racconti inediti

la menzogna

giugno 1982

Perchè mentii, in quel momento? Ci conoscevamo da pochi giorni, eravamo seduti all’aperto, al tavolino di un caffè, era la fine di marzo e in un’aiuola davanti a me fiorivano dei narcisi gialli. Andrea mi stringeva la mano e, con lo sguardo acceso, mi diceva: ’’Sei bella, sei molto bella”. Ne ero lusingata e rattristata al tempo stesso, e proprio per quelle parole mi sembrò che tra me e quell’uomo non potesse esserci che un gioco, provvisorio ed eccitante, un gioco sì, nel quale la realtà va negata e la menzogna non è che invenzione creativa. Quelle parole avevano proposto anche il tipo di gioco. Così quando poco dopo mi domandò quanti anni avevo, risposi senza esitare: “Trenta”, e intanto pensavo spavaldamente: “Potrei dire anche ven- totto o venticinque”, poco tempo prima dei giovani mi avevano scambiato per una studentessa. In quel momento ebbi il senso compiaciuto e inebriato del mio corpo snello e flessuoso, del mio volto splendente, della massa bionda e lucente dei miei capelli. E lui con lo sguardo colmo di desiderio mi riconosceva giovane, alta sul culmine dell’età bella, più giovane di sè, che, me lo aveva appena detto, di anni ne aveva trentatrè.
 
Da allora, mi sono vista con gli occhi di lui, mi sono percepita tutta come mi percepiva lui, la giovinezza mi ha riafferrato calda ed esaltante, come una droga potente, e per alcuni mesi, presa in una sorta d’incantesimo, sono tornata veramente indietro nel mio tempo. Quei quarantaquattro anni che risultavano dai documenti erano nient ’altro che una cifra annotata per una stupida formalità burocratica, senza significato, senza ’’verità”. Mi sono vestita e atteggiata, ho parlato, pensato, desiderato come se avessi quell’età che Andrea credeva; ho ripreso a indossare jeans e maglioni colorati, a sedermi sui bordi dei tavoli o per terra, a ridere in modo spavaldo e rumoroso. Ho risospinto indietro quel pensiero, che negli anni precedenti era cresciuto a poco a poco dentro di me, di dover ormai scegliere le mie esperienze, rifiutando quelle che non mi fossero congeniali, in una saggia economia di me stessa, e insieme ai jeans e ai maglioni ho indossato anche una leggerezza di spirito, un’improvvisa prodigalità di tempo e di emozioni, come chi veramente avesse davanti a sè un’inesauribile ricchezza di anni da sperperare allegramente: ho speso ogni giorno in momenti incoerenti, come in moneta spicciola.
 
Ma in questi mesi che ho trascorso accanto ad Andrea l’ho udito più volte pronunciare, riferendosi a donne all’in- circa della mia età, frasi brutali e crudeli, senza sospettare di ferirmi, anzi certo della mia complicità: “Quella i quaranta non li aspetta più…’, ’’Ormai è vecchiotta”, ’’Cosa cerca più alla sua età”. Sentivo nelle sue parole aggressività e insieme paura, come se pronunciasse una specie di esorcismo, Ogni volta ho risposto con un sorriso di consenso, come avrebbe fatto appunto una donna di trent’anni. Ma ogni volta queste frasi mi hanno colpito come uno schiaffo. Dunque, se sapesse la mia vera età, mi considererebbe vecchia, non più appetibile, e improvvisamente sarei spogliata del fascino ideale della giovinezza, di cui ora sono ammantata, come di una magica veste tessuta d’illusione. E mi vedrebbe davvero diversa: quella ruga sottile sulla fronte, tra le sopracciglia, che dà decisione al mio sguardo e vivacità a tutta la mia espressione, gli apparirebbe come il triste segno di un incipiente decadimento fisico, i rari capelli bianchi, che si confondono nella massa bionda e che c’erano anche a vent’anni, annuncerebbero un’imminente resa del Corpo, quel lieve ingrossamento delle anche diventerebbe ai suoi occhi l’inizio di un osceno inarrestabile di- sfacimento della carne. Non mi desidererebbe più, e, mentre ora è orgoglioso di presentarmi ai suoi conoscenti e mi ostenta come un prezioso possesso, si vergognerebbe di avere una relazione con una donna più anziana di lui. L’idea astratta dei quarantaquattro anni, l’immagine stereotipata che è depositata nella mente di lui e di tutti mi si sovrapporrebbe come una maschera rigida e impenetrabile, mi si incollerebbe addosso, aderendo al mio volto, al mio corpo, al mio sguardo, alla mia voce, ai miei stessi movimenti, deformandoli tutto d’un tratto. Ne sono sempre più certa. E questa certezza fa sì che anche i momenti più belli che passo con lui mi lascino in bocca un sapore amaro.
 
