cinema

al di là della critica e del metodo

come la stampa illuminata e i critici illustri distruggono la possibilità di capire e discutere un film a partire dal film e non dalle loro «idee» sulle donne che fanno cinema.

dicembre 1977

ciò che più ci colpisce è l’impossibilità di autonomia di un prodotto filmico, tanto più se dietro la macchina da presa c’è una donna, invece del classico uomo.
Ispirati dal desiderio di donare a una massa di spettatori un’analisi corretta, i «critici rigorosi» si sono presi l’impegno di scrivere fiumi d’inchiostro su un film, non a caso di stampo femminile, e ne hanno scritto talmente tanto da rendere più importante il loro punto di vista sul film che il film stesso.
Ciò che qui ci interessa non è tanto il contenuto del film di Liliana, bensì l’uso della critica come depauperazione dei contenuti del prodotto effettivo.
Il metalinguaggio dei «critici rigorosi» è strutturato in modo tale da rendere nullo il linguaggio originario, imponendo allo spettatore una chiave di lettura totalmente parziale. Il film perde la propria autonomia, vi si sostituisce la carta stampata, un’antologia di «critiche scelte» fatta da «critici illustri».
Ci si aggiungano la censura, i sequestri e i tagli; si immaginava Liliana Cavani di riuscire con un solo film di dar tanto lavoro a critici e burocrati? Il film, dunque, si è perso, la carta stampata, invece, è fin troppo abbondante.
È sulla carta stampata e non sul film, che abbiamo deciso di riflettere: indipendentemente dal prodotto della Cavani ci siamo poste il problema di come i «critici rigorosi» hanno voluto parlare di un film fatto da una donna. Che il film sia femminista o no qui poco ci preme.
È indubbiamente un «prodotto femminile», rappresenta, cioè un’eccezione in un mondo in cui ad essere produttivo è solo il maschio. Liliana Cavani è un personaggio singolare, ha già fatto molti film, si può dire che ci ha preso il vizio, poi tecnicamente è brava, ha proprio imparato il suo mestiere. Insomma, non è la donna ghettizzata, bensì una degna rivale dei vari Bertolucci e Fellini.
Non consideriamo il personaggio Cavani dal punto di vista.femminista, almeno non in questa sede, ma mettiamoci per un attimo nell’ottica maschile, cerchiamo di immaginare quanta paura si prende il signor critico davanti ad una donna «brava». Forse è il simbolo di un futuro incerto? Forse la donna è realmente capace di apprendere e… produrre? Il nodo del problema è questo: la produttività femminile entra in competizione con quella maschile, il raggio di competitività si è allargato, la donna produce, si impone in quell’area di mercato che ha sempre funzionato proprio perché la donna ne era esclusa. Forse le cose cambiano veramente, il mercato del lavoro, la produzione intellettuale deve adesso fare i conti con un soggetto in più: la donna, soggetto — questa volta — consapevole di sé e dei mezzi che usa, produttiva, non solo di merce materiale, ma anche di una estrema forza e un’estrema fiducia che, signori critici, potrebbe proprio rivoluzionare qualcosa.
L’unica cosa da fare per mantenere inalterato l’equilibrio della sfera produttiva, è eliminare la nuova rivale con un uso sottile e ben programmato della comunicazione di massa. Prima che il film venga distribuito in tutta Italia, prima che il film possa piacere a qualcuno, bisogna svuotarlo di contenuti, renderlo inesistente, esorcizzare il pericolo che altre donne prendano il coraggio ed imparino ad usare la macchina da presa. Spudoratamente il metalinguaggio dei «critici rigorosi» ha messo da parte gli strumenti sacrosanti dell’analisi cinematografica e si è abbandonato alle più bieche associazioni mentali riferite al termine «donna che lavora».
bei trattati sulla scienza cinematografica, sempre presenti ai «critici rigorosi», cadono qui in disuso: il film della Cavani non è realizzato come tutti gli altri, tecnica cinematografica e contenuto non sono qui in rapporto, Liliana è solo una serva che guarda dal buco della serratura; di come abbia svolto le riprese, della sua capacità di trasformare in immagini la propria visione della realtà, neanche una parola.
film è criticato alla luce di una grezza quotidianità, come sempre si usa fare di un prodotto femminile, come se per le donne sia fatica sprecata far uso dell’astrazione.
Con l’uomo sì che vale la pena di astrarre dal mero reale, l’uomo è di per sé astrazione sublime, qualunque cosa tocca è poesia, che sia il «Novecento» di Bertolucci o la cocca di una qualunque Emanuelle negretta, l’uomo, per definizione, astrae!
Ecco ciò che sta a monte dell’operazione fatta dai «critici rigorosi» sul film della Cavani: rendere vuoto, effimero, ogni prodotto femminile, tagliarlo fuori da una possibile area produttiva, scongiurare la competizione. La donna è perdente perché è quotidiana, è serva, è casalinga. Se è in più qualcos’altro, per esempio regista, questo non conta, è fittizio, rispetto a ciò che la donna è sempre stata. Liliana è una, guai se diventa due, tre, quattro, cento, mille e per evitarlo si fa sì che nessuno veda il film, ma che tutti leggano ciò che i critici rigorosi ne pensano. Loro sono dalla parte della verità: Liliana è una casalinga cinematografica!

