organizzarsi contro

dicembre 1977

dopo il 17esimo caso di violenza carnale avvenuto a Roma nei mesi estivi, il 16 settembre 1976, alcune compagne del MLD romano decidono di formare un collettivo che si occupi in modo specifico della violenza sulle donne. Rendiamo pubblica la nostra iniziativa con un comunicato, nel quale tra l’altro dichiariamo che: «lo stupro è solo la punta dell’iceberg di tutte le violenze che le donne subiscono quotidianamente, nel silenzio delle loro case, ad opera dei mariti, padri, fratelli». Essendo la nostra iniziativa la prima del genere in Italia, essa suscita la curiosità di tutta la stampa.
Tutti i giornali riportano il comunicato e subito inizia la richiesta di interviste. Immediatamente ci rendiamo conto che l’unica cosa che ci viene richiesta è «la testimonianza», e va bene solo se ricca di particolari scabrosi e morbosi. Ma non solo i giornalisti ci cercano, fin dall’inizio siamo subissate dalle richieste di donne disperate.

maddalena
Sposata da otto anni. Casalinga. 4 figli. Il marito ha un laboratorio artigiano di restauro. Viene al collettivo perché ha saputo della sua esistenza attraverso le trasmissioni che quotidianamente teniamo a Radio Radicale. Subito dopo il matrimonio il marito comincia ad usarle ogni tipo di violenza; la chiude in casa, non le permette nessun tipo di contatto esterno, neanche con i parenti, la picchia anche durante la gravidanza. Molto spesso Maddalena finisce all’ospedale, Durante uno di questi episodi tenta di sottrarsi alle botte del marito saltando da un terrazzino del I piano. Finisce a S. Maria della iPietà. Dopo otto giorni esce grazie all’intervento di un medico che la giudica sana. Poco tempo dopo Maddalena è ricoverata in ospedale per un doppio (in quanto viene fatto in due tempi) intervento, aborto e asportazione dell’utero.
E’ importantissimo usare ogni mezzo perché le donne sappiano che questi collettivi esistono. Ogni volta che ci è stato possibile abbiamo usato la stampa con i nostri comunicati, abbiamo cercato interviste, soprattutto nei giornali femminili, l’unica stampa, (o quasi) letta dalle donne, naturalmente con la pregiudiziale di un nostro controllo. Inoltre ci siamo rivolte a tutte le radio e televisioni libere, parlando del collettivo, con programmi fatti da noi, interviste, dibattiti.
In molte altre storie abbiamo ritrovato un aumento di aggressività durante la gravidanza; sembra che con essa rinasca nell’uomo l’atavica paura della sessualità diversa della donna.

