per mia madre e altre

«le nostre madri hanno una nevrosi che le loro non conobbero: la nevrosi da solitudine, da ripetizione, da fatica sempre uguale, dalla degradazione delle attività semiartigianali che erano il lato più creativo del loro viversi donna, dal superamento di quelle conoscenze che la rendevano fiera, utile, indispensabile».

dicembre 1977

stasera ci siamo viste in TV. Ci siamo viste con gli occhi di quanti (maschi e femmine, compagni e non) la Lucania (e le donne lucane) le conoscono attraverso i documentari di Ernesto De Martino e i commenti del povero Pasolini. Non ho nulla contro di loro. Tanto più ora che se ne sono andati. Non ho nulla contro i loro documentari, ma mi fa rabbia (a me che quella eredità contadina ce l’ho nel sangue né mai saprei rinnegarla) mi fa rabbia che di noi si parli per dei reperti archeologici, mentre così poco spazio ci resta, mentre così poca voce ci lasciano per esprimere tutti quegli aspetti, nodi, drammi, sofferenze ed insofferenze dell’essere oggi donne al Sud; madri, maestre, casalinghe, domestiche, braccianti, comuniste, femministe (sì, anche femministe) in quelle stesse aree a cui così spesso si ricorre per ricavarne emozioni (estetiche) altrove irreperibili, operazioni (culturali) in cui circola un vago odore da letteratura latino-americana.
L’incidenza del femminismo qui appare esigua ed irrisoria non solo per mancanza di numero (donne che avendo acquisito una coscienza femminista a certi livelli di profondità rimangano in certe aree sono in effetti un po’ rare e questo è da inserirsi nel più vasto contesto di un drenaggio sistematico di risorse umane, giovanili innanzitutto, attuato nei confronti delle nostre zone) ma anche, credo, per la mancanza (tra noi che restiamo) di un coordinamento che ci permetta di cercare e di trovare l’aggregazione femminile almeno su obiettivi minimi.
Troppo spesso, forse, ragioni psicologiche ed ideologiche (personali e politiche) ci hanno spinto al disimpegno reale di fronte a programmi vagamente emancipazionistici, troppo arretrati per quello che a livello di coscienza abbiamo maturato.
Il rischio era di ritrovarci presto fagocitate, il cosciente rifiuto a esperienze che prevedevamo già mortificanti (ti può succedere di tutto, anche di sentirti dire da un sedicente compagno e, ahimé, relativa compagna, che chi prende la pillola è sempre un po’ puttana e che, quanto all’ultimo caso di avvelenamento da prezzemolo, dopotutto la tizia se l’è voluta, bisognerebbe avere il buon senso di rimanere «entro certi limiti»),
E tuttavia queste ragioni rischiano di tramutarsi in alibi, favorendo la già dolorosa scissione tra individuo e ambiente, teoria e prassi. Di qui la necessità di vedere se si può, proprio nel luogo della nostra oppressione (in spazi geografici e culturali dell’entroterra meridionale), cominciare a saldare il dato individuale (il nostro tentativo di liberazione) a rivendicazioni che, pur essendo puramente strumentali rispetto al fine (nidi, trasporti, consultori), sono però legate a bisogni immediati delle masse femminili e dunque in grado di coinvolgerle.
Tutto sta — credo — a non perdere di vista (mai, neppure per un istante) la prospettiva globale, servendoci proprio di questi momenti per comunicare alle altre donne il nostro stesso bisogno di comunicazione, forzando l’analisi e le situazioni, sicché organizzarsi intorno a un obiettivo diventi occasione di presa di coscienza, e di autocoscienza, cercando, (proponendo) i momenti separati per dimostrare che tra donne si è molto più interessate e dunque più conclusive.
L’importante è convincerle a venire e le donne vengono più facilmente (diciamo pure che sentono come meno colpevolizzante il lasciar andare una faccenda) se il problema riguarda per es. l’istituzione di un consultorio anche solo pediatrico che non una discussione intorno al maschilismo di fratelli, mariti e padri.
Quando siamo insieme, libere dagli sciovinismi maschili, buttate via (magari da parte delle compagne più disponibili e semplicemente più abituate a un certo modo di far politica) alcune difese, il discorso va al di là del dato contingente che ci aveva riunite, il personale, la componente psicologica, comportamentale, culturale viene a galla e ci viene soprattutto (le poche volte che ci siamo riuscite lo hanno dimostrato) se si riesce a mettere insieme donne di diversa generazione, quella delle madri e quella delle figlie. Infatti, levando di mezzo il modello materno, e le mediazioni che certi «valori» assumono per suo tramite, la mentalità patriarcale appare al nudo, con quanto ha di più fascista, razzista e velleitario e dunque di più immediatamente rifiutabile.
