dietro lo slogan
questo documento nasce dalla necessità sentita dal Gruppo Donne e Politica di Roma di riflettere sui contenuti emersi in una riunione del lunedì a via Germanico, a cui hanno partecipato molte donne appartenenti e non a collettivi femministi.
alle assemblee cittadine del movimento, nelle riunioni dei collettivi, ci è sembrato che, mentre esisteva la volontà di non polarizzarsi fra legge e referendum, nel senso che non ci si voleva scontrare su una dicotomia determinata da alcune forze politiche, pure veniva fuori l’attesa di indicazioni di linea e decisioni operative che, tenendo l’autodeterminazione come punto fermo, fossero in grado di andare oltre. Noi abbiamo bisogno di ripartire da un dibattito interno. La pressione sui tempi politico-istituzionali rimane una forma esterna di influenza, pur nella sua validità, limitativa rispetto al processo che come donne abbiamo iniziato. Anche se la lotta delle donne sull’aborto in questi anni ha messo in difficoltà, e quindi modificato atteggiamenti delle forze politiche, resta il fatto che le istituzioni ci lasceranno nelle migliori delle ipotesi solo la scelta fra abortire gratuitamente e igienicamente o rischiare di persona.
Oggi, pur nelle ambiguità del rapporto movimento-istituzioni, ci pare sia proprio a partire dall’autodeterminazione che possiamo trarre alcune considerazioni politiche. Innanzitutto siamo per una buona legge: la mediazione tra i partiti non deve risolversi in mediazione sui bisogni delle donne (vedi autodeterminazione e problema delle minorenni). A questo punto, poiché sentiamo la difficoltà di esistere solo come massa di pressione organizzata e sappiamo che il controllo della mediazione non è in nostro potere, è importante capire come nel movimento delle donne molte, con le loro pratiche politiche, non hanno smesso di parlare dell’aborto.
Per questo non ci basta l’idea di una manifestazione (magari muta, senza cartelli o slogans), ma vorremmo discutere insieme che cosa significa comunicare socialmente con le donne sul tema dell’aborto oggi. Poniamo questo problema perché ci continuiamo a sentire in bilico fra senso di colpa, nei confronti delle donne che muoiono di aborto, e impotenza. Se è vero che il dramma dell’aborto assottiglia le differenze di classe, in quanto violenza sul corpo delle donne, è anche vero che le condizioni materiali (potere, denaro, informazione) continuano a dividerci. Non condanniamo l’ipotesi del referendum, anche se preferiamo in questo momento considerare la forza di stimolo per ottenere la legge o di strumento valido se la legge non passasse.
Oltre la legge, vogliamo capire alcune contraddizioni che rispetto all’aborto sono emerse: come presa di coscienza che può modificarsi ed essere comunicata ad altre donne. Secondo noi l’aborto libero è un diritto per tutto. Ci sono donne che vorrebbero controllare la casualità con cui oggi rimangono incinte, una specie di condanna che grava sul corpo femminile. Molte sono le donne che rifiutano un rapporto monogamico, non tollerano la contraccezione e pure vogliono una sessualità libera, la sessualità libera non deve avere alcun legame con la maternità anche se sappiamo che è molto difficile leggere il confine rispetto alla nostra falsa coscienza.
Il punto fermo, ci sembra sia comunque l’autodeterminazione delle donne, pur vedendone tutta la problematica: infatti se è un obiettivo per cui lottare, il suo contenuto apre nuove contraddizioni.
Autodeterminazione significa «scegliere liberamente», ma che vuol dire «liberamente»?
Intanto rispetto ai sensi di colpa che ci investono perché c’è un bambino che non nasce. Dunque trasgrediamo ad una norma che indica come destino la maternità; neghiamo all’uomo l’affermazione della sua legge, «la legge del padre»; eliminiamo ogni possibile modificazione biologica del nostro corpo. C’è poi la sensazione di una cicatrice, di una ferita, che ricomincia a far male anche dopo degli anni.