Daria Martelli vive a Padova dove svolge la sua attività di scrittrice. Recentemente le è stato assegnato il premio teatrale ’’Vallecorsi” per la commedia ”Le streghe”.
 
I pregiudizi diffusi sulle donne di oltre quarant’anni li ho sempre conosciuti, ma ora soltanto hanno dentro di me una risonanza lugubre, e non solo quando a esprimerli è lui. I quaranta: una soglia fatale, oltre alla quale si è nel limbo squallido degli ’’anta”, irrevocabilmente al di là della bellezza, dell’amore, della gioia di vivere, ormai nell’attesa desolata della fine… E perchè non i trentacinque o i quarantacinque? Solo perchè le parole che indicano le diecine da quella in poi hanno la stessa desinenza? Chi ha stabilito quel limite definitivo, inesorabile? Gli uomini, secondo il loro gusto, il loro apprezzamento quasi gastronomico del corpo femminile? O le donne più giovani, in una spietata concorrenza con quello che saranno loro stesse un poco più tardi? Anch’io quando avevo vent’anni, ricordo, consideravo i quaranta l’inizio della vecchiaia, ma allora quell’età mi sembrava così lontana che non riuscivo a immaginare me stessa giunta a quel triste traguardo, una quarantenne non poteva essere che un’altra persona, incomprensibile, con cui mi era impossibile immedesimarmi. Le donne ma anche gli uomini mi appaiono come patetici condannati a una stessa corsa affannosa, in un’unica irreversibile direzione, tutti travolti nella stessa rapida corrente del tempo e della vita, eppure ciascuno separato con il sentimento da quello che è un poco più oltre nello stesso fatale percorso, ciascuno illuso di avere perenne diritto, per un suo inalienabile privilegio, all’amore e alla gioia. Privilegio che invece dura lo spazio breve della distanza dalla tappa successiva. É attraverso l’età, o piuttosto attraverso le nostre idee sull’età che comunichiamo con gli altri, e infatti è questa immancabilmente la prima cosa che si domanda di una persona, come se senza quell’etichetta non si potesse veramente conoscerla, anzi neppure vederla, interpretarne l’aspetto fisico. Quel volto pallido e teso è dovuto a una stanchezza momentanea o al passaggio devastante del tempo? Quei capelli opachi sono tali per natura o sono stati spenti dagli anni? E quella massa di carne che grava sulla figura è il risultato di un’invincibile obesità o del progressivo appesantimento della vecchiaia? Solo quel numero, impazientemente indagato, può dare significato a questi dati visivi, renderli intelligibili. E infatti quanto raramente si riesce a indovinare!
 
Il mio corpo è sempre com’era venti o venticinque anni fa, anzi ora è più snello. Ma non è solo il corpo ad essere rimasto uguale: quando penso a me stessa, mi sento ancora la ragazza, l’adolescente, la bambina, queste età sono tutte presenti dentro di me, fuse in un unico sentimento di me stessa. Ieri notte ho sognato di essere ancora al liceo, e mentre ero seduta nel banco non sapevo veramente se avevo sedici anni o quarantaquattro: ero preoccupata perchè il professore mi avrebbe interrogato e pregavo la compagna seduta al mio fianco di suggerirmi la risposta, ma nello stesso tempo sapevo che Andrea mi attendeva davanti al solito bar e temevo di far tardi all’ap- puntamento. C’è nel mio aspetto fisico e dentro di me questa possibilità di giovinezza, ed è con questa che io continuo a giocare. Ma di questo gioco sono ormai prigioniera.
 
