convegno di firenze

dalla follia alla liberazione

il 12 e 13 novembre si è tenuto all’ospedale psichiatrico San Salvi di Firenze il convegno sul tema «Donne e follia».
Quasi 4.000 donne, un numero imprevisto, hanno discusso della pazzia in prima persona: tra la follia quotidiana e quella per cui ti chiudono in manicomio
c’è un elemento comune, che è l’essere donna.
Questi sono alcuni momenti del dibattito che si è svolto in uno dei gruppi di lavoro a cui abbiamo partecipato.

dicembre 1977

“secondo me la follia c’è di fatto in tutte noi. Me ne rendo conto dentro di me — e se ne parlava stamattina — che la follia è anche l’essere al di fuori di una certa norma: la follia che deriva dal fatto di essere femminista. Nel momento in cui esco da certi schemi di tipo tradizionale, mi sento addosso tutta una serie di aggressività, sento sempre più difficile la comunicazione con le altre che sono diverse da me.


Questo problema della follia tocca una serie di cose, dal proprio essere femminista, a chi ci lavora specificatamente, che non sa bene come rapportarsi alle donne negli ospedali, problemi della quotidianità di ognuna, femminista e non, perciò il fatto di ricominciare a parlare toccando questi temi è urgente.
Come era venuto fuori a Trieste, vivere il proprio essere femministe in questa società è deviante: decine di volte al giorno ti trovi a chiederti «io chi sono», perché hai distrutto tutto e non hai nessuna sicurezza. Significa chiederci che vita impostiamo. Io voglio essere femminista anche quando avrò 50 anni, non solo adesso che ne ho 30, voglio continuare. Vedo compagne che più vanno avanti più si allontanano. Sostenere la propria devianza è difficile, è duro, te lo fanno pagare continuamente, sul lavoro è spesso insostenibile, devi fingere continuamente, non puoi incazzarti 150 volte al minuto. In questo senso femminismo è devianza ed è un rischio di follia. Però c’è poi chi in questi posti schifosi che sono i manicomi ci sta. C’è chi senza nessuna coscienza, senza capire perché, s’è ritrovata qua dentro chiusa, noni può più ragionare sulla propria pratica. Questo noi dovremmo capire: cosa c’è in comune, cosa c’è di diverso, ma senza mitizzare sulla uguaglianza delle due follie. Chi sta in manicomio non vive la nostra stessa follia, perché a quel livello non controlli più niente, non sei più niente, non ci sei, la tua devianza non è un momento di coscienza come invece è per noi. Essere deviante per noi è la scelta di essere diverse.
Le donne che stanno qua dentro non hanno scelto niente, sono le più annullate, nel senso che sono state buttate lì e basta. Dovremmo capire come e se si può avere un rapporto reale con queste donne. Ci sono cose che tu all’inizio sostenevi, temi che fino a ieri erano tuoi, oggi diventano la cosiddetta devianza di massa, che perciò diventa sottocultura, moda, industria. Mentre ci sono cose più profonde, cose che vivi da sola e che più vai avanti con gli anni più diventano difficili da sostenere.


Volevo parlare dell’esperienza che ho fatto a Napoli quando siamo andate ad occupare il C.A.P. . Abbiamo fatto molte riunioni assieme per cominciare a discutere noi la nostra follia, la pazzia, le nostre paure rispetto a questo. Da molte di noi la pazzia veniva identificata con la passività, col non riuscire a fare delle cose, a sbattere la testa contro il muro e poi non riuscire ad affermare quello che si voleva, la pazzia come rinuncia. Altre la vivevano come sovversione, come momento di rinuncia alla normalità e però di cambiamento, di passo in avanti. Questa diversità di atteggiamento era dovuta alle storie di ognuna di noi. Io dicevo che tutte le mie decisioni importanti le ho prese in momenti di irrazionalità, in momenti in cui mi sentivo pazza, mi sentivo di rompere tutto, decisioni e scelte che poi ho recuperato e razionalizzato. Così quando me ne sono andata di casa, sentivo insofferenza ed altre cose; questa scelta solo dopo sono riuscita a renderla positiva e non un momento di sconfitta. Il mio contatto con le donne che stavano in manicomio mi ha fatto vedere come queste, bene o male, avevano fatto delle scelte simili. Per esempio mi diceva un’operatrice che nella giornata erano state ricoverate 4 donne volontariamente, perché si erano rifiutate di fare i servizi in casa. Loro però avevano visto questo rifiuto non come un fatto positivo, ma come un fatto di impotenza, come un non riuscire ad assolvere il loro ruolo, quindi avevano sentito di essere diverse e di non riuscire a sostenere questa loro «diversità», perché non avevano gli strumenti, che invece noi abbiamo. Non avevano il confronto con le altre donne che non le facesse sentire isolate. Allora questa è pazzia come passività e adattamento: o ti adatti alla situazione o vai in manicomio. Il manicomio che abbiamo occupato era di quelli democratici, aperti. Bene, si è fatta una festa coi ricoverati, maschi e donne, alcune delle quali ricoverate da molti anni e che avevano perso qualsiasi mezzo per entrare in contatto con gli altri e col loro corpo. Sono state riportate dentro sei donne, perché non avessero contatti più «intimi» con gli uomini, mentre i maschi hanno partecipato alla festa, all’assemblea. Questa è una situazione pesante da sopportare, anche da parte delle compagne che lavorano all’interno; da sole non possono sostenere la situazione, e si servono di strumenti che fanno violenza alle ricoverate e a loro stesse, quelli tradizionali.


