo le rassegne di danza presentate in italia nell’ultima stagione
Con la buona stagione (e poi con la stagione delle piogge) è arrivata a Roma una valanga di danza della migliore qualità. Prima Karole Armitage con il suo gruppo, poi a Spaziozero, la rassegna tedesca, un’ampia ricognizione di quanto di meglio c’è oggi in Germania, poi Carolyn Carlson e la sua splendida compagnia italiana e infine, ancora a Spaziozero, una panoramica della nuova sperimentazione newyorchese e delle ultime produzioni di alcuni fra i maggiori esponenti del post moderno degli anni Sessanta (Steve Paxton, Si- mone Forti).
Diciamo subito che, tranne alcune eccezioni, si è trattato di una valanga di presenze e/o di contenuti femminili, a conferma della forte tradizione che le donne hanno stabilito in questo campo.
Pare che alcuni critici (maschi, cfr. l’intervista a Dana Reit) a New York, vadano sostenendo con forza, che la danza, in particolare la corrente moderna della danza, sia un’arte che appartiene alle donne, Non conosco le argomentazioni che questi critici portano a sostegno delle loro tesi (a parte l’ovvia considerazione che la stragrande maggioranza delle protagoniste della modem dance sono donne) ma mi sembra a prima vista una tesi falsa: è forse possibile sostenere che personalità come José Limon, Merce Cunningham, Paul Taylor, Alwin Nikolais abbiano contato meno, sul piano del contributo creativo, di Isadora Duncan, Dorie Humphrey, Martha Graham? Personalmente lo escluderei. Il punto mi sembra piuttosto un altro: la danza sembra essere l’unica arte nella quale le donne sono riuscite a conquistare e a consolidare rapidamente, dopo Isadora Duncan, una piena e autentica parità creativa, riuscendo a servirsene per esprimere se stesse e il proprio punto di vista sul mondo.
Detto questo il discorso, diciamo su ”le donne e la danza”, potrebbe anche essere accantonato per il momento, rinunciando a certe rischiose disquisizioni di impostazione ideologica tipo ”il contributo specifico delle donne alla danza”. Senonchè la natura stessa di questo specifico (la danza, appunto) e le due rassegne di Spaziozero, riportano l’argomento prepotentemente alla ribalta, sia pure per ragioni diverse. Chi ha seguito tutta la rassegna tedesca (o anche chi ne ha visto alcuni spezzoni in giro per l’Italia), non può non essere rimasta colpita e talora anche imbarazzata dall’abbondanza di contenuti ”al femminile” e femministi che caratterizzavano la composizione delle artiste presenti (Susanne Linke e Reinhild Hoffmann). Imbarazzo ragionevole — combattute come siamo fra un ’’finalmente” e un ’’siamo ancora a questi punti?” — e da analizzare. Che dire delle nostre sorelle tedesche? Fanno bene a mettere in scena una composizione intitolata ’’Donne” (“Frauen”) e a rappresentarci in sottoveste di seta, rinchiuse nei binari della quotidianità più squallida e ripetitiva, mentre gli uomini alle nostre spalle discutono ”di cose serie”? È qualcosa che ci fa sentire forti e creative, capaci di partire dalla nostra condizione per conquistare il mondo, o non abbiamo più voglia di pensarci e rappresentarci cosi? Che cosa avremmo voglia di fare, invece? Quali nuove domande deve mettere in scena oggi il teatro delle donne per legarsi a ciò che le donne vivono, a ciò che le donne fanno?
Riflettere con onestà anche su argomenti apparentemente marginali come questo (a contenuti di una coreografia) può aiutarci a chiarire meglio cosa vogliamo oggi da noi stesse e ciò su cui possiamo contare fin da oggi. L’importante è che ciò che abbiamo da dire e ciò che tentiamo di dire non passi nuovamente sotto silenzio disperso nel redivivo concetto di ’’neutralità dell’arte” e dunque dello spettacolo, e che dall’esistenza stessa di questo contributo sia possibile per tutte ricavare dati e stimoli per la nostra esperienza quotidiana.