A ogni istante mi domando con ansia come mi vede lui, come mi sente: ho bisogno di immaginarlo per poter fare il prossimo gesto, pronunciare la prossima parola, come se fosse lui a suggerirmeli. Quella donna trentenne che lui vede e sente ha assunto a poco a poco una sua consistenza autonoma, una sua terribile vitalità ideale, è veramente un’altra persona fuori e dentro di me, un personaggio teatrale contina- mente frapposto tra me e Andrea. Quella donna è diversa da quello che io sono: ha meno esperienza e meno delusioni, più speranze e più entusiasmo, lo avverto con sempre maggiore intensità, e il dovermi ogni volta calare in quella parte, vestirmi, atteggiarmi, parlare, pensare come farebbe quella, anche se mi riesce molto bene, mi provoca sempre più disagio, il senso penoso di un’estraneazione da me. Ogni volta che dimostro la mia giovinezza, mi vien fatto di pensare, con stupore: “Ma io ha quarantaquattro anni”, e quel dato numerico mi sembra sempre più irriducibile, carico di significati innegabili. Devo nascondere i documenti su cui è scritta la data di nascita, devo evitare che Andrea venga a contatto con persone che mi conoscono da troppi anni, ma soprattutto devo fare attenzione continuamente a non tradirmi parlando. Non devo dire di aver frequentato un certo tipo di scuola, quello prima della riforma, di aver portato vestiti di una certa foggia, di moda vent’anni fa, di aver preferito un certo cantante o un certo attore, famosi quando ero ragazzina. Anche certi modi di dire sono irrimediabilmente datati e vanno accuratamente evitati. Non devo lasciarmi andare a narrare episodi lontani della mia vita, che comporterebbero inevitabili riferimenti cronologici e permetterebbero con un facile calcolo di risalire alla mia età: quelli di cinque, sei anni fa sono già da tacere. Così non parlo mai del mio passato, come se non ne avessi, o come se fossi stata colpita da un’amnesia che avesse cancellato dentro di me questa mia dimensione. Questi quarantaquattro anni sono diventati imprevedibilmente un segreto penoso, una vergogna da nascondere, una colpa da tacere: proprio per la necessità di celarli continuamente li sento ora, tristissimi, come non li avevo mai sentiti prima di conoscere Andrea, proprio perchè li ho negati mi sono piombati addosso all’improvviso, pesanti come macigni. Ora ogni mattina, ogni sera, ogni volta che mi trovo davanti a uno specchio spio con inquietudine il mio volto, il mio corpo, come non avevo mai fatto prima, con il segreto timore che qualcosa nel mio aspetto possa tradirmi improvvisamente, come per la fine repentina di un lungo sortilegio, il sortilegio della mia perenne giovinezza. E in questa esplorazione ansiosa e analitica scopro infatti piccole rughe della pelle, lievi rilassamenti dei muscoli, diradamenti dei capelli. Forse c’erano anche negli anni passati, ma allora non li notavo, ritenendo del mio aspetto un effetto d’insieme che mi aveva sempre soddisfatto. E ora invece quelle piccole imperfezioni attirano la mia attenzione, insistentemente: sono la funesta avvisaglia che ho imboccato una via senza ritorno?
 
Ieri sera quando Andrea ed io siamo entrati nell’atrio del ristorante, nel grande specchio che era di fronte all’ingresso ho visto un volto terreo, segnato da rughe e da occhiaie, un volto che era il mio, ma così orrendamente mutato, come se la mia paura della vecchiaia si fosse concretizzata in un fantasma spaventoso. Ma subito ho notato che anche Andrea in quello specchio aveva una faccia insolitamente spettrale, e cosi pure una ragazzina che per caso in quel momento mi era accanto appariva grottescamente invecchiata. Allora mi sono accorta che dal soffitto spioveva una violenta luce al neon, e infatti, quando siamo entrati nella sala da pranzo, alla luce morbida della appliques altri specchi mi hanno rimandato il mio volto di sempre, bello e dolce. Ma quell’apparizione fugace mi ha turbato profondamente, ha smosso dentro di me paure che non si acquietano: quello che ho visto, come per un attimo di chiaroveggenza, è il volto che avrò, prima o poi, inevitabilmente, il volto che mi attende a un certo punto del mio futuro. Per la prima volta ho avvertito che la vecchiaia è dentro di me, da sempre, fin da quando ero bambina, come il germe di una malattia che lentamente, inavvertitamente, prende forza, si moltiplica, e infine sarà padrone del mio corpo, lo corromperà tutto, disfacendo il mio organismo, distruggendo la mia bellezza, Mentre eravamo seduti al tavolo, mi sono distratta, seguendo i miei pensieri, ed ecco Andrea mi ha preso la mano e, goffamente persuaso di essere intuitivo, mi ha detto, con tenerezza: ’’Sei troppo giovane per essere triste”. Quelle parole, cosi cariche di inconsapevole ironia, mi hanno invaso di una disperazione infinita: mai come in quel momento mi sono sentita chiusa, celata, irraggiungibile dentro quell’immagine che lui vedeva e che amava, alla quale si rivolgeva. Stavo carpendo un amore che non era per me, ma per un’altra.
 