Inoltre dalle nostre storie emerge che alcune hanno vissuto l’aborto come discorso dettato esclusivamente da moti di ostilità verso noi stesse: occasione per punire la sessualità, per ricattare l’uomo di cui non eravamo «sicure» per lasciare l’uomo da cui ci sentivamo troppo dipendenti, verso il quale ponevamo una violenta domanda di sicurezza, di stabilità. Altre hanno trovato molto sollievo ad abortire in quanto l’atto rappresentava una affermazione contraria al modello femminile tradizionale. Ci sono poi molte donne del movimento la cui presa di coscienza è iniziata mettendo in crisi il rapporto con l’uomo e il modo in cui avevano vissuto la propria sessualità: questo le ha portate a rinviare la domanda di maternità che torna adesso con la nostalgia di, «aver rinunciato a qualcosa». Nella storia dell’emancipazione (ripetuta in parte dal movimento), i figli significavano un impedimento alla realizzazione di sé e alla possibilità di partecipare ad un progetto di trasformazione sociale.
Torna, rispetto all’aborto, a proporsi un legame non chiaro fra maternità e sessualità, o piuttosto, fra genitalità e sessualità, sempre mediato dall’uomo, per cui i figli si fanno o non si fanno «per lui».
Se, infatti, da un lato esistono i contraccettivi che risolvono una faccia della scelta, dall’altro, ad un livello profondo, esistono spinte poco razionalizzabili, ma altrettanto reali e corrette.
Per esempio: ad alcune di noi piace che esista un margine di casualità rispetto alle dinamiche del proprio corpo, cioè che le dinamiche non vengano tutte risolte da una soluzione preventiva. Per altro l’uso della fecondità rientra nel gioco della coppia: «Adesso ti faccio un figlio, così ottengo la prova che non sono sterile, poi con l’aborto la cancello ma rimane aperta per il futuro la mia possibilità di diventare madre».
Comunque, per molte, la maternità resta lo sbocco della sessualità: eppure non è sempre vero che il bisogno di gravidanza porti con sé quello di avere dei figli, di costruirci sopra un progetto di famiglia. Piuttosto questo bisogno rimanda ad un antico e irrisolto legame di ognuna di noi con la propria madre e con le donne. Se dunque è ben riconoscibile nell’aborto il conflitto uomo donna, viverlo unicamente come soluzione igienico-sanitaria, rischia di essere l’ennesima accettazione di una proposta maschile dove la nostra sessualità deve negare la voglia di figli, riflettendo ancora una volta solo i desideri dell’uomo. Ma sappiamo che se i figli nascono, l’uomo chiede alla donna di farsi mediatrice del suo ruolo paterno, oppure cerca di prolungare attraverso i figli la sua possessività nei confronti della donna o pretende di trovare nella paternità una ricompensa all’immagine pubblica che gli si sta sgretolando. È poi difficile conciliare il punto di vista di quelle tra noi che vogliono un figlio per amore di un uomo e quelle che invece lo vorrebbero per un loro bisogno. Mentre esistono donne che non desiderano figli ma rifiutano di essere giudicate per questo delle non-donne. Ci sembra che l’autodeterminazione riguardi anche l’accettazione dello stare da sole. Per chi decide, giustamente, che la solitudine non si risolve facendo un figlio e per chi non vuole spartire con l’uomo il modo di vivere la propria maternità. La richiesta di complicità maschile sarebbe una ratifica ulteriore del suo potere. Ma non vogliamo neppure che ci venga delegata in blocco l’affettività: come se un figlio l’uomo lo potesse amare solo finché ama la donna che l’ha procreato.
Autodeterminazione soprattutto vuol dire rivendicare il diritto alla indeterminatezza: nel «dentro» delle storie «femminili» qualsiasi certezza è fittizia proprio perché legata al terreno ambiguo dell’affettività dove pesa fortemente l’inconscio con un suo linguaggio che segna i comportamenti di ogni donna. Così l’autodeterminazione, se si conclude con una scelta di maternità, apre nuovi problemi. Il figlio lo vogliamo «per noi», ma non ci sta bene diventare madri «a tempo pieno». Allora con chi lo dividiamo, senza ricadere nella dipendenza affettiva dall’uomo, senza prolungare all’infinito lo stato funzionale, simbiotico, con il figlio, senza ricercare nei servizi sociali solo un parcheggio?