Quello che mi dilania è questo. La differenza che c’è fra noi, che abbiamo la possibilità di sostenere la situazione di devianza e le donne che quotidianamente non hanno nessun mezzo, neanche quello di poter partecipare a questi incontri. Io ho fatto per due anni la volontaria all’ospedale di Trieste e ho visto nel quotidiano queste cose. Quando il medico democratico ti dice: nel centro create il gruppo donna, già è mistificato da morire che un dottore ti dica fate i pasticcini per le donne.
Non possiamo dire siamo uguali nella follia, perché in realtà quella ha trenta anni di manicomio alle spalle e io non li ho e tra l’altro so che io non li avrò mai, perché ho la capacità/possibilità di risolvermi le contraddizioni.
All’interno del tuo. lavoro, dopo i discorsi sulla morte della famiglia, la fine della coppia, bla, bla, ti trovi di fronte a una donna che ha il ricovero perché c’è la famiglia sfasciata e che fai? tenti di ricostruire la coppia, e
ti accorgi che non hai nient’altro da proporre. Si continua ad andare avanti così, ci sono donne che entrano e escono dal manicomio da più di vent’anni. Dopo questi congressi che facciamo?    i


Qui mi sembra che il discorso della devianza femminista, sia dato abbastanza per scontato.
Nella mia esperienza di femminismo mi sono resa conto che in realtà tutta una serie di rotture erano invece molto ideologiche. Il discorso che qui si sta facendo mi sembra ancora una volta ideologico perché nella realtà sento molte compagne, molte donne che ò rientrano nel rapporto di coppia o vanno dall’analista o non sanno più che fare. Sento tutto questo quasi come una sconfitta, un passo indietro. Io vorrei sapere se questo lo sentiamo tutte un po’ e vorrei partire da qui, perché se no il discorso sulla devianza come eversività mi sembra un discorso ideologico, non vissuto. A me interesserebbe sapere come mai oggi molte donne vanno a finire dall’analista, che veramente è diventata una cosa «di massa», a cominciare da me, che ci ho pensato molte volte perché nonostante tutto penso che l’analisi abbia degli strumenti che mi possono essere utili. Mi interesserebbe confrontarmi o parlare con quelle compagne che hanno fatto pratica dell’inconscio in collettivo, che hanno rotto il rapporto individuale con l’analista, che — uomo o donna che sia — ripropone sempre un rapporto di delega e di dipendenza, di autorità. Ma dobbiamo dirci con molta chiarezza sé questo discorso della devianza che viviamo è veramente vissuto o è un discorso ideologico.


Io mi sento di stare qua, però, forse sarà una grossa mia paura, però nello stesso momento mi sento di non essere presente fino in fondo, vorrei stare fuori, nel parco.


Il nodo che vorrei sciogliere, che vorrei capire, è fino a che punto questa nostra diversità deve da noi essere vissuta come devianza e come invece noi non possiamo recuperarla in maniera eversiva, in maniera creativa, positiva, recuperare la mia diversità e farne uno strumento di liberazione.