Questo minimo atto di autodifesa diventa motivo per dichiarare M. W pericolosa per sé e per gli altri e rinchiuderla come pazza.  Ed una delle motivazioni più comuni per liberarsi di una moglie che non rispetta più il suo ruolo tradizionale.
Mentre è in ospedale il marito pretende ripetutamente che lei torni a casa. Ai suoi ovvi rifiuti manda i 3 maschi in collegio senza comunicarle il luogo. A questo punto tMaddalena si rifiuta di operarsi se non sa dove sono i figli. Interviene la polizia femminile che li rintraccia, Maddalena si opera. Alle dimissioni dall’ospedale seguono una lunga serie di soprusi; la casa è svuotata, la serratura è stata sostituita. A questo punto della storia il marito chiede la separazione (perché Lei non è una buona, madre e frequenta ambienti poco raccomandabili, ovvero ascolta Radio Radicale). Naturalmente lo scopo è ottenere la separazione senza concederle .né affidamento dei figli, né assegni familiari.
Maddalena è venuta da noi essenzialmente per parlare, anche se poi ha accettato l’aiuto legale che potevamo offrirle, e questo è il momento di partenza per qualsiasi tipo di azione che vogliamo portare avanti: questa è «la assistenza» che noi offriamo alle donne. Quello che vogliamo rompere è il cerchio di silenzio che circonda la «violenza casalinga». Le donne devono avere un posto dove in primo luogo potere parlare, capire che la violenza che subiscono non è soltanto la loro, capire che non è un diritto del marito schiaffeggiarla impunemente per ogni atto di affermazione di sé, capire che solo da questo primo momento di presa di coscienza potrà iniziare un cammino di ribellione, coscienza di sé e dei propri diritti. Nel nostro comunicato iniziale annunciamo, tra l’altro, che offriamo assistenza legale, e così, per la nostra iniziale inesperienza, ci troviamo a dover fronteggiare la situazione (frequente) in cui la donna viene al collettivo chiedendo unicamente: «Dove è l’avvocato? Perché mi voglio separare da mio marito» e facendoci così sentire soltanto lo studio legale femminile per le separazioni. Questa situazione è stata superata nel momento in cui le compagne del collettivo hanno imparato tutta una serie di dati tecnico legali (come fate una denuncia per percosse, quando si può abbandonare il ‘tetto coniugale, che fare subito dopo avere subito violenza) e siamo state in grado di dare noi, e non le avvocatesse, questi primi consigli.
Abbiamo in seguito diviso le riunioni in due giorni, dedicando il secondo ai problemi giuridici che potevano essere risolti soltanto dall’avvocato. Il trovare delle compagne avvocato che cambiassero il tradizionale rapporto esperto-cliente, è stato estremamente
difficile. Il fatto che dovessero essere delle donne era per noi scontato. Purtroppo molte delle avvocatesse che si dicevano disponibili a lavorare con noi, si rivelavano poi donne con la testa da uomo, senza scrupoli, desiderose soltanto di crearsi tramite noi facili successi. E tutto questo è abbastanza comprensibile in una professione in cui una donna per affermarsi deve assumere valori non suoi, quali la competitività, l’arrivismo etc… Dice Nina, una delle due compagne avvocatesse: «per affermarmi ho dovuto lottare il doppio di quanto lotta un uomo, ora poi mi è stata appiccicata la etichetta di avvocato^femminista, la mia serietà professionale è stata di nuovo messa in dubbio, la mia lotta in questo ambiente è veramente dura ed estenuante…». Attraverso l’analisi del materiale americano e inglese, ma soprattutto attraverso il contatto con le donne, siamo riuscite, volta per volta a risolvere problemi e ad avere nuove idee, Ad esempio, attraverso la testimonianza di Liliana è nata l’idea di una possibile proposta di attuazione di una linea telefonica pubblica di emergenza per le donne picchiate o violentate. (Vedere nelle nostre proposte)

liliana
Sposata da 15 anni. Casalinga, 5 figli. Marito commercialista. Situazione economica agiata. Ha saputo del collettivo attraverso il 110; una mattina, più esasperata del solito cerca sulle pagine gialle l’elenco dei consultori pubblici (sic) pensando di poter ricevere consigli ed aiuti.
Non trovando nulla chiede informazioni alla centralinista del 110, la quale sentendola così disperata le risponde: «i consultori non esistono ancora, provi con quelle dell’MLD» e le ha dato il nostro numero. Vuole separarsi dal marito, più per ripicca ohe per convinzione sua. Il marito le ha fatto smettere di lavorare, esiste, fin dai primi tempi, una incompatibilità di carattere. È diventata la serva-mamma. Lui torna a casa tardi, la offende in continuazione, anche in presenza delle figlie. I rapporti sessuali sono inesistenti. Ha già fatto un tentativo di separazione anni fa, ma l’avvocato ha frainteso le sue intenzioni e ha sporto solo una denuncia per maltrattamenti, cosa che lei non’ desiderava. Subito però aggiunge che da quella volta non l’ha più picchiata. Liliana ha un’immagine altamente idealizzata del marito e una forte dipendenza. Il suo primo atto di insubordinazione è di non pulire più la casa da 10 giorni. Il tutto nasce, non da una esigenza di affermazione di sé e dei suoi diritti, ma perché si comincia ad accorgere che le figlie la trattano come il padre. «Devo separarmi» dice «per le mie figlie, perché abbiano il buon esempio e non facciano come me», Subito dopo aggiunge: «Sono sicura che mio marito appena si accorge che faccio sul serio, cambia». I due grossi problemi che una donna picchiata deve affrontare, nel momento in cui vuole andarsene di casa, oltre a quelli di carattere psicologico, sono contemporaneamente: l’autonomia economica e il posto dove andare.