La mia tristezza non posso confidarla a nessuno: gli altri, tutti gli altri sono i nemici che, se sospettassero, mi condannerebbero spietatamente alla ’’vecchiaia”, all’esclusione dell’amore e della gioia, nemici dai quali mi è ben lecito difendermi con la menzogna. Nemmeno nei confronti di Andrea ho scrupoli, anche se lui, ne sono certa, mi rinfaccerebbe di averlo ingannato. E’ giusto mentirgli. E gli porto un oscuro rancore proprio per questo disagio di non poter essere vera. Perchè, ora lo so, è stato lui a spingermi a mentire e a costringermi a rimanere nella menzogna, desiderandomi soltanto per la mia bellezza, mutilandomi della parte più vera di me, che ha rifiutato di conoscere. Se in quel momento, mentre eravano seduti a quel tavolino di caffè, mi avesse detto altre parole, che so? ’’Sei simpatica”, ’’Sei interessante”, ’’Sei intelligente”, se avesse mostrato di apprezzare tutta la mia personalità, io, fidando nel valore di questa, non avrei sentito il bisogno di imbellettarmi di giovinezza. E se in seguito si fosse creata tra di noi una fiducia totale, mi sarei aperta con lui: quanto l’ho desiderato! Proprio questa menzogna è il segno dell’estraneità dell’uno all’altra, della nostra incapacità di comunicare se non attraverso stereotipi di femminilità e di virilità, di bellezza e di fruizione della bellezza. Ad Andrea non posso che mentire. Come d’altra parte nient ’altro che menzogna può esserci tra uomini e donne, sempre. In questi ultimi tempi ripenso spesso a Vincenzo, che è stato mio marito: da quanti anni siamo separati? Vincenzo sapeva la mia età, allora ero molto più giovane e non avevo bisogno di celarla. Ma tra noi due altre menzogne meno definibili si erano accumulate giorno dopo giorno, finché avevo sentito quell’uomo lontano da me: un giorno eravamo a letto, mi baciava e improvvisamente quell’intimità mi era apparsa assurda, insopportabile. Proprio in quel momento fui certa di volerlo lasciare per sempre. Il giorno dopo andai ad abitare altrove.
 
Andrea lo desidero ancora. Ma di quanta sofferenza è mescolato ormai il piacere del suo amore! E invece, mi vien fatto di pensare, quanto riposante, rassicurante sarebbe avere accanto un uomo che avesse la mia stessa età, nè più giovane nè più vecchio, e che lo sapesse, anzi mi avesse scelto anche per questa fondamentale affinità. Sarebbe dolce riconoscersi insieme in una vecchia canzone, in un libro di vecchio successo, in una vecchia moda: ”Ti ricordi? Quando eravamo ragazzi… ai nostri tempi…”. E ritrovare in quelle esperienze lontane le ragioni del nostro essere di oggi. Si starebbe veramente insieme, traendo forza l’uno dall’altro. Il passato sarebbe solo la radice del presente, una dimensione di profondità temporale da assumere serenamente, e anche il futuro non sarebbe nient’altro che un prolungamento del presente: questo sarebbe runico vero tempo, da assaporare lentamente, senza rimpianti e senza timori. Solo così, mi sembra, potrei confrontarmi con i giovani, e cogliere nel confronto una valida diversità del mio senso del tempo, invece di imitarli e di rincorrerli affannosamente, anzi potrei rivendicare la superiorità della mia consapevolezza, acquisita a poco a poco negli anni. Perchè quando si è giovani la tristezza non è che smarrimento di fronte a una realtà che non si riesce a capire, a una vita che non si riesce a vivere, e la gioia nient’altro che eccitazione nervosa.
 