Si era appena conclusa la rassegna tedesca, con tutto il suo strascico di dubbi e di perplessità (non di ordine artistico, ché anzi Susanne Linke e Reinhild Hoffmann sono fra le cose migliori viste quest’anno) ed ecco ripresentarsi, sia pure sotto altra forma, il famoso argomento ’’donne e danza”, questa volta a proposito della rassenga ”Roma-New York”.
Nel suo intervento introduttivo al volume ’’New York – Nuova danza”, edito in occasione della rassegna — John Owell, direttore della rivista Live, ha voluto sottolineare il fatto che a rappresentare le nuove tendenze della sperimentazione newyorkese degli anni ’80 siano state chamate, insieme a due ’’mostri sacri” del post-moderno come Simone Forti e Steve Paxton, cinque giovani donne. Un dato del genere, secondo Owell, merita un’analisi particolare, alla ricerca di una ’’linea femminile” nella danza, portatrice, probabilmente, di contenuti specifica- mente femminili.
Ora io credo che, come me, molte altre donne siano di tutt’altro parere sull’argomento. Vale davvero la pena di perdersi ad analizzare lo ’’specifico femminile” nell’opera di artiste il cui lavoro testimonia già una nuova solidità e un nuovo rispetto per se stesse, quasi ”post-femminista”? Dana Reitz è forse, a questo proposito, la figura più significativa di tutta la rassegna. Lunga e sottile, con un aspetto severo, quasi austero, e con un sorriso improvviso e incantevole, i lineamenti fragili, è la protagonista di una sfida favolosa, nè maschile nè femminile, al linguaggio e alla tradizione della danza: da nove anni ha abbandonato la classe giornaliera (pane quotidiano di qualunque ballerino da un capo all’altro della terra) e il tradizionale linguaggio coreografico, fatto di passi e di forme (materiali o concettuali) per dedicarsi allo studio deH’improvvisazione, lavorando da sola ogni giorno in modo diverso. Dopo essere rimasta affascinata dal suo lavoro, ho chiaccherato con lei un pomeriggio al sole, proprio a partire dal ’’famoso argomento” e ho finito per appassionarmi a tal punto al suo lavoro da decidere che valeva la pena di prenderlo ad esempio di ciò che le donne fanno, di come le donne lavorano, nella “seconda fase”.
intervista /con «lana reitz
Allora cosa pensi di questa storia della ”danza femminile”?
(fa una faccia strana fra il divertito e il disgustato, scoppia a ridere e non risponde)
Insomma, di che si tratta?
Be’, ecco, un paio di critici a New York, maschi, si sono messi a sostenere questa tesi, che la danza, la danza moderna e contemporanea, sia un’arte che appartiene alle donne.
In che senso appartiene alle donne? Mah, non so, ma mi sembra una questione stupida. Non mi sembra neanche il caso di parlarne.
Eppure è innegabile che la presenza delle donne sia stata determinante per la nascita e la sorte della modem dance.
Certo, è vero. Evidentemente, dal momento che nel balletto tutto era in mano agli uomini e per le donne era impossibile esprimersi ed esistere come persone, la modern dance ha rappresentato l’alternativa possibile, il luogo in cui le donne hanno potuto esprimersi, creando da sole le proprie regole…
E tu come hai creato, da sola, le tue regole? Da cosa è nato e come si è sviluppato il tuo lavoro?
Ho cercato di lavorare a partire da quello che sentivo come un mio bisogno fondamentale, rinnovarmi continuamente, non ripetere neppure due volte lo stesso movimento, allo stesso modo. In un primo tempo ero piena di dubbi, di incertezze, mi fermavo continuamente per dirmi “no, questo non va bene”, ”no, questo non funziona”. Fino a quando ho cominciato a raggiungere un grado di concentrazione sufficiente ad isolare e neutralizzare tutti i messaggi negativi che mi giungevano dalle zone razionali di me, per ascoltare solo il ritmo interno del mio corpo. Allora ho cominciato a lavorare non più contro me stessa ma con me stessa.