L’isolamento in cui le casalinghe anche agiate, vivono, crea forti dipendenze da quell’unica figura che, bene o male è stata l’unico punto di riferimento della loro vita; questo legame impedisce spesso alla donna di prendere una decisione definitiva.

È ricorrente in tanti altri racconti questa giustificazione. Spesso, quando la donna si decide ad agire, lo fa, non per sé, ma per i figli, ricreando quella stessa logica di dipendenza che a fatica ha spezzato col marito.

Luigina
29 anni. 6 figli. Casalinga. Marito lavora saltuariamente ed è mantenuto dalla madre quando è disoccupato (la quale non mantiene però il resto della famiglia). Ci racconta la sua storia fatta di anni di violenze, anche durante le gravidanze. Ha vissuto fino a poco fa in una baracca, successivamente le sono state assegnate due stanze in una pensione del Comune. Le poche volte che il marito torna a casa la minaccia col coltello, questa situazione si è interrotta quando, abitando in questa pensione, le sue urla hanno fatto intervenire tutti gli abitanti e per la prima volta ha trovato un minimo di solidarietà, anche se nessuno è disposto a testimoniare contro il marito. È stata trascinata al collettivo dalla sorella, quando, due giorni dopo avere abortito (con le compagne del self-help) ha subito l’ennesimo episodio di violenza, (le tumefazioni sul viso sono ancora evidenti). L’accompagnamo al S. Spirito per farsi visitare e avere il referto medico per percosse. Luigina resta qualche giorno con i figli al Governo Vecchio, in attesa che, con la istanza di separazione, vengano presi i provvedimenti urgenti che impediranno al marito, già dall’inizio della causa, di vivere con lei nella pensione.
Abbiamo discusso a lungo sull’opportunità di istituire una casa per le donne picchiate, anche perché a Roma, con l’occupazione del Governo Vecchio, avevamo la possibilità di uno stabile da usare. Per noi non è stato possibile attuare in modo serio una struttura del genere, in quanto mancano le strutture essenziali (bagni decenti, cucina) e come collettivo non avevamo la forza numerica, né la volontà di occuparci solo di quello. Però pensiamo, e se riusciremo ad ottenere fondi con una sottoscrizione nazionale e internazionale per ristrutturare il Governo Vecchio, che un progetto del genere vada portato avanti. Pensiamo ad un rifugio per donne non istituzionalizzato, ma come struttura di emergenza, dove le donne possano vivere inizialmente con i loro figli, riprendere fiato, riprendere coscienza di sé e della propria dignità, poter iniziare la ricerca di un lavoro e di una sistemazione stabile.
Vogliamo bene chiarire che non ci poniamo come centro puramente assistenziale, siamo un movimento politico che vuole agire come strumento di pressione su tutta l’opinione pubblica, e come critica e stimolo alle soluzioni ancora molto vaghe (consultorio comunale antistupro la cui apertura si annunciava il novembre scorso, dove è?) date al problema.
Come per l’aborto non abbiamo nessun desiderio di sostituirci alle carenze del settore assistenziale. La nostra vuole essere una struttura alternativa e ci riproponiamo in un immediato futuro di estendere la nostra esperienza e di aprire un collettivo contro la violenza in ogni sede MLD (già da un anno è in funzione quello di Milano). Saremo presenti con, manifestazioni, denuncie non solo ai tribunali, ma sotto le case dei «picchiatori» e dei «violentatori». Da una nuova consapevolezza femminista 1q stupro e la violenza «casalinga» devono diventare questioni politiche.

Va denunciato il silenzio complice e l’omertà dei vicini di casa che in onore alla privatezza e alla sacralità del nucleo familiare, assumono l’atteggiamento del: «io non mi impiccio».

Ogni volta che la donna lo desidera la accompagnamo all’ospedale per il referto o al Commissariato per la denuncia, perché solo con un movimento politico alle spalle non si azzardano a dire: «Ma lasci perdere, vuole rovinare un padre di famiglia» e rispettano quei diritti che sono di ogni cittadino, ma che ci sono sempre negati.