Mi sento eguale a quella che ero venti o venticinque anni fa, è vero. Ma da un po’ di tempo il pensiero dei miei anni mi provoca sgomento. Sembrano tanti anche a me, sì, incredibilmente tanti. Ma soltanto perchè sono ’’passati”. Migliaia di giornate, di ore, il mio prezioso irrecuperabile tempo di vita, che si è perso come acqua, goccia a goccia, a mia insaputa, ed ecco si è ormai dimezzato. Metà della vita è passata, la mia esistenza si è ormai determinata, senza che lo volessi, senza che me ne rendessi conto. Che cosa si è fatto di me? Che cosa sono diventata, che cosa sono? Non riesco a rispondermi se non con quello che direbbero di me gli altri: ’’Una bella donna”, sì, direbbero questo, nient’altro. E anch’io non mi penso più così: ’’ancora una bella donna”. Eppure c’è stato un tempo in cui ero qualcos’altro, quasi mi vergogno a pronunciare la parola: sì, ero una fotografa. Tutti l’hanno dimenticato. Quanti anni sono passati? Era prima che mi sposassi: portavo sempre con me la macchina fotografica, e scattavo, scattavo; alla sera passavo dal laboratorio di Gianni e gli lasciavo le pellicole da sviluppare. Ero socia del Foto Club. Avevo venduto parecchie fotografie, alcune erano state pubblicate su una rivista, un effetto notturno aveva vinto un Premio nazionale; avrei dovuto fare una mostra personale, un giorno avevo scelto le immagini più riuscite insieme con Sandro, il presidente del Club: “Ancora qualcuna e la mostra è pronta”, aveva detto. Allora io ero questo, questi atti, questi progetti. Quando ho incominciato a non esserlo più? A poco a poco, dopo che mi fui sposata, mi lasciai invadere da altri pensieri, diedi la priorità ad altre cose che sembravano più urgenti: preparare il pranzo ogni giorno, scegliere il vestito adatto per ogni occasione, andare in visita dai genitori di Vincenzo, le innumerevoli cose di cui era fatta la convivenza con lui.
 
E arredare la nuova casa: quanto mi impegnai con tappezzerie e tende e lampadari e moquettes! E coltivare le relazioni con i superiori e i colleghi di lui: al mercoledì sera bisognava invitare il dottor Sevi, da cui dipendeva la sua promozione, e la domenica bisognava passarla con i Ventura nella loro scomoda casa di campagna.
 
La fotografia poteva aspettare, l’avrei ripresa in seguito — pensavo — con più tranquillità e sicurezza, quando avessi costruito quel solido edificio che era il mio matrimonio. Ma il desiderio di fotografare, il senso di essere capace di farlo, che allora, quando c’erano, avevo riposti come inopportuni, persuasa di poterli ritrovare intatti in ogni momento, svanirono a poco a poco, come un’essenza che svaporasse impercettibilmente: a un certo punto, ecco, quell’attività non era più mia. Vincenzo diceva, alludendo ad essa, ”il tuo hobby”, con benevola ironia. E anche a me sembrava sempre più frivola, una specie di infatuazione giovanile, da respingere al margine della vita ’’positiva”. Anzi quella insolita passione che mi trascinava nei posti più imprevedibili, alle ore più impensate, nelle condizioni di tempo peggiori, era vagamente sconveniente per quella signora ’’normale” che ero diventata. Non ne parlavo più, come se mi vergognassi. Finché rinunciare definitivamente mi sembrò realismo, saggezza, segno di maturità.
 
