paga dimezzata fatica raddoppiata

In Italia le donne che lavorano sono 4,4 milioni (su un totale dì più di 18 milioni di lavoratori). La percentuale dell’occupazione femminile (17,7%) è tra le più basse dei paesi industrializzati ed inoltre registra una costante diminuzione: negli ultimi anni sono state espulse dal mercato del lavoro più di un milione e 200mila donne. Le flessioni più drastiche riguardano l’agricoltura, ma anche nell’industria si è avuto un notevole calo. Nel contempo si è andato consolidando un processo di ‘ terziarizzazione ‘: circa 2 milioni e 300mila donne (pari al 46% delle lavoratrici) sono occupate nei servizi e nelle attività collaterali. Infine l’80% dei lavoratori a domicilio, che come è noto superano il milione e mezzo, è rappresentato da donne.

gennaio 1974

Si riparla di part-time per le donne. Nel 69 fu Pirelli a proporlo e la risposta dei sindacati, dell’Udì, dei movimenti femminili più avanzati fu “no”. Motivi dell’opposizione: il tempo parziale significava dequalificazione del già dequalificato lavoro femminile e rimandava sine die la creazione dei servizi sociali. Il dibattito fu breve: che il part time fosse un inganno, una mistificazione nella logica del profitto pareva un’acquisizione ovvia. Eppure in sordina, con un lento ma tenace stillicidio, il metà-tempo è dilagato in questi anni, specialmente nel settore terziario, fino a comprendere attualmente circa il 5% della forza lavoro femminile. Moltissimi grandi magazzini, ad esempio, l’hanno incluso nei loro programmi di ristrutturazione senza che quasi ce ne accorgessimo. Oggi la FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) ha riportato alla ribalta il problema dichiarandosi disponibile ad un part-time anche nell’industria per “studenti, invalidi e donne”.

 

Non si vuole certo accusare i sindacati di avanzare questa proposta secondo la logica del padrone: quella che per Pirelli era una razionalizzazione dello sfruttamento, travestita da umanitarismo, è per i sindacati un tentativo di arginare il lavoro a domicilio e di combattere il calo della forza lavoro utilizzata, specialmente in alcune zone del Nord.

Anche se abbiamo i nostri dubbi sulla validità di questa specifica strategia sindacale (quando mai il part-time ha arginato il lavoro a domicilio?) non è questo il solo punto che ci lascia perplesse. Quello che stupisce è che il tempo parziale venga proposto per tre categorie (studenti, invalidi e donne), da cui risulta che la donna viene considerata ancora una volta, come un essere umano non in grado di partecipare pienamente allo sviluppo della società. Chi si sognerebbe mai di proporre il metà tempo come soluzione alternativa al calo della forza lavoro maschile? La cosa non sarebbe considerata seria. Per le donne, invece, rientra nell’ordine ‘ naturale ‘ delle cose, è un’ipotesi che il ‘ buon senso ‘ comune ci fa accettare senza pensarci su due volte. Il fatto è che l’ipotesi della FLM rientra in una concezione prefissata della donna secondo la quale essa è moglie e madre prima che lavoratrice: la cura della casa e dei figli costituiscono il lavoro ‘ naturale ‘ della donna, mentre quello extra-domestico rimane un fatto accessorio e comunque revocabile. La donna non è mai ‘ disoccupata ‘: perso il lavoro esterno, ridiventa casalinga.

È un’ideologia da cui pochi sono immuni (quindi non si pretende che i sindacati di sinistra rientrino in questo sparuto manipolo a cui pure appartenevano Lenin ed Engels). Come necessario corollario di premesse del genere, risulta per la lavoratrice la necessità di ‘ conciliare ‘ l’attività esterna con quella ‘ naturale ‘, quasi fosse una seconda pelle, del lavoro domestico. Nasce cioè la realtà del doppio lavoro per 4,4 milioni di donne. Il tempo parziale non è quindi che la razionalizzazione estrema di questo doppio ruolo femminile, la consacrazione della ‘ donna a senso unico ‘, madre-moglie-casalinga soprattutto e innanzitutto. Al capitalismo la donna serve magnificamente a metà tempo sul lavoro e a metà in casa. Sul lavoro produce comunque e anzi meglio (questo è un dato verificabile poiché ovviamente l’efficienza è maggiore nelle prime quattro ore). A casa poi fornisce una mole enorme di servizi gratuiti che altrimenti dovrebbero essere creati e pagati dal sistema stesso.

