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alexandra kollontai

gennaio 1974

In una nota polemica sulla concezione della storia, Lévi-Strauss accusa Sartre di avere una visione mitica del processo storico, di non capire che esso, oltre a esprimere la linea di tendenza dominante, cela anche al suo interno una serie di atti mancati che soli, una volta conosciuti, permettono di capire davvero il momento storico nella sua completezza. Insomma Lévi-Strauss accusa Sartre di concepire il reale come una socializzazione del “Cogito ergo sum” cartesiano. Certamente questo è vero per chi si accosta alla rivoluzione russa e ai grandi personaggi “mitici” che l’hanno vissuta: ognuno proietta le sue ansie, le sue illusioni, le sue rabbie, le sue delusioni, ognuno cerca archetipi.

Alexandra Kollontai non è l’eroina archetipo di un paese archetipo: è una donna reale e contraddittoria che vive in un paese che conosce fame, guerra, accerchiamento militare, tensioni faticose nel tentativo di costruire una società socialista malgrado l’arretratezza delle condizioni oggettive. La Kollontai femminista e la Kollontai bolscevica e militante sono due realtà strettamente correlate e, nel profondo, l’“animus” che informa la Kollontai nelle sue polemiche all’interno del partito bolscevico è identico a quello del suo impegno femminista: potremmo riassumerlo nel termine di “democraticismo”, con tutte le connotazioni positive e negative che tale termine acquista nella storia della Russia di quegli anni.

Scrive nella sua autobiografia: “(I bolscevichi) non mi sembravano dare abbastanza valore allo sviluppo del movimento operaio, né alla sua ampiezza, né alla sua profondità”. Eppure la Kollontai diventerà bolscevica convinta alla vigilia della guerra e non potrà che abbracciare rinternazionalisrno e provare disgusto per l’ottica controrivoluzionaria dei social-patrioti: “Il fatto che di partito socialista tedesco fosse venuto meno all’impegno anti-militarista mi apparve allora una calamità tanto grande quanto la guerra stessa”.

Ma pur nell’impegno diretto all’interno del partito come Ministro dell’Assistenza pubblica, il suo vecchio spirito democraticista, il suo terrore del “sostitutismo”, le impediscono di essere fino in fondo interna all’ortodossia del partito. Ma di nuovo occorre appellarsi alla complessità delle dinamiche politiche della Russia post-rivoluzionaria, occorre superare i miti irrazionali e capire che, pur nella durezza delle polemiche, Lenin e Trotzkij non furono mai per la Kollontai ciò che Stalin fu per Trotzkij: fu una lotta che rimase nell’ambito del conflitto tra linee politiche, che non cadde né nella diffamazione né nella persecuzione. Il filo rosso che lega l’attività della Kollontai come leader dell’opposizione operaia al suo femminismo è la medesima appassionata attenzione alla “creatività” delle masse; occorre far parlare e far decidere coloro che hanno sempre taciuto, e così l’istanza democraticista, magari idealista e astorica, ma profondamente vissuta, trova il suo naturale nesso con l’esigenza di restituire identità sociale alla donna. L’ambiente politico in cui la Kollontai opera è ricco di mille fermenti libertari: le donne per la prima volta accoppiano alla libertà nella vita pubblica (possibilità di lavoro, parità di salari) la fruizione di reali diritti civili nella vita privata (divorzio, parità fra figli legittimi e illegittimi, aborto). Si progettano febbrilmente servizi sociali sostitutivi del lavoro domestico, si sperimenta una nuova educazione dell’infanzia (è in quegli anni l’asilo psicanalitico di Mosca di Vera Schmidt). L’ambiente è propizio per la fondazione di una “nuova morale” e la Kollontai scrive: “Al posto della famiglia individuale ed egoista, sorgerà una grande famiglia universale dei lavoratori, in cui tutti i lavoratori, uomini e donne, saranno soprattutto compagni. Questo nuovo rapporto assicurerà a tutta l’umanità tutte le gioie del cosiddetto libero amore, nobilitato dalla reale parità sociale (…), gioie che sono sconosciute nella società di scambio del regime capitalista”. Ma chi è la Kollontai che nel 1926 scrive la propria autobiografia? È una donna ormai mortificata: emarginata come leader politico, come teorica della critica all’istituto familiare, persi i contatti con i compagni più cari, è costretta dall’autocensura a mutilare di suo scritto. Eppure, proprio nel travaglio della doppia stesura, nell’angoscia degli accenni fatti velatamente, in cud si intravede tutta una storia di lotte, sta il fascino di questo libro. La storia della sua formazione come militante politica è anche la storia della sua lotta contro la tirannia dell’amore. Tra la cosiddetta realizzazione come donna e la realizzazione come persona, la Kollontai non ha dubbi e sceglie coraggiosamente e senza rimpianti la seconda, ma nello stesso tempo vive come dramma esistenziale e sociale questa alternativa, dell’impossibilità cioè di ricomporre pubblico e privato, amore e lavoro, sentimenti e ragione in un rapporto che salvi della donna, come dell’uomo, tutti i bisogni. È già incombente lo spettro della grande sessuofobia degli anni ’33-35, quando lo stalinismo glorificherà la madre prolifica e la sposa fedele del soldato. Di fronte a quello spettro non c’è altra via se non quella della volontaristica esaltazione: dell’impegno pubblico, salvo restando il messaggio alle donne delle generazioni future perché siano esse a ricomporre la scissione, a completare la rifondazione della persona donna.

A. Kollontai: Autobiografia di una donna sessualmente emancipata, Palazzi 1973. Prefazione di Virginia Visani. In vendita alla Maddalena-libri, Via della Stelletta 18, Roma, (Tel. 6569424).