Se avessi continuato a fotografare, a pensarmi come una fotografa, a cercare in quell’attività il senso di essere viva, invece che nel preparare il pranzo, nell’arredare la casa, nelle relazioni sociali: ora i miei quarantaquattro anni sarebbero tutt’uno con le mie opere, le mie mostre, la mia ’’ricerca di stile”, la mia ’’evoluzione artistica” — mi ritornano alla mente le espressioni che usavo allora correntemente, ma mi sembrano strane, non sono più sicura di saperle usare bene — i miei anni non li ripudierei, no, anzi ne sarei orgogliosa, li ostenterei come una bandiera, cosi come ostenterei le mie opere, ciascuna con la sua data in calce ben leggibile. Anche il mutamento del mio corpo, che ora mi atterrisce, potrei accettarlo, quando giungesse, potrei perfino amare le mie rughe, i segni lasciati giorno dopo giorno dalle parole che sono state pronunciate dalla mia bocca, dai pensieri che hanno corrugato la mia fronte, dalle risate che hanno tirato le mie labbra, dalle lacrime che hanno gonfiato le mie palpebre: per non averli avrei dovuto, per tutti questi anni, non fare, non parlare, rimanere immobile, dormire, perchè la malattia che minaccia la mia bellezza non è altro che il vivere stesso. A un tratto è come se una luce livida si facesse dentro di me, e capisco: capisco che deprecando e ripudiando quei segni sul mio volto in realtà ripudio tutta la mia vita, la mia purchessia identità che è stata tessuta giorno per giorno dalle parole che ho pronuciato, dai miei pensieri, dalle mie risate, dai miei pianti. Negando i miei quarantaquattro anni ho negato me stessa e l’angoscia che provo è l’angoscia di questa negazione insopportabile. Un’altra paura cresce a ogni istante dentro di me, più forte di quella della vecchiaia: la paura di non sapere più chi sono, di non essere più nulla. Perchè il nulla è al fondo della strada che sto percorrendo, ben più orrendo del volto che ho visto ieri sera nello specchio del ristorante, e di qualsiasi mutamento fisico. Ho paura: ma questa paura mi libera come per incanto da altri timori, dalla confusione, dalla pigrizia, dall’abitudine. È una mattina di sole e la luce entra crudele e ostile nel mio appartamento. E mentre guardo una parete della stanza, abbagliante e provocatoria, mi sento in un punto decisivo della mia esistenza, tra il mio passato e il mio futuro, un punto in cui tutto, per un breve tempo, è tornato ad essere ancora possibile.
 
Dove sono finite le foto che avevo scelto per la mostra? Devono essere in una grossa scatola grigia, sull’ultimo ripiano del guardaroba che è nel corridoio. Prendo la scala, mi arrampico fin lassù. La scatola è lì, nell’ombra, infinitamente triste: in essa si sono rappresi, sono diventati tangibili tutti questi anni passati, tempo allo stato puro, che ora mi assale all’improvviso, straziandomi. La prendo, la porto sul tavolo, la apro con una strana trepidazione che mi fa tremare le mani. Ecco una siepe coperta di brina, irreale, candido merletto: gennaio 1960. Ecco una foglia di ninfea adagiata sull’acqua e imbrillantata dalla luce obliqua del tramonto: luglio 1959. Ecco uno scolo di rifiuti chimici dai grassi densi colori, come di magma originario: marzo 1961. Ecco l’autostrada di notte, scie di colori nel buio: settembre 1960. Queste immagini sono belle, molto belle, ma mi sono penosamente estranee: mi sembra incredibile di essere stata io a guardare, a scegliere, a scattare… Perchè non ho più fatto quella mostra? Come ho perduto quella parte di me che era capace di fare queste cose, come ho potuto addirittura dimenticarla? É possibile che io ritorni ad essere quella che, sì, sono stata, se non ci fossero queste opere a confermarmelo quasi ne dubiterei, tanto mi sembra di essere un’altra?
 
Apro un cassetto della scrivania: lì — ci ho pensato spesso, anche se non l’ho più aperto da tanto tempo — lì c’è la macchina fotografica. La prendo tra le mani, la Libero dalla custodia di pelle; l’accarezzo: nera, pesante, lucida, sembra un animale che dorma, che attenda pazientemente e possa svegliarsi da un momento all’altro, pieno di imprevedibili possibilità di vita. E all’improvviso provo per quella cosa un trasporto violento e disperato, come per una persona, una persona amata e perduta, senza la quale i giorni non hanno avuto mai più un incomparabile sapore, Mi interrogo e la interrogo, silenziosamente, se qualcosa è rimasto in me e in quella dell’antico amore, e le lacrime mi scorrono sul viso. Quando ero giovane la portavo sempre con me, dovunque andassi, per cogliere effetti momentanei e imprevisti, e proprio il fatto di averla coni me faceva sì che la mia attenzione fosse sempre vigile, e vedessi di più… Mi sentivo forte e sicura, come se quella cosa che mi pesava sulla spalla mi proteggesse, mi completasse, mi potenziasse, compagna o arma o talismano o protesi che fosse. Quando ero giovane… O forse ero giovane proprio perchè avevo quell’interesse, quella passione? Sì, lì dentro, in quella cosa nera è rimasta chiusa, imprigionata per un incantesimo maligno, la mia giovinezza, quella vera, fatta di entusiasmo e di speranza: quella che — ora lo so — può ritornare. La stringo tra le mani, l’avvicino al volto, come per un bacio o per una preghiera: ti porterò ancora con me, come allora, fa che tutto ritorni…
 