Ma — si ribatte comunemente — sono le donne stesse a volere il tempo parziale, è una loro ‘ libera scelta ‘. Questa posizione non tiene conto del fatto che la prima vittima dell’ideologia sociale della donna è la donna stessa. Osserva Juliet Mitchell ne “La condizione della donna” che essa è educata “a considerarsi in primo luogo moglie e madre cosicché anche quando si trova a dover lavorare fuori casa, è sempre questa sua identificazione con la famiglia che determina il suo rapporto con il lavoro”. Il vero volto del part-time è chiaramente paternalistico: ti “permette” di lavorare e ti “permette” di essere ‘ donna ‘ (naturalmente nel senso obbligato di moglie-madre-casalinga), ti assicura uno stipendio (non importa se a metà, perché c’è il capofamiglia) ti dà la pensione (a metà, ma comunque la donna è sempre a carico di qualcun’altro) ti dà l’assistenza (anche questa parziale, un dente sì e uno no).

Pretendendo di garantire tutti i diritti, in realtà li vanifica tutti: non è che una delle false libertà di cui il capitalismo ci ha costantemente gratificate (vedi la ‘ cosiddetta ‘ emancipazione sessuale). Questa donna ‘ a metà tempo ‘ rimarrà sempre un ‘ mezzo cittadino ‘, un essere umano incompleto. E naturalmente darà un fastidio limitato, combatterà con meno forza per ottenere i servizi sociali. La famosa mezza giornata libera si sbriciola infatti tra le mille incombenze quotidiane (portare i figli a scuola, fare la spesa, correre a pagare le bollette, fare la fila alla mutua). Che bisogno c’è dei servizi sociali quando ogni donna è un servizio sociale ambulante A TEMPO PIENO?

La tanto conclamata libera scelta delle donne è in effetti un vicolo cieco, un percorso obbligato. Certamente, date le condizioni in cui si trova la donna, ci vuole molto coraggio per dire no al part-time: a prima vista è talmente allettante che raramente ci si rende conto, a meno di non avere una precisa coscienza politica, del fatto che è una trappola. Non soltanto lo è sul piano del lavoro, ma rallenta anche la presa di coscienza della donna: se essa lavora a tempo pieno, infatti, le contraddizioni prima o poi scoppiano. Non solo, ma le donne si rendono conto che occorre lottare insieme per uscire dal loro ghetto. Ed è proprio questo che si teme: l’esplosione della rabbia femminile, quella che ha spinto le donne a lottare per i servizi, per gli asili nido in fabbrica, per l’assistenza al parto. È quella che ha fatto prendere coscienza a molte della verità di quanto scriverà Lenin: “Voi tutte sapete che anche quando esiste una piena uguaglianza di diritti, questa oppressione della donna continua in effetti a sussistere, perché sulla donna cade tutto il peso del lavoro domestico che, nella maggior parte dei casi è il meno produttivo, il più pesante, il più barbaro… che non può, neanche, in minima parte, contribuire allo sviluppo della donna”. “La vera emancipazione… continua Lenin… incomincerà soltanto allora, dove e quando incomincerà la lotta delle masse contro i piccoli lavori dell’economia domestica o meglio dove incomincerà la trasformazione in massa di questa economia nella grande economia socialista”. Occorre quindi socializzare quelli che sono ritenuti i compiti ‘ naturali ‘ e quotidiani delle donne. Una scuola a tempo pieno ben fatta, un asilo nido che non si riduca a un deposito di bambini, una mensa ben organizzata: tutte queste cose apparentemente trascurabili (la cui somma rappresenta tuttavia la schiavitù della donna) costituirebbero una premessa reale per la liberazione dai ruoli ‘ maschile ‘ e ‘ femminile ‘, non solo per pochi privilegiati, ma per la stragrande maggioranza. Dietro al discorso dei servizi sociali c’è quindi quello molto più cruciale di un nuovo modo di concepire la famiglia (che è poi un nuovo modo di concepire i rapporti sociali).

È questa prospettiva, già lontana e difficile da raggiungere, che il part-time contribuisce ad allontanare ancora di più; è in questa funzione di ‘ detonatore ‘ della rabbia femminile, della presa di coscienza delle donne che sta il vizio profondo di una proposta apparentemente liberatoria. Da qualche parte si sostiene che il tempo parziale rappresenta comunque un’opportunità, per le donne che altrimenti non ne avrebbero, alcuna, di inserirsi nel mondo del lavoro e fare così un passo avanti verso l’acquisizione di una coscienza sociale. Questo potrebbe essere vero, almeno in parte, se la proposta si collocasse in un momento di espansione della forza lavoro. Invece viene avanzata in un momento di crisi economica profonda, per cui è ingenuo credere che possa realmente rappresentare una ‘ aggiunta ‘ alla forza di lavoro esistente, un modo di ‘ uscire di casa ‘ per un numero maggiore di donne. La realtà insegna che il part-time è riduttivo: in nessuna delle fabbriche e delle aziende in cui è stato introdotto si sono fatte assunzioni per colmare i vuoti aperti da esso. Si sono semplicemente sfruttate di più le lavoratrici rimaste. In queste condizioni concrete, in cui si profila difficile persino la difesa pura e semplice degli attuali livelli di occupazione, ci pare impossibile sostenere il part-time come obiettivo positivo: assomiglia purtroppo tanto all’anticamera della disoccupazione femminile.