È molto difficile trasformare la nostra devianza in eversività, perché questa ti casca addosso ogni giorno. Non vorrei fare un discorso di impotenza, però vorrei verificare se effettivamente noi siamo riuscite a liberarci di certe cose e ad uscire fuori da certi schemi. Io sento che molte mie scelte non sono mie, ma sono comunque imposte. Per esempio il problema della maternità. Io mi trovo di fronte ad una scelta che non ha scampo. Oggi è assolutamente impossibile fare un figlio «bene», così non hai altro da fare che abortire. Ma questa non è una scelta: è una cosa che ti viene imposta e che vivi come follia. È folle che tu non possa vivere la tua maternità anche se senti questa esigenza e credi che sia una cosa positiva. Allora è necessario re un minimo di chiarezza su cos’è follia come elemento positivo e follia come fatto negativo. Io vivo dei momenti positivi di questa mia follia, però sono impotente dì fronte a queste scariche di aggressività che mi arrivano rispetto a certi ruoli precostituiti che non riesco a superare. Rispetto a questo secondo me non siamo riuscite a dire qualcosa di veramente positivo.


Io mi sento abbastanza confusa con una grossa difficoltà a partecipare. Per conto mio il discorso sulla follia è estremamente articolato, forse ci sarebbe stato bisogno di fare dei gruppi di lavoro specifici. Io ho paura che invece questi gruppi sul tema generale, questi grandi gruppi di autocoscienza in cui si parla a ruota libera, rimangono nella genericità senza approfondire niente. Io avevo molto il desiderio di approfondire il problema follia e comunicazione. Dire siamo tutte folli a questo punto è dire quasi niente. Il mio interesse personale è quello della comunicazione, comunicazione verbalizzata, quella del corpo, che è sessualità.


Penso che quello della comunicazione sia uno dei problemi fondamentali perle donne oggi. Un problema che ognuna di noi ha ogni giorno dove vive e dove lavora. Le donne hanno iniziato a parlare — da poco tempo — e si sono trovate davanti un grosso limite, che è quello di avere a disposizione solo un linguaggio maschile. Penso che una delle cose che ha mandato in crisi il femminismo sia il fatto che la pratica che abbiamo avuto riflette questo mondo di comunicazione maschile. Per comunicazione intendo la parola e il corpo, la sessualità, penso che nel corpo e nella sessualità ci sono forse le cose più rivoluzionarie, quelle che rompono di più all’interno di questa società, e che sono fondamentalmente le donne a portarli, Per me il livello del linguaggio è quello in cui io vivo il mio malessere in modo particolare, perché più vado avanti più mi accorgo di essere incapace di comunicare. Anche l’autocoscienza, certo è una cosa fondamentale, che è un’esperienza ohe si non può fare in un breve periodo, ma una cosa che fai praticamente sempre una volta imparata, però ha il grossissimo limite di essere chiusa nelle parole, in un discorso che — e non vedo altra soluzione — è maschile, come tutta la cultura che respiriamo.
Mi accorgo sempre di più che a parole non esprimo le cose più importanti, forse è molto più importante tutto quello che non viene detto, i gesti, le piccole cose di tutti i giorni. È un paradosso perché tutto questo lo dico proprio parlando e qui tutto quello che possiamo fare è parlare. Ma questo è il mio problema. Qual è il linguaggio delle parole e quale quello del nostro corpo. Se non scopriamo un linguaggio diverso il femminismo rimane nell’ambito di quelle cose che il sistema riesce a riassorbire: che strumenti diversi possiamo inventare? dove bisogna scavare per trovare quello che può far esplodere tutto?


Io penso che già il tema «donne e follia» sia un tema preciso, un momento preciso di lavoro. Follia e comunicazione: io non so ancora che rapporto ho come donna con la follia; solo dopo potrò pormi il problema «follia o qualcos’altro». Perché anche io vivo questa follia quotidiana di barcamenarmi tra i ruoli che mi si appiccicano addosso, vivendo quotidianamente scissa tra i respiri del collettivo e il soffocamento del lavoro, una schizofrenia continua. Oltre al fatto poi che ci sono le donne del manicomio, che non sanno più o sanno troppo, non lo so. Già al discorso donne e follia non so dare una risposta.


Per me la follia non è fatto astratto, sia al mio livello che a quello della «pazza» che urla e basta ormai, ma una cosa estremamente concreta. Il punto è capire che cosa vogliamo chiarire quando diciamo «donne e follia», attraverso dei temi concreti.


