creatività

la rivolta delle muse

«creare dei momenti di coinvolgimento collettivo e di produzione collettiva di prodotti estetici, poetici, culturali, elaborare dei messaggi di significato diverso, vorrà dire raggiungere una possibilità di espressione al di fuori dei condizionamenti e degli schemi consueti».

dicembre 1977

nel dibattito tenutosi a Napoli in occasione del convegno donna-lavoro, mi è sembrato giusto portare il contributo specifico della mia esperienza di donna che opera nel campo delle arti visive. Vorrei innanzitutto riportare il concetto di creatività — termine ormai obsoleto — al suo significato più profondo, quello di immaginazione fertile, che produce, — opposto, quindi, alla sterile fantasticheria — e che parte dalla realtà per concludersi nella realtà, ma dopo averla trasformata. La persona creativa non esaurisce la sua capacità nella produzione di un oggetto artistico, ma di essa investe tutta la sua vita e le sue espressioni, i modi di essere e di pensare. La persona creativa è allo stesso tempo sensibile e indipendente: sensibile, perché recepisce gli stimoli esterni accorgendosi di aspetti della realtà che passano inosservati, e trasformandoli all’interno della sua coscienza in linguaggi poetici da comunicare poi all’esterno; e indipendente, perché totalmente decondizionato da formule convenzionali che ne soffocherebbero l’energia e la spontaneità.
A proposito di lavoro, il nostro che è lavoro creativo, si propone di superare la rigida distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, che la società fa passare soprattutto attraverso la scuola, privilegiando il primo rispetto al secondo, differenziando poi nettamente le fasi di produzione. Da ciò deriva che l’elaborazione teorica, la progettazione e l’esecuzione materiale del prodotto sono fasi distinte fra loro, e diviso allo stesso modo è il lavoro di chi opera in questi tre diversi momenti. La tendenza a distinguere nettamente i campi operativi, a chiudersi in compartimenti stagni è tipica della cultura maschile: a un mondo tradizionalmente diviso in settori e specializzazioni, si oppone la capacità della donna di intervenire globalmente, superando la schizofrenia tra concetto e gesto, e recuperando l’interezza, l’essenzialità, l’immediatezza nei suoi modi di esprimersi e di comunicare. Il lavoro creativo, che si attua attraverso l’intervento estetico e la produzione di immagini, suoni, messaggi poetici-culturali-politici riunifica il momento dell’elaborazione teorica e quello della produzione materiale; per trasmettere i nuovi contenuti, il nostro lavoro si servirà di strumenti nuovi; attraverso un primo momento di messa in discussione delle immagini convenzionali e delle tecniche tradizionali, passeremo alla ricerca di un linguaggio, di una scrittura «nostri», di una visione del mondo e di una cultura di immagini e di segni delle donne; con la riscoperta e l’approfondimento del mito, dei riti popolari e arcaici, delle antiche leggende, delle fiabe e delle nenie trasmesse oralmente, seguiremo una linea ideale tracciata dall’eredità dei patrimoni culturali subalterni ed emarginati, tradizionalmente vista come folklore, e in cui noi invece riconosciamo l’autonomia linguistica e la forza d’opposizione al livellamento operato dalla cultura dominante borghese e, più specificamente, patriarcale. Inoltre, lavorando con materiali poveri, carta, legno, stoffa, lustrini, foglie, fiori etc. contesteremo i prodotti industriali già confezionati, i materiali sintetici e il design di serie, e recupereremo le tecniche artigiane per rappresentare dei contenuti attraverso immagini e azioni coinvolgendo il pubblico che diventa cooperatore, e superiamo così il limite tradizionale operatore-fruitore; sia nel momento della discussione che in quello dell’animazione, ovvero dell’«evento» artistico, il pubblico delle donne a cui ci rivolgiamo, diventando protagonista, porterà fuori i propri contenuti, cioè la propria storia e la propria situazione. Creare dei momenti di coinvolgimento collettivo e di produzione collettiva di prodotti estetici, poetici, culturali, elaborare dei messaggi di significato diverso vorrà dire raggiungere una possibilità di espressione al di fuori dei condizionamenti e degli schemi consueti. «Creare» sarà allora «esprimere» e «rappresentare», cioè «tirar fuori» e «trasmettere per immagini» i nostri messaggi in un sistema circolare di comunicazione, che dà e riceve e si arricchisce progressivamente.
Per quanto riguarda il problema della «creazione artistica», rifiutiamo questo concetto tipicamente maschile, in quanto è messo in contraddizione con la capacità di «creazione biologica» della donna attraverso la maternità. Incapace di procreare, l’uomo ha attribuito a sé, la facoltà di «concepire» opere d’arte e sistemi di pensiero, producendo oggetti, messaggi, linguaggi attraverso cui consolidava o metteva in crisi la cultura e la visione del mondo della classe dominante. La donna era in ogni caso esclusa da questa operazione, relegata al massimo al ruolo di «ispiratrice» e musa di poeti e pittori, in una visione lontanissima dalla realtà. Al suo, era contrapposto il ruolo dell’«artista» al di sopra o al di fuori di tutti, che «crea» opere che vengono poi consacrate in tempi come gallerie, musei, accademie. Dietro tutto ciò, c’è un sistema di ferree leggi di mercato capitalistico, quotazioni e graduatorie di valore: e la figura del critico ha una funzione determinante; attraverso un appropriato uso del linguaggio e della scrittura avvalendosi di termini specialistici e di un gergo da .«addetti ai lavori» si attribuisce la capacità di individuare le personalità artistiche, appoggia la formazione di movimenti e avanguardie, accentuando, il divario tra avanguardia e domanda culturale di base, ribadendo così il mito dell’«incomprensibilità» dei linguaggi nuovi rispetto alla massa dei fruitori: e ciò è necessario per la formazione di élites composte da critici, «artisti», galleristi e collezionisti.
I circuiti ufficiali operano inoltre una doppia emarginazione nei riguardi della donna operatrice visiva: la prima in quanto donna col suo patrimonio di linguaggio diverso, di immagini e insomma di cultura tradizionalmente «negata»; l’altra in quanto «artista» come vorrebbero che fossimo, cioè col cliché del personaggio scomodo e bohémien che sta al di fuori della società e vive d’ispirazione. Nei casi in cui la donna è «inserita» nel campo delle arti visive ha funzioni di contorno, ad esempio nel cinema, nel teatro, o alla TV, sarà assistente scenografa oppure costumista (è un lavoro che somiglia a quello della sarta, quindi prettamente femminile) o truccatrice, trovarobe, etc. Nella grafica, nel design, nell’architettura non c’è quasi spazio per le donne e lo stesso si può dire per l’insegnamento nelle accademie di belle arti o negli istituti d’arte.
Le strutture istituzionali cioè enti locali o statali, scuole, sindacati, le diverse forme di associazionismo di base, partiti politici, etc. non fanno nulla per superare questa massiccia discriminazione: e la politica culturale attuale col suo ottuso immobilismo rimane chiusa alle tendenze nuove, e ha al massimo un’atteggiamento paternalistico nel dedicare qualche rassegna d’arte alla donna, sollecitando squallidi dibattiti. Eppure noi donne, nell’incessante ricerca che stiamo conducendo all’interno della nostra cultura ritrovata, abbiamo sviluppato delle possibilità espressive straordinarie e di segno assolutamente nuovo, nel senso di una rottura decisa con l’universo urbano, con la standardizzazione e la commercializzazione, con la società altamente tecnicizzata che soffoca la libertà e la spontaneità dell’evento poetico e artistico.