televisione

come tradire l’autrice

lo sceneggiato televisivo «Una donna» tratto dal libro dì Sibilla Aleramo stravolge, falsifica e deforma la figura dell’autrice e la sua testimonianza sulla «morte della famiglia» fatta già nel 1906. Chi ha paura della storia delle donne?

dicembre 1977

Non credo che per creare un prodotto decente il TG1 possa permettersi di scegliere un’autrice donna per gli sceneggiati-palude, aggiungendo al monte dei collaboratori i nomi di quattro donne quattro, cui vengono assegnati incarichi di rilievo secondario. Mi riferisco alla riduzione televisiva di «Una donna» di Sibilla Aleramo. Riduzione da tutti i punti di vista.
Innanzitutto la protagonista è una borghese capace di pietà, ma non della coscienza sociale che nel libro ne fa un grosso personaggio. Nello sceneggiato è sparito il periodo dell’«infanzia libera e gagliarda» (modello comportamentale pericoloso anche se trasportato agli inizi del secolo, miopia analitica riguardo al testo o limiti dello sceneggiato televisivo come genere? E allora, perché perpetuarlo?), è sparita la solidarietà con le classi sociali inferiori rispetto all’interiorizzante condizione di figlia del padrone, è sparito il rapporto causa-effetto tra le prevaricazioni paterne da una parte e la pazzia materna e la successiva ribellione della protagonista; dall’altra: è rimasto solo il rigore fisico dei pesanti vestiti di scena, una carità impacciata verso i lavoratori mista ad un diffuso antimeridionalismo, e il tramutarsi dell’analisi della protagonista sui rapporti dei genitori in semplice indignazione morale, a cui è assegnato il compito di intenerire lo spettatore sulla triste sorte di una fanciulletta che, senz’altro, qualunque cosa abbia fatto successivamente, l’ha fatta perché è vissuta in una famiglia «atipica»: al contrario, la figlia che scopre la relazione extra-matrimoniale del padre rientra nella prassi quotidiana, e la Aleramo ce la presenta come una delle occasioni di partenza per individuare le discriminazioni sessiste, che saranno causa della pazzia della madre, della crisi di coscienza della protagonista nel matrimonio e dell’abbandono della famiglia e del figlio. Non so come uno sceneggiato possa diventare diverso: certo è che finora questo genere si è contraddistinto per la prevedibilità dei moduli usati, canonizzati e stereotipati. La prima persona di sesso opposto alla protagonista che vediamo accostarla, sappiamo, anche senza aver letto il libro, che la sposerà. (L’impaccio di lei, l’osare di lui): una forma di necrosi che si sviluppa durante tutte le prime puntate. Nello sceneggiato abbiamo due sistemi di valori contrapposti tra loro: popolo + donna = calda emozionalità contrapposta a padrone + industria = fredda razionalità. Il primo schieramento è però diviso da contrasti interni, esistenti quanto esagerati: donna contro meridione (commenti della protagonista che appaiono rivolti più al tessuto sociale contingente, che ai pregiudizi in sé), meridione contro progresso (la discussione su Darwin: macchiette meridionali contro lucidità nordica), progresso contro donna (il padre che nega alla figlia l’emozionalità), donna contro madre (ha ragione il cervello padre o il cuore madre?). Questo schematismo è un’involuzione rispetto al romanzo, che ha una propria logica interna che tende all’evoluzione della coscienza di «Una donna», e non alla riproposta di stilemi narrativi troppo codificati. Ma soprattutto la madre impazzisce perché il marito è «diventato cattivo» (parole dello sceneggiato che nel romanzo non compaiono) o perché esiste l’istituzione matrimoniale? «Mi sono resa conto che (il libro) è tanto attuale, nel suo significato di fondo, quanto lo è la ricerca teorico-scientifica del libro di David Cooper ” Morte della famiglia “; anche Aleramo — nel 1906! — decretava la «messa a morte» della famiglia, e con una violenza che non è diminuita, ma addirittura raddoppiata…» 1). E invece troviamo lacrime e musica roboante, quando la protagonista scopre il tradimento del padre, come se piangesse non solo su di sé, ma sulla morte della famiglia. Assolutamente ignorato è il rapporto del padrone con l’operaia-amante, che avrebbe potuto essere sviluppato sulla quotidiana esperienza delle subordinate ad un datore di lavoro. Anche lo stupro è descritto in modo artificiale, attutito dal successivo fidanzamento di cui è «complice la madre» (come c’informa la voce fuori campo, maschile, che arbitrariamente riassume brani del libro). Conoscendo il pubblico, il passaggio dallo stupro all’amore successivo diventa già scagio-namento. Dov’è la rabbia? È ammissibile, poi, mostrare una scena di violenza familiare polarizzando tutto sul pianto del bambino? Tanta sensibilità per l’infanzia è inversamente proporzionale a quella per la donna. Un mare di lacrime. E per finire: dove hanno cacciato, i nostri manipolatori, l’aborto naturale della protagonista?
Tramutato in maternità, tace, come è zittita Sibilla Aleramo.

1) M. Antonietta Macciocchi, prefazione a «Una donna» di Sibilla Aleramo, Feltrinelli.