Io credo che una parte della nostra follia non deriva dall’aver fatto delle scelte che sono diverse dalla norma. C’è da capire come una parte di noi arriva a star male in un certo modo, somatizzando (arriva ad avere l’ulcera, il mal di testa, ecc.) e però un certo equilibrio riesce a mantenerlo, cioè mi viene l’ulcera ma non mi sento folle. Perché? credo che non è un caso che nei manicomi non ci troviamo mai noi ma le donne proletarie e sottoproletarie. Secondo me noi dovremmo riuscire ad analizzare cosa significa follia anche rispetto ai livelli di potere, economico, culturale, agli strumenti che possediamo (e che sono potere) e che ci permettono di fare scelte, tutte cose che altre non hanno. Per noi donne avere dei contatti, degli strumenti, anche avere il movimento alle spalle è un livello di potere. È ideologico dire: non voglio avere un rapporto di coppia e questa è la mia follia; perché allora voglio vedere la donna proletaria che se ne vuole andare di casa che altra follia può permettersi se non quella di sposarsi. Vorrei discutere a partire dalla comprensione e dalla accettazione di questa differenza.


Un punto di forza contro la nostra follia è anche la nostra organizzazione, perché la follia non sia vissuta isolatamente e colpevolmente. La pazza che abbiamo sentito urlare poco fa: io mi chiedo quante volte abbiamo sentito queste scene fuori del manicomio. Io ho visto mia madre decine di volte in questo stato, io stessa urlo in quel modo quando non ne posso più. Per questo dicevo che esiste la follia del quotidiano, la scomposizione continua in mille modi di essere, questo è quello che ti porta alla spersonalizzazione. Quali sono gli strumenti per venirne fuori? Uno è la nostra organizzazione, che vada avanti nella ricomposizione delle donne, e vorrei sentire le compagne cosa pensano su questo.


La mia follia è la scissione tra cose accettate e che vorresti essere per scelta ideologica e quello che non riesci ad essere, vivere colpevolmente quei bisogni che la nuova scelta non soddisfa, il bisogno di sicurezza che bene o male la famiglia ti soddisfaceva e che adesso non hai più e che ti spaventa non avere più.


Ti aiuta e ti salva la volontà di partecipare e di vivere con le altre, sentirsi forti di una serie di rapporti, di una solidarietà intorno alle tue scelte, che altre hanno fatto prima di te. Quello che mi fa uscire dalla crisi è pensare che riuscirò a realizzare quello che penso sia giusto. È questa la grossa differenza fra noi e le altre donne oggi, quelle che non sanno che quello che pensano è giusto.


È vero questo. Io ho vissuto momenti di grossissima forza che mi veniva dal movimento, quasi una seconda mamma che mi rassicurava. Però nel momento che c’è il riflusso, io mi ritrovo con tutte le insicurezze di prima, Da una parte c’è il discorso del nostro potere, quello della materialità dei nostri privilegi; dall’altra trovo che il discorso di potere e di organizzazione è importante, ma mi suona male, perché sotto sotto è un cercare delle sicurezze che di nuovo stanno al di fuori di noi, quando invece ho bisogno di sovvertire dentro di me delle cose, trovare un’autonomia vera. Ho bisogno di capire perché ho bisogno di sicurezza, che sia il movimento, che sia l’uomo o che so io; che strumenti ho per avere una sicurezza che deriva dal mio interno e non deleghi più ad un qualche fatto esterno, sia pure il movimento.


Il fatto di sentirsi sempre dipendenti: anch’io mi sono sentita sempre dipendente. Faccio parte di un collettivo di casalinghe e quello che ho verificato nella mia pratica è che ci sono livelli di dipendenza che non ti permettono più di fare niente, neanche uscire a fare la spesa. La sicurezza nella famiglia, anche tra le più affettuose, non si acquista perché è sempre un rapporto gerarchico che abbiamo. Anche la psicanalisi è gerarchia. Il discorso della follia per me era un problema di come rapportarsi a certe donne che subiscono passivamente questa follia.
Il problema che ci ponevamo stamattina era quello di come fare a non porci a livello interpretativo delle crisi e della follia delle altre donne, anche riappropriandoci di tecniche psicanalitiche, ma piuttosto vedere come possiamo far sì che il fatto che le donne impazziscono perché insoddisfatte della loro situazione non rimanga un fatto isolato, colpevolizzante, ma sia un momento di forza e di eversione, senza idealizzare niente. E’ chiaro che la follia è un disagio.