Nei primo tempi lavoravo con la musica perchè era più semplice, ti aiuta ad entrare in contatto con il ritmo del tuo corpo e a mantenere la concentrazione. Poi, piano piano, ho imparato a lavorare solo sul ritmo, a concentrarmi sul ritmo. E stato un lavoro lungo, pieno di ripensamenti, ma lentamente è nato qualcosa di preciso e ho imparato a dire a me stessa ’’Questo è ciò che voglio fare. Se a loro non piace sono padroni di prendere e andarsene”.
Come riesci a mantenere la tua concentrazione straordinaria e insieme a non “perdere i contatti col mondo ”, a tenere conto del gatto, del rumore, dei suoni intorno a te?
É vero, c’era un gatto ieri sera, e poi parecchio rumore, gente che continuava ad entrare e un sassofono anche, in lontananza…
Quello che cerco di fare (e ci riesce, Ndr) è mantenere il ritmo, continuare ad ascoltare il ritmo della frase e creare dentro di me spazio sufficiente per portare tutto ciò che accade dentro l’improvvisazione.
Che cosa intendi esattamente per “ritmo”?
E una domanda giusta perchè quel che intendo è un po’ diverso dal significato letterale della parola. Quel che ho in mente assomiglia un po’ alla calligrafia giapponese, al modo in cui è possibile scandire col pennello lo spazio bianco. Per me il movimento è qualcosa del genere, come pennellate di diversa gradazione, frequenza e intensità.
(Dipinge ancora, infatti, con le mani e le braccia, tracciando segni nuovi e diversi nell’aria, per farmi capire, e usando punti di riferimento che riconosco).
Come eviti il pericolo della monotonia, dell’usare troppo le mani e le braccia?
E un pericolo reale; talvolta è necessario concentrare fin dall’inizio il lavoro sui piedi o sulla testa, o decidere in anticipo di non usare le mani e le braccia chiudendole… così. È comunque una questione di lavoro e di allenamento… Ti alleni tutti i giorni? C’è qualcosa che fai tutti i giorni… ?
… Allo stesso modo?… No, questa è la mia sfida: sono ormai nove anni che ho abbandonato la classe e l’esercizio quotidiano sempre uguale. Quando ho compreso fino in fondo che ogni giorno è diverso dall’altro ho cominciato a lavorare sul mio corpo ogni giorno in modo diverso, dedicando ogni volta una cura particolare a lavorare su punti diversi. Ho cercato di sviluppare un metodo di lavoro che mi mettesse in grado di fare, in termini di movimento, quello che i musicisti fanno con la musica, nel jazz, hai presente…? Conosci molto bene la muscia?
Sì, la conosco bene, davvero bene.
Cosa c’è dietro il tuo lavoro, dal punto di vista culturale? Qualcosa che ha a che vedere, non so, con la Gestalt Therapy, o altro?
C’è anche un’esperienza di terapia, sì. Qualcosa che sta a metà strada fra l’analisi transazionale e le esperienze tipo ’’radical therapy”…
E certe esperienze di self-help thera
py?
Ecco, sì, esattamente.
É un’esperienza che mi è servita a mettere a fuoco che cosa esattamente volevo dalla danza, che mi ha insegnato a stare nel ’’qui e ora”, a indagare cosa mi interessava, senza essere sopraffatta dall’angoscia del passato e dalla paura del futuro. È stata un passaggio importante.
Credi che sia possibile lavorare con altri a partire da quegli stessi principi che hai elaborato per te stessa?
Certo, ora ci sono altri quattro con me, e abbiamo presentato un nostro quintetto a Parigi, di recente. Si lavora di solito a partire da qualcosa che ho già studiato da sola, sulla stessa struttura di base, dal punto di vista della frase ritmica, e su questo ciascuno sviluppa il suo stile e la sua interpretazione. Trovo che sia molto importante un risultato di questo genere, perchè fino a questo momento è mancato lo spazio e la possibilità di creare ciascuno il proprio stile, pur continuando a lavorare con gli altri, e questo anche nella danza moderna, dove lo stile è libero e il linguaggio in perpetua riformulazione.