Sono uscita di casa, cammino per la strada. La macchina è appesa alla mia spalla sinistra: una sensazione nota, che richiama altre sensazioni, già provate, avvia i miei pensieri in una direzione che mi è stata consueta, mi dispone in un certo modo nuovo e antico di fronte alla realtà. Ecco, tutto ritorna come allora, lo avverto con emozione: intorno a me non ci sono più case, strade, gente, automobili, ciascuna cosa con la sua opaca povera funzione, no, ci sono aspetti innumerevoli, cangianti, meravigliosi, che attendono sornionamente di essere svelati e colti, attimi di bellezza che sono pronti a offrirsi a me, proprio a me, perchè li salvi dal divenire e dalla morte: solo io posso farlo, scoprendoli, interpretandoli, fissandoli per sempre sulla mia pellicola. E salvando questi attimi — penso confusamente — salvo insieme la mia vita, salvo me stessa. Quel peso sulla spalla mi dà un nuovo equilibrio, dà un centro al mio mondo, una forma al mio essere. E mentre cammino sento un insolito benessere. Perchè sono sparite l’ansia, la tristezza che mi opprimevano ancora poche ore fa? All’improvviso capisco: io non sono più quella che è guardata, valutata, apprezzata, ora sono io che guardo, scelgo, indico agli altri quello che devono guardare. Finalmente mi sono liberata dallo sguardo e dal giudizio degli altri, che ho subito e temuto per tanto tempo: ho dunque avuto bisogno di quest’occhio meccanico per riuscire a guardare di nuovo, per sottrarmi a quell’atroce condizione di oggetto in cui ero scivolata a poco a poco. Giovane, vecchia, bella, brutta: tutto questo ormai non mi riguarda più, non ha più senso riferito a me.
 
Mi guardo intorno con una nuova attenzione, con una nuova curiosità e mi vien fatto di pensare che sono ”a caccia” di immagini. Questo pensiero mi diverte: di solito sono gli uomini che si sentono ”a caccia”, anche se di altre prede, ma anche loro possono essere immagini, e quindi prede per me…
 
A mezzogiorno ho l’appuntamento con Andrea, come ogni giorno, ma per la prima volta non ho voglia di vederlo: ho tante cose da fare e l’idea della sua compagnia mi dà fastidio. Ma mi accorgo che per forza d’abitudine mi sto dirigendo verso il solito bar. Ed ecco Andrea apparire in fondo alla strada. Metto mano alla macchina, la preparo, la punto verso di lui. Ormai mi è vicino e alza una mano a spostare quella cosa che inaspettatamente è tra di noi: ’’Giulia, che cosa ti viene in mente? Metti via questa macchina…”, dice irritato. Ma incomincio a scattare, una, due, tre volte. Mi fa piacere vederlo imbarazzato. Noto per la prima volta la sua incipiente stempiatu- ra, il profilo volgare, la goffaggine dei suoi atteggiamenti: la mano alzata, la bocca aperta, gli occhi rotondi nello stupore. Punto l’obiettivo proprio su questi particolari. E intanto sento la mia voce dire allegramente: ’’Sai? Non è vero che ho trent’anni, no… Ti ho mentito, ti ho sempre mentito. Ne ho quattordici di più. Sì, quarantaquattro. Non dire che non è importante. E importante, invece. Tu non puoi capire. Sono orgogliosa di averne quarantaquattro. E tra noi due è finito tutto. Non voglio vederti più. Si, hai capito bene. Aspetta: un’altra foto, di tre quarti, oggi c’è una luce straordinaria, voglio finire la pellicola”.