dialogo
alla scoperta del segreto di un’atleta
a colloquio con Mabel Bocchi della nazionale femminile di pallacanestro, una delle giocatrici più famose d’Europa.
“lo sport alla donna può offrire l’indipendenza, non l’emancipazione”
«A cosa sono servita? A dimostrare che lo sport non rovina il fisico femminile. Ecco: sono stata un emblema che sventolava la possibilità per la donna di fare sport senza snaturarsi. Sono servita a cancellare la “classica” immagine della sportiva, una donna goffa, complessata e senza personalità».
Così Mabel Bocchi, 26 anni, una fra le migliori giocatrici di pallacanestro in Europa, descrive il suo ruolo in senso lato “sportivo”. Ecco anche il perché della sua importanza. Mentre all’estero una sportiva è solo una sportiva, la sua scelta di praticare un’attività fisica non viene sottoposta ad alcun esame esistenziale, in Italia, le, spiegazioni, i “perché” necessitano una risposta.
Insomma: cosa si nasconde dietro una giocatrice di basket, per di più bella e famosa? Quale mistero cela il suo dedicarsi ad uno sport competitivo? Esiste un segreto che il pubblico non conosce, allo svelarsi del quale si potrà dire: “l’avevo immaginato”? Che questo segreto sia nella sua infanzia? «Ho iniziato a fare sport a 14 anni, con l’atletica, e precisamente con il salto in alto. Mi piaceva muovermi, ne sentivo la necessità. Poi ho continuato con il basket e sono subito entrata in prima squadra. Ricordo che per tutto un anno mi sono allenata singolarmente. Non davo all’attività sportiva un significato particolare».
L’avevi scelta tu o era in qualche modo un’aspirazione della tua famiglia?
«All’inizio in effetti mia madre mi seguiva molto, mi ‘ accompagnava agli allenamenti, mi veniva a prendere, mi seguiva come tifosa, era una mia sostenitrice. Però quasi subito mi sono stancata di questo ruolo da “bambina” e le ho chiesto di non seguirmi più, almeno in quel modo. Mi domandi se c’è stata una mia identificazione con il modello maschile, vista l’esiguità delle donne che fanno sport? Forse un po’ c’è stata, ma circoscritta al periodo iniziale dell’attività sportiva: mi atteggiavo da “maschiaccio”, vestivo in un certo modo (trasandato), senza mai rifiutare però il mio sesso. Né sentivo l’esigenza di nasconderlo». Sarà nell’essere “personaggio pubblico” il segreto di Mabel? Il significato di donna libera e emancipata me l’hanno dato gli uomini. Il modello di sportiva “brava e bella” me l’hanno dato sempre loro. Perché non c’è nulla da fare, l’opinione pubblica nello sport è costituita soprattutto dagli uomini. Ma sapessi quanto l’ho pagata questa immagine: con la mia emarginazione da parte delle altre, delle mie compagne di squadra. Dicevano: “Possibile che la stampa parli sempre di te, della Bocchi, sia che tu giochi bene o male, l’attenzione è sempre per te. Qualunque cosa tu faccia sei sempre sui giornali, per te c’è sempre spazio”. Così quando sono ritornata in squadra, dopo una lunga assenza dovuta ad un incidente, anche serio, invece di trovare dell’affetto (e una in quei momenti ne ha bisogno) ho trovato il gelo. Ho tirato avanti tutto l’allenamento da sola, senza dire una parola, ma alla fine non ce l’ho fatta più e mi sono avvicinata alle mie compagne dicendo: “noi dobbiamo parlare”. Ed è venuto fuori tutto quello che ti ho detto. Ma che colpa ne ho io se i giornalisti sono sempre pronti a scrivere su di me. Perché non se la prendono con loro? E sai cosa mi aspetta in campo, nelle partite di campionato, visto che sono l’atleta della squadra più rappresentativa? Sai cosa urlano dalle tribune: “lì in mezzo al campo c’è un filo d’erba… Bocchi di merda…”. Insomma la mia celebrità, anche se non l’ho chiesta, la devo pagare. E non solo nello sport ma anche nei rapporti personali con gli altri. Sono angosciata da questa “fama” e mi chiedo