le vivandiere del terrorismo

«quando è la donna a far ricorso alla violenza si scatenano da parte maschile reazioni che, sotto la veste della razionalità e della freddezza analitica, nascondono emozioni viscerali e ataviche».

dicembre 1977

la legittimità dell’uso della violenza è un tema ancora aperto all’interno del movimento delle donne, L’analisi femminista ha messo in rilievo che esistono molti tipi di violenza — politica, sociale, psicologica — e che l’uso delle armi non è che la forma più appariscente della violenza. Sarebbe quindi semplicistico affermare che l’uso delle armi non è mai giustificato: la sua legittimazione, infatti, dipende dalle condizioni storiche in cui si fa ricorso alla lotta armata. Non è solo l’atto che conta, ma il significato che esso può assumere a seconda del contesto storico e delle finalità in cui viene attuato.
In questo contesto storico, a nostro parere, il ricorso al terrorismo come strumento per abbattere il sistema socio-economico e politico esistente significa fare il gioco della reazione e preparare il terreno per una svolta a destra, non a sinistra. L’uso della lotta armata nelle condizioni storiche della società occidentale attuale non è una scorciatoia per la rivoluzione, ma un vicolo cieco.
Per questo motivo — e per il fatto che apparteniamo ad un movimento, quello delle donne, che si è sempre qualificato come non violento perché consapevole che dalla violenza non emergono mutamenti sociali duraturi ma solo forme nuove di oppressione — siamo drasticamente contrarie alla azione terroristica come strategia per mutare la società in cui viviamo.
Premesso questo, vorremo fare qualche considerazione sulle reazioni alla presenza delle donne nei gruppi terroristici. Quando è la donna a far ricorso alla violenza si scatenano da parte maschile reazioni che, sotto la veste della «razionalità» e della «freddezza analitica» nascondono emozioni viscerali e ataviche.
La ribellione viene in questi casi vista come doppia devianza: la ribelle donna infrange un doppio codice di sottomissione, all’ordine sociale e all’ordine patriarcale. A questo proposito ci pare illuminante il titolo in prima pagina del «Corriere della Sera» in occasione della fuga della Salerno e della Vianaie dal carcere «Adesso scappano anche le donne»; dove quell’anche è un compendio delle reazioni maschili di paura, stupore e sbigottimento di fronte ad una manifestazione nuova dell’autonomia femminile. Mentre i tedeschi la buttano sullo psicanalitico, cercando di rivestire il loro sgomento di «scientificità», la parte più retriva della stampa nostrana tenta di giustificare queste sortite delle donne terroriste come «episodi di traviamento» da parte dell’uomo.
La Ensslin, scrive il Giornale del 19 ottobre, diventò terrorista perché, si legge nella biografia pubblicata dal quotidiano milanese, «nel ’68 conobbe Baader che la soggiogò completamente, facendone la sua amica e compagna nelle sanguinarie e folli imprese terroristiche». In quelle folli e sanguinarie imprese, tuttavia, lei non rinuncia, tiene a far notare la stampa benpensante, al tradizionale ruolo femminile. Il Tempo del 19 ottobre pubblica la foto di Gudrun con la rassicurante (per i maschi) didascalia: «La vivandiera del gruppo», Segue il ritratto della vivandiera, che non ha bisogno di commenti: «Bionda, slanciata, occhi celesti, magra e ben fatta, il suo volto e la sua figura erano quelli comuni a migliaia di donne tedesche. La sua esistenza per 20 anni era stata quella di una ragazza esemplare, tutta casa e studio. La sua relazione con lo scrittore fortemente inclinato a sinistra Bernard Wesper cambiò radicalmente le sue vedute politiche. La Ensslin era dotata di molto spirito pratico e si occupava soprattutto di problemi logistici: era in pratica la vivandiera del gruppo». Anche i quotidiani «democratici», però, sono scivolati su un particolare che può apparire irrilevante e che invece è significativo: nel descrivere Gudrun, hanno sempre aggiunto al nome di lei la qualifica, «amante di Baader»; nel caso di Baader non compare quasi mai «amante della Ensslin». La donna — terrorista e non — deve per forza appartenere al maschio e seguirlo nelle sue più o meno giustificate imprese: questa la rassicurante ipotesi con cui l’uomo latino tenta di esorcizzare la sua inquietudine di fronte al terrorismo femminile.
C’è da domandarsi se, quando protagonista dell’atto terroristico è una donna, il maschio medio italiano sia più disturbato dall’atto in sé o dal fatto che sia una donna a compierlo. L’attentato disturba l’ordine sociale, il fatto che ne sia autrice una donna minaccia l’ordine privato in cui qualunque uomo, anche quello più emarginato politicamente e socialmente, sa di detenere ingiustamente il potere. La rabbia che viene dalla donna lo tocca più da vicino, perché riguarda un’oppressione in cui è direttamente partecipe.
Vorremmo concludere osservando che le interpretazioni psicoanalitiche sul terrorismo — siano esse grossolane come quelle avanzate da parte della stampa italiana o «raffinate» come quelle degli psicologi tedeschi — vengono quasi sempre usate per evitare di analizzare le componenti socio-politiche del fenomeno, privilegiando quelle interpretazioni che riconducono a fattori individuali ogni problema di comportamento, scaricando così il sistema sociale da ogni responsabilità.
L’interpretazione psicoanalitica inoltre viene adottata soprattutto nei confronti di episodi di ribellione sociale, da quella pacifica (rivolta agli omosessuali, femminismo, etc.) a quella violenta (terrorismo) vista sempre come forma di devianza. A pochi psicologi viene in mente di analizzare l’attaccamento al potere o la propensione alla corruzione degli uomini politici «normali»; nessuno psicologo si sognerebbe mai di addentrarsi nei meandri della psiche di Fanfani o Strauss. Loro sono la normalità; i loro comportamenti fanno parte della patologia sociale accettata, su cui si regge l’intero castello del potere. Per noi questa normalità —■ che è violenza nascosta — è invece non meno inquietante della violenza palese della «devianza armata».