Soggetto per un film: un trio di giornalisti legati da rapporti ambigui.
Loro sodalizio sulle pagine dell’Espresso.

Alcuni «filosofi di redazione» nostrani si sono dati ad esercizi letterari di genere indefinibile sull’Espressso. Ad esempio, come considerare l’esibizione di Saltini? Abbiamo cercato nel suo articolo un segno qualunque di criterio metodologico, rintracciando solo la sua preoccupazione di aver visto Nietzsche in mutande. Ad ognuno la sua specializzazione. Si tenga quindi le sue mutande, noi ci teniamo i nostri cervelli. Questo signore dà poi della serva alla Cavani, accusandola di non aver saputo vedere oltre il buco della serratura: abbiamo invece il sospetto che abbia assistito, lui, al film della Cavani piegato dietro a quel buco. Fermo restando il fatto che non accettiamo di abbinare la condizione sociale di cameriere al valore «ottusità», più adatto alla categoria dei pennivendoli. D’altra parte, tutto teso a salvare il pudore virginale del «vero» Nietzsche e della «vera» Salomé, è chiaro come non abbia potuto intravedere altri orizzonti critici. Possiamo però renderlo edotto del fatto che i significati di un fatto storico variano da cultura a cultura, e nella fattispecie dalla sua alla nostra.
Ma su questo critico in mutande ci siamo intrattenute fin troppo. Il sottotitolo ci avverte che ora entra in azione l’«esperto in dissolutezze», tale Marmori. Senza avvertimento, avremmo scambiato il suo «spettacolo di nudità sospeso in un nulla emotivo». per un’impennata poetica di un dirigente compilatore di bollettini cinematografici parrocchiali. Tale raffronto stilistico ha tutte le possibilità di essere verificato sul campo.
Alla fine abbiamo scorso con Lou Salomé la volenterosa composizione di Guarini, che ha immaginato se stesso (sic) al cinema con Nietzsche. Lou ha fatto quest’unico commento:
«Quando Savelii disse con tono scherzoso: “Siamo noi a dover chiedere scusa alle more e non viceversa per averle calpestate, anziché baciate”… qualcosa in me proseguì: “È così, la cosa più terribile del mondo sta proprio in questo equivoco”».
Poi, abbiamo parlato d’altro, certe che le «virtù virili» di cui Guarini parla perderanno la loro connotazione semiologica positiva proporzionalmente al persistere dei loro cultori.
Possiamo considerare questi casi limite (altri si sono espressi, ma sempre in modo meno rozzo) come aventi funzione di anticorpi del tessuto culturale maschile che esorcizza il pericolo di una cultura di altre, anche se non sempre «altra».
All’interno di un sistema produttivistico come è attualmente quello culturale i rapporti di forza maschio-femmina stanno cambiando.
La probabile immissione di forze femminili in tutti i settori crea una competizione reale, e principalmente economica, tra le due forze.
Logicamente, la forza finora dominante si difende come può: con gli insulti, come col silenzio sui problemi delle donne. Il produttore di Kultura difende innanzitutto il proprio terreno.
È interessante notare come l’attacco alla Cavani (rapporto giornalista uomo-regista donna) trascenda ogni logica, mentre relativamente più morbida, quasi una chiamata all’ordine di casta, risulti la successiva risposta del trio dell’Espresso a Lietta Tornabuoni, che ha rilevato «volgarità, moralismo retrivo, razzismo sessista e classista» nel loro precedente articolo (rapporto giornalista uomo-giornalista donna).
In questo caso la risposta del trio si muove su due piani di lettura: non modifica lo stile dell’attacco alla Cavani, ma invita paternalisticamente la Tornabuoni a rivedere la propria solidarietà, pena l’anatema professionale. La solidarietà diventa «solidarismo»: come si chiama allora il sodalizio del trio? Mafia?
Che leit-motiv viene usato in questa operazione?
Eccone schematizzato il processo associativo:
«Cara Lietta, noi non diciamo che la Cavani faccia “male” cultura perché donna — noi ammettiamo perfino che le donne siano pari agli uomini — quindi critichiamo la Cavani come un Autore perché siamo imparziali — e sentenziamo che fa male cultura». Il ragionamento potrebbe anche filare se gli scriventi possedessero gli strumenti critici di cui si diceva prima e potessero garantircene l’applicazione indiscriminata.
In realtà i loro processi logici si fondano non su presupposti rigorosi, ma su banali associazioni avallate dall’uso quotidiano da loro stessi regolato. Ossia, con le medesime motivazioni, è in loro potere esaltare il film di un maschio ed esorcizzare-denigrare quello di una donna.
Così se la Cavani mostra una coppia di ballerini saccheggia Russel, se ha senso coreografico è Bertolucci, se riprende una gondola imita Visconti. Non vorremmo, noi, imitare il trio Espresso solo perché usiamo fonemi facenti parte di un alfabeto (il paragone tra linguaggio e lingua è qui solo analogico). E: come mai la ripetitività dei ruoli femminili nei film, nonché dell’oggetto tetta-culo, non provoca uguale alzata di scudi in favore dell’originalità che decisamente manca a tanti registi quotati bene sulla scala commerciale vigente, e che si ripetono disastrosamente da anni? Recuperare e recidere: ecco l’occupazione fondamentale del trio che senza dubbio rispecchia direttive premeditate. Un’operazione metalinguistica troppo manifesta, ormai decodificata.