Ho detto mentalità patriarcale e non padre-patriarca, perché mi sembra ora di smetterla con questa retorica del padre-patriarca (diciamo pure del maschio meridionale in genere) in quanto persona fisica, violento e autoritario, repressivo sempre, in base a interessi di tipo individuale.
La questione (molto più complessa, sfumata e perciò doppiamente pericolosa) riguarda a mio parere, da una parte gli interessi economici dello Stato borghese (che ha tutto da guadagnare dalla gestione in proprio, familiare innanzitutto, di servizi che diversamente dovrebbero avere carattere sociale) dall’altra una sorta di patriarcalità interiorizzata, che proprio nelle donne trova il suo veicolo di trasmissione generazionale, diretta, naturale, relativamente indolore (e che dello Stato capitalista fa gli interessi politici, neutralizzando e frantumando, per mezzo di vincoli etici ed affettivi, quell’immenso potenziale eversivo che sarebbero viceversa larghi strati della popolazione meridionale, e quella femminile innanzitutto). Da questo punto di vista il rapporto interpersonale più problematico diventa allora quello con la madre: per quello che è come persona e per il ruolo che le compete, per come lo ha vissuto e per come ha cercato di inculcarcelo, nonostante il venir meno del contesto in cui i comportamenti che andiamo rifiutando erano al limite anche giustificabili.
Prendiamo uno dei postulati classici della letteratura (femminista e non) sul tema donne nel meridione, dico il terrore dello zitellaggio e la (correlata) acquiescenza a una certa morale patriarcale di fatto, ma di certo ferocemente difesa per mezzo del modello materno. Le nostre madri avevano capito perfettamente (senza l’oleografia mistificatoria che andava a subire sullo stesso tema la borghese) che il matrimonio era un contratto, e in quanto tale andava concluso il meno svantaggiosamente possibile. Merce di scambio la di lei integrità. E allora, visto che devo vendermi, mi vendo bene; cioè con crismi e carismi.
In realtà sposarsi, avere una casa propria, significava sobbarcarsi un cumulo di lavoro in più, fermo restando quello nei campi. Ciò che si andava ad acquistare era una delega di potere (a cominciare da quello sui figli) che certo pagava caramente (in termini di fatica e di sottomissione al marito) ma che le garantiva un minimo di spazio in cui muoversi: nelle comunità contadine tutto passava per mani femminili, mani materne (anche se nulla vi rimaneva) e al femminile ci si andava a gestire (solidali con le altre donne) i momenti salienti della propria esistenza: in primis la maternità e con questa, talvolta, il presupposto onore. Di aborti tuttavia (a meno che non fosse appunto una questione di rispettabilità per cui il rischio valeva bene il rischio) erano più quelli che accadevano per caso, aborti bianchi {di classe) seguendo i ritmi delle stagioni e della campagna, perché nel mondo contadino antecedente la meccanizzazione e razionalizzazione del lavoro i figli da bocche ben presto diventavano braccia, cioè forza-lavoro, potenzialità produttiva.
Donne senza storia pubblica, dunque, ma in un mondo in cui il pubblico non godeva di gran considerazione ed era anzi guardato con non celata diffidenza; un mondo in cui non esisteva né il «sociale» né il «privato» (in senso personale, individuale) ma piuttosto un privato a carattere piccolo-comunitario, familiare in senso lato. Donne, occorre aggiungere, assimilabili alla terra, forza fecondativa, natura, madri; ma in una dimensione economica e culturale in cui la terra era elemento prioritario, garanzia di sopravvivenza, la sola garanzia di vita esistente.
Questa figura femminile, ha fatto la sua ultima prova nel dopoguerra quando s’andò ad occupare i latifondi. Poi (neutralizzata, e normalizzata nella riforma la rivolta) le donne (non tutte naturalmente, il bracciantato femminile è ancora, consistente ed anzi segna, qua e là, delle riprese) sono venute fuori dai campi, senza subire il parallelo processo di proletarizzazione che è toccato ai loro uomini.
Per chi aveva conosciuto l’immane fatica della mietitura, a sfiancarsi giovanissime nei giorni di guerra per l’olio e la farina, stare a casa (magari in attesa del marito partito dietro il miraggio del marco tedesco) poteva pure sembrare un passo avanti. In effetti la vera ghettizzazione, il casalingato in senso proprio cominciava allora e con ciò cominciava la lenta, drammatica, frustrante perdita d’identità (senza che si andasse ad elaborarne una nuova) di un’intera generazione di donne. Il processo alla famiglia aperto (sia pure a livelli individuali differenti) dalla nostra generazione femminile (classe ’53 e paraggi, tanto per precisare) è innanzitutto processo alla famiglia come è stata vissuta da questa madre ex bracciante, ex coIona, ex salariata, ex mezzadra, poi casalinga a tempo pieno, sacrificata e santa donna (più santa che donna alla fin fine). La ventata di efficientismo che ha coinvolto (con la tendenza omogeneizzatrice dei media) anche la famiglia meridionale ha creato parallelamente tutta una serie di bisogni, veri o presunti( come quelli connessi allo pseudo-progressivismo da telepubblicità). Il venir meno per molte del lavoro extradomestico e l’uso degli elettrodomestici, non hanno ridotto il carico di lavoro complessivo, ciò che hanno ridotto sono le possibilità di scambio, di comunicazione effettiva, in termini di rapporti umani, quotidiani di questa donna, ricacciandola in un ghetto che è tanto più ghettizzante quanto più (per contrasto) l’esterno, il pubblico, il sociale, il politico s’è esteso (coinvolgendovi il suo uomo e i suoi figli, maschi e femmine, sia pure in modo e in misura differenti).
Le nostre madri hanno un male che le loro non conobbero: la nevrosi da solitudine, da ripetizione, da fatica sempre uguale, aggravata (occorre aggiungere) dal venir meno anche di quella mano che le figlie normalmente le davano; dalla degradazione di tutte quelle attività semi-artigianali che costituivano per così dire il lato più creativo del suo viversi donna; dal superamento di quell’insieme di conoscenze, rimedi ecc. che la rendevano così fiera, così utile, così indispensabile.
La constatazione più triste rimane quella per cui la liberazione, il tentativo di liberazione, o anche solo di pura emancipazione, di una generazione di donne sta passando (ancora una volta) sull’oppressione doppia, sullo sfruttamento aggravato, di un’altra generazione femminile.
Ci passa se lavori (e una donna che ha un posto di lavoro se lo difende coi denti) e sei sposata ed hai figli, perché in queste condizioni (cioè se i servizi sociali sono carenti, se i nidi mancano e le scuole materne hanno le deficienze e gli orari che hanno) i figli finisci puntualmente per lasciarli a lei. Ci passa soprattutto (e in maniera più sottile) se appartieni alla categoria più ridotta, se hai fatta tua l’ideologia femminista, se hai una certa visione della famiglia (peggio se vorresti che finisse domattina) se pretendi di scrivere, pensare, far politica, uscire, sperimentare (oddio questa non si sposa più — pensa — e allora ti vive come un fallimento di figlia e, visto che i figli li fa la mamma, come un suo personale fallimento). Tutto ciò genera in lei confusione, sofferenza, paura. Paura delle contestazioni che vai a farle, dell’insicurezza che le comunichi, di quel metterti e metterla continuamente in discussione, del tuo sforzo di non somigliarle. Quante volte te lo dice che lei non lo meritava, che lei con sua madre non l’ha mai fatto, che lei sua madre l’ha guardata, pensata, copiata, rispettata, adorata, emulata… che certo non t’ha trattata peggio di come la trattarono, che ti lasciò sui banchi di scuola quando lei sapeva già il freddo delle albe di novembre nell’oliveto del padrone… Dice-pens a-suggerisce-rimugina. Dice della casa che l’ha uccisa. Di te che la vuoi morta. Che loro in sette, in otto, in undici non costarono a sua madre quanto questi due o tre o cinque figli misurati (i tempi cambiano, i figli ormai son più bocca che braccia) col «sacrificio». Questo del «sacrificio» è un motivo ricorrente. Cos’è, un vago accenno a rinunce sul piano sessuale? Una compagna di quarantanni ci disse una volta che lei, per fermarsi a quota tre, (uso le sue precise parole) i cancelli li aveva chiusi da tempo.
Questi non son problemi delle sole meridionali. Al Sud (che non è un’area geografica e basta) questi problemi sono semmai più scoperti perché mancano anche quegli adattamenti formali, tattici, che la cosiddetta democrazia borghese adotta per garantirsi la sopravvivenza.
Così il primo scontro è tra donne, perché alle donne è ancora affidato (ma senza ormai le sia pur magre gratificazioni che gliene derivavano in passato) il compito di convincere, conservare, costruire capillarmente in cucina, in camera da letto, in un’aula (ciascuna nella propria cucina, nella propria camera da letto e nella propria aula) il consenso di cui il sistema abbisogna. E la prima donna con cui vai a scontrarti è tua madre. Non che non ti capisce e meno che mai che ti condanni, ma ti vuole troppo bene per permettere che tu ti esponga al pettegolezzo, alla critica, al rischio. Lei che te l’ha ripetuto tante volte (ma senza mai misurare la portata vera di quelle parole) Tu non dovrai fare la mia vita. Tu non dovrai stare zitta. Perché tu sai parlare. Hai studiato tu… E certo studiare avrebbe dovuto significare farti diventare la sua bella copia, se stessa ma con mani meno ruvide, in una casa che brillasse almeno quanto quella del ceramicabella della TV. Fino a che, visto i risultati, non ne può più. Tornassi a nascere — dice — una figlia femmina la lascerei analfabeta… E qui non è tanto la casalinga sottoposta al fascino piccolo-borghese della famiglia televisiva che insorge delusa, qui c’è il senso della violenza che opera su di lei la tua ipotesi di vita così differente dalla sua; qui c’è il rifiuto di un’estraneità culturale che va ed offenderla (perché quando il ruolo è stato introiettato nella misura in cui l’ha introiettato lei, il rifiuto del ruolo è vissuto come il rifiuto stesso di lei in quanto persona).
