antropologia

natura, cultura, femminismo

esiste un intreccio fra impegno politico femminista e rigore scientifico che porta a riesaminare criticamente tutte le ipotesi delle scienze sociali.

ottobre 1979

in questi anni, discutendo di antropologia con le donne e fra le donne, si è spesso fatto riferimento agli studi condotti da femministe americane e inglesi; ma, nonostante la “voga” del femminismo, la politica editoriale aveva trascurato di tradurre questi testi e studi. Sul mercato italiano erano disponibili, salvo rare eccezioni, due tipi di libri: le opere di autori fondamentali dell’antropologia classica e anche contemporanea, spesso testi di riferimento centrali per lo stesso dibattito femminista (Lévi-Strauss, Godelier, Meillassoux, da una parte; i “classici” americani e inglesi, e anche molti testi recenti — Turner, Marvin Harris, Goody, ecc. — dall’altra), e alcuni testi italiani, spesso di donne, spesso di “rassegna critica” delle ricerche antropologiche sulla donna. Che ci fosse, in Francia e nei paesi anglosassoni, un dibattito fra studiose e ricercatrici impegnate nel movimento delle donne, si sapeva più che altro “per sentito dire”, fuori della cerchia delle addette ai lavori disposte a leggersi e a procurarsi (faticosamente) i testi originali. Eppure esistevano riviste, articoli, testi monografici e, specie negli Usa, raccolte di saggi di donne antropologhe di estremo interesse. Non voglio formulare ipotesi maligne <e forse gratuite) