LIBRI
la corda pazza di Iolanda
se la seduzione è finzione, luogo altro dell’identità, la poesia può essere seduzione? una raccolta in versi che consuma con il linguaggio una trasgressione violenta e viscerale
”Mi interesso al linguaggio perchè mi ferisce o mi seduce” scrive Barthes nel Piacere del testo.
Non saprei se le poesie di Iolanda Insana, che intraprende con il linguaggio un corpo a corpo simbiotico e violento, producano l’uno o l’altro effetto in chi attende alla lettura, e a quello specialissimo tipo di lettura che è la poesia. Se la seduzione è finzione, apparenza, luogo altro dell’identità, come vuole Baudrillard, direi che la poesia di Io- landa non seduce nè vuole sedurre. Semplicemente esiste, aprendosi un varco nella realtà, una ferita appunto, attraverso parole taglienti, fendenti fonici, come recita il titolo della raccolta.
Titolo che del poeta offre un ritratto immediato e pregnante. Chi legge sa già subito di dover fare i conti con parole che marchiano, improvvise e sibi’ lanti come un attacco notturno a suon di spade da gran melò popolare dell’Ottocento. L’aggettivo popolare non sembri improprio per queste poesie, anche se ne va chiarito il senso, essendo Iolanda Insana poeta sapiente e colto, di formazione classica come rivelano le sue originali traduzioni di frammenti di Saffo, già pubblicate (Poesia tre, Guanda, 1981) e quelle da Marziale alle quali attualmente sta lavorando, a una popolarità folklorica da opera dei pupi può far pensare l’uso di alcune parole apparentemente vacue, quasi scioglilingua; ma altri suoni che riproducono la violenza e l’effetto di un pugno allo stomaco si iscrivono piuttosto nell’alchimia verbale blasfema delle avanguardie. Qui però il gioco al massacro della parola – e del poeta – che collude a ogni passo con la morte, si traduce in esaltazione mistica, trionfo dell’astratto sul concreto, dell’intelletto sul corpo. Il corpo è scoria, frammento bruciante e bruciato, corpo simbolico non reale Nella poesia di Iolanda frammentario è il ritmo, volutamente frammentario il respiro – lo spazio e il tempo di un’invettiva, di una bestemmia densa come un epigramma – ma il corpo è totale, invadente, esplosivo, esprime con la parola e nella parola sapori, umori, odori, suoni concreti.
Questa poesia sembra la mimesi di un evento naturale: ne ha la forza, l’im- prevedibilità, la repentinità. Siamo di fronte a un esempio di popolarità classica, nell’accezione che al termine classico attribuiva un fine osservatore del mondo antico e un acuto critico del romanticismo folklorico a lui contemporaneo, come il Leopardi.
Classicità come punto di equilibrio, di coincidenza tra natura intesa come energia primigenia e cultura ossia linguaggio che del primigenio è specchio riflettente e riflesso.
Di questo equilibrio le poesie di Iolanda hanno la magia, una sorta di incanto di fondo; ma le operazioni semantiche che lei induce al testo sono poi più raffinate e complesse.
La frammentarietà dei componimenti, riprodotta anche graficamente sulla pagina, può far pensare certo ai resti, ai cocci aguzzi di un poema antico dissepolto, secondo una felice metafora che Giovanni Raboni ha usato nel pre- seritare il volume a Roma qualche settimana fa. Ma l’impianto stilistico di ogni verso è frutto di sapienti distillazioni, di ruvidi accorpamenti, di pastiches lessicali nei quali entrano i poeti macheronici e le filastrocche popolari, gli antichi canti di battaglia e di convivio e gli epigrammi di odio-amore.
Circolano nei frammenti poetici di Io- landa una corporeità e una vitalità assolute e metastoriche.
All’intelligenza e alla sapienza della parola il compito di svelare gli inganni e di tradurre tanto brulicare in un gioco insensato. Che il sarcasmo distanziente del riso rende angosciosamente attuale. E disperato. Iolanda Insana modula la sua ’’corda pazza” – quella che Sciascia riconosce nei siciliani d’ingegno – con gli accenti di un giullare degli anni ottanta: dalla sua soffitta-osservatorio di via del Babui- no lancia segnali a chi può, nel frastuono, raccoglierli.
Iolanda Insana, Fendenti fonici, Società di poesia, Milano 1982 L. 7.000.