Né mi sembra inopportuno ricordare nell’epoca (abbastanza recente) della mia adolescenza le riserve morali a carico del grande esercito delle maestre, che per prime si sono trovate costrette ad assegnazioni in zone lontane, periferiche, magari isolate, fino a risalire (per il ben noto intasamento di tale settore) la penisola alla ricerca di graduatorie permanenti meno chilometriche. Poi, nel giro di un decennio, abbiamo invaso gli edifici scolastici (e i corridoi del Magistero); non solo le riserve sono cadute, ci hanno anche applaudite (son donne e fanno un mestiere da donne, e la maestra è un po’ come la mamma). Qualcuna ha cominciato a capire che anche nella professione c’è stata l’identica fregatura, l’indipendenza economica è stata raggiunta raramente (il casalingato magistrale sta diventando una istituzione), chi lavora lo fa quasi sempre nella logica necessaria del bilancio familiare e il fatto che ti guadagni da vivere non basta a farti riconoscere il diritto a camminare sulle tue gambe. Da una parte ci pensa «l’opinione» dall’altra il capitale.
Infatti, se non lavori sei tu che hai bisogno degli altri membri della famiglia e per sopravvivere devi adattarti, arrivando almeno a un qualche compromesso.
Viceversa se lavori sono gli altri (specie nelle famiglie più numerose) ohe finiscono in qualche modo per responsabilizzarti, colpevolizzando eventuali scelte alternative (tipo farti una vita totalmente tua che, tra l’altro, richiederebbe anche la possibilità di disporre di quello che guadagni).
In un caso e nell’altro, ricorrente, costante, insinuatoria, la domanda di sempre. Sei fidanzata? Ti sposi? A spiegarti perdi il tempo. Fino a che certe cose non le spieghi più. Sei stanca. Non ne vale la pena. Tiri avanti per i fatti tuoi: tra problemi, crisi, insofferenze, tentativi di strappo, scrupoli, scissioni. Stati d’animo che si riflettono soprattutto in famiglia. In casa, davanti al rifiuto di cose quotidiane, gesti, abitudini, scattano, prima o poi, tutta una serie di reazioni. Il rapporto madre-figlia è quello che ne esce più coinvolto e sconvolto. Dopotutto, dice, la madre è lei. Ma lei non è la madre, è soltanto una madre tutta in minuscolo, una donna isolata e nevrotica, espropriata ed espropriante.
È lei che ha avuto meno di tutte e due le donne con cui s’è confrontata: sua madre, il potere legittimo (meglio l’autorità, il prestigio, vorrei dire la sacralità) che le ha sempre riconosciuto, in vista di esserne a sua volta investita; sua figlia che, insieme al resto e conseguenza del resto, di quel prestigio le mostra la corda, questa figlia che pure su una cosa è d’accordo con lei (che la casa la uccide ed è ben decisa a non fare la stessa fine). Allora esordisce anche con maniere più violente, diventa insolente. Ma sì, ci credo che non ti sposi, dì che ne verrebbe a un uomo da una come te? Per mettercisi bisognerebbe essere martiri o fessi… Così, piegando a tre gli asciugamani. La verità è che sta pagando un prezzo storico, più di noi ed anche per noi. Una coscienza femminista t’insegna anche questo. Bisogna trovare un modo di spiegarsi, di accettarsi, di allearsi. Una coscienza femminista t’impone anche questo.
Ma lei non capisce, non vuole, si rifiuta. Capire, per lei, significherebbe ammettere un fallimento, prendere atto che è stata giocata e di chi l’ha giocata e per che cosa. E a nulla vale dirle (con quel poco di dolcezza che ci rimane) che tu, in ventiquattr’anni, di fallimenti ne hai conosciuti più di tutti quelli dei suoi cinquantanni e passa messi insieme (e che ne sei contenta se son serviti a farti capire che a far la sua vita ti manca la vocazione); prima di concludere — non senza amarezza e con un po’ d’ironia — che anche lei (tua madre) è l’ennesima vittima (né l’ultima né la prima) del processo rivoluzionario in atto (quanto rivoluzionario e quanto in atto è ancora da stabilire).