continuamente se le persone che mi frequentano lo fanno perché sono veramente interessate a me o solo al fatto che sono famosa. Anche nel rapporto con l’uomo chiedo continue garanzie di non essere usata come un prodotto, garanzie che finiscono magari per uccidere e per nevrotizzare qualsiasi rapporto. Perché in una maniera o nell’altra certi tipi di uomini ti fanno sempre scontare il fatto che tu sei più importante di loro. Esercitano il potere del disprezzo deprezzandoti, naturalmente non tutti, in un certo senso è la loro rivalsa. Come donna certi interrogativi me li sono posti: la sessualità, la discriminazione, ecc. Tanto che ho pensato per, molto tempo di essere frigida, l’unica ad esserlo al mondo. E mi sono anche accorta che a parità di presenze in “nazionale”, gli uomini erano trattati meglio di noi, sia del punto di vista dell’assistenza tecnica sia dal punto di vista economico. Per tutte queste cose mi sono ribellata. Alcune mie compagne mi accusano di non pagare troppo la mia ribellione, quasi mi fosse concessa. Come se non mi fosse costata! La verità è che io non ho mai identificato la mia sorte con lo sport e ho cercato nella vita di darmi altri strumenti; ecco perché anche nello sport ho potuto fare delle scelte consapevoli senza rimanere schiava degli schemi. Questo non vuol dire che io non abbia pagato le mie scelte. Dalla federazione del basket sono apertamente osteggiata, A favore dello studio inoltre ho spesso rinunciato alle presenze in nazionale. Infatti il mondo sportivo può aiutare ad ampliare i confini geografici ma può anche contribuire a limitare gli orizzonti mentali della donna (già ben definiti dalla cultura). L’importante è conoscere e provare. L’aggressività e tutto il resto. Sì, lo sport dovrebbe essere diverso, tutta la società dovrebbe essere diversa. E allora è utile che le donne partecipino all’attività sportiva, che s’impossessino di questo strumento. Quanto agli alti livelli, lo sport fa più male che bene. Guarda me: tre operazioni al ginocchio, un male alla schiena dolorosissimo».
Come hai affrontato l’esperienza sportiva fuori del campo? Intendo la tua partecipazione alla «Domenica Sportiva», ai vari convegni e premi. Come ti sei posta rispetto alla pubblicità che ti ha sbandieralo come un prodotto emancipatorio da usare tutte le mattine?
«La mia presenza alla “Domenica Sportiva” è andata così: prima mi passavano solo le frasi che dovevo leggere, poi ho iniziato a partecipare maggiormente, scrivendomi da sola le notizie che dovevo comunicare. Si dirà che forse è poco. Ma in questo tipo di struttura gestita dagli uomini è possibile solo un intervento di tipo personale. Anche perché le altre atlete non sono affatto sensibili a questo problema. A loro, e intendo alla maggior parte di loro, interessa solo ricavare il massimo profitto personale.
La pubblicità che ho fatto a Cori mi è servita per capire che bisogna stare molto attente. Sai quanto pagavano per quella pubblicità? Un milione. E sai chi se l’è preso? L’agente pubblicitario. A me ha dato 250 mila lire senza dirmi quanto fosse la vera entità della somma. Partecipare ad una realtà serve anche ad accorgersi di questo. Mi hanno anche offerto di posare nuda. Evidentemente il genere “sportiva” a lungo ignorato, spunta fuori oggi che le vendite vanno bene. Perché non poso nuda? Non perché ne sia scandalizzata o perché pensi che il nudo sia peccaminoso. Ma semplicemente perché non condivido l’uso che ne faranno gli uomini. Sono ridicoli, non ti pare?».
Stiamo parlando in una casa ordinata, in un ambiente moderno dove nulla è fuori posto, fuori dalle finestre sonnecchia Sesto San Giovanni, sobborgo di Milano (ma sarà giusto il termine?) con 100.000 anime. Mabel è attualmente bionda, magra, e naturalmente alta. Convive placidamente con un cane e uh gatto.
« Sono volubile, lo si vede dai miei capelli: li ho avuti in tutte le fogge e li ho spesso cambiati di colore. Sarà perché sono anche insicura ma ho sempre paura di presentarmi non preparata agli appuntamenti che mi si presentano. Sono diplomata Isef e ora mi sono iscritta a Medicina. La mia insicurezza mi porta a leggere e rileggere le lezioni molte volte, forse più del necessario». Sarà nella ricerca dell’identità, il suo segreto? «Lo sport alla donna può offrire l’indipendenza non la emancipazione, quella si ottiene anche attraverso altri canali. Io sono indipendente economicamente dai 16 anni, ma per tutto un periodo ho vissuto protetta nell’ambiente della mia società sportiva. Protetta nel senso che mi era riconosciuto non solo un certo valore sportivo ma anche un preciso status sociale. Mi veniva assegnata un’identità nella quale io mi riconoscevo e che finiva per essere la mia “unica” identità. Frequentando, per esigenze di tempo, sempre lo stesso ambiente (quello del basket) si finisce per accettare acriticamente il proprio posto nella classifica dei valori gerarchici (cioè la “più brava”) e spesso ci si allontana dalla comprensione della realtà. Né si viene messe in discussione come persone ma solo come atlete. Così, per la donna la società sportiva può diventare una seconda famiglia, un secondo guscio protettivo, che ti preserva solo in parte dalla vita reale ma che spesso non ti dà la giusta dimensione di essa. Ricordo la mia delusione iniziale quando a causa dell’incidente ho smesso di frequentare l’ambiente della squadra. Andavo all’università e nessuno sapeva chi ero. Stavo, durante il giorno, in compagnia di persone che non solo non mi conoscevano, ma ignoravano perfino cosa fosse il basket. Sul momento mi sono sentita a disagio. Non che tutti mi dovessero conoscere per forza ma ecco: l’identità sportiva di cui si parlava prima scompariva portandosi dietro anche quella personale. Frequentare un mondo che non ha i tuoi stessi problemi è utile: mi sono accorta così che non esiste solo il problema della “fama” ma anche quello dell'”anonimato”, altrettanto pesante e distruttivo nei confronti della persona. Mi sono resa conto dei miei privilegi, Quando sei dentro ai meccanismi sportivi della partita, della trasferta, dell’allenamento, del chi gioca e chi sta fuori, di come migliorare il tiro a canestro, è difficile renderti conto dei condizionamenti a cui sei soggetta. Anche se io ho un buon rapporto con la mia attività sportiva. I miei rapporti con l’allenatore sono buoni perché lo vedo esclusivamente come tale evitando di dargli altri significati. I rapporti con le altre compagne? Meno buoni. Fra le donne non c’è mai solidarietà, non mi domandare il perché: gli uomini riescono in qualsiasi occasione a solidarizzare per un nonnulla. Noi, sarà che si vive in un’ambiente agonistico, si è sempre diffidenti. A quei pochi convegni che s’interrogano sulla partecipazione femminile all’attività sportiva le atlete non vanno mai. Io, in un’occasione, ho dovuto addirittura costringere le mie compagne di squadra a parteciparvi. Ma in genere c’è il disinteresse più completo: si sfrutta e si viene sfruttati. In cambio si hanno soldi e possibilità di viaggiare. Per ora è così, sembrerà un discorso qualunquista ma la realtà non cambierebbe nemmeno se esaminassimo profondamente il perché della situazione».
In cucina dove siamo sedute scende uno strato di silenzio appesantito dall’impotenza: Mabel lascia ciondolare le gambe dalla credenza sulla quale si è appollaiata. Io mi accartoccio sulla sedia sbriciolando, per reazione, un biscotto. Tentiamo varie sortite per liberarci dalla cappa della rassegnazione; riesce quella al bar. Perché “l’atleta” Mabel Bocchi non solo si trucca e veste con gusto, non solo si diverte a ballare e ad ascoltare frequentemente musica, non solo fuma, ma beve anche centinaia di caffè al giorno. Probabilmente vuole essere sicura che la caffeina raggiunga le estreme propaggini del suo corpo. Quanto al mangiare è raro che stia in casa. Questo, secondo me, spiega poco “sportivamente” il perfetto ordine della casa. Lo schema delle sue giornate è vario, per conformarsi alle esigenze dell’allenamento (mattino e pomeriggio) in vista di competizioni particolarmente importanti, E quel famoso segreto che dovrebbe spiegare tutto, che sia nascosto fra le pieghe del cuore? «Non potrei sopportare di vivere stabilmente, sotto lo stesso tetto, con un uomo. Mi piace l’indipendenza e la rivendico anche nelle amicizie, che a volte nascondono legami morbosi molto forti. Del chiedere continue garanzie alla persona che sta con me ti ho già parlato prima, In più esigo fedeltà, non s’illudesse di fare i suoi comodi…». La guardo sconcertata, la sua voce ha avuto un tono pia alto; minaccioso. Siamo in piedi nel corridoio, sul muro la sua gigantografia con la scritta «Solo donna» appare sotto altra luce.
«Mi dicono tutti che sbaglio, che me ne pentirò, tu cosa pensi? Ho un rapporto sentimentale con un ragazzo (giocatore di basket anche lui) che ha otto anni meno di me: va ancora al liceo. Figurarsi i commenti dell’ambiente! E ti assicuro che non gli faccio da madre, né lo mantengo. Sì, sono aperta, ma odio le smorfiose: quelle che fanno determinato uso della loro bellezza, quelle che gli ronzano vicino. Dicono che è un rapporto senza futuro, che verrò messa da parte dalle sue coetanee. Vorrei che non succedesse. Non sopporto l’insincerità e l’infedeltà. Se solo mi ha nascosto qualcosa… Piuttosto che essere piantata, lo pianto io. Ho fatto sempre così. Ti meraviglia il fatto che io sia gelosa? Non te l’aspettavi?».
No. E nemmeno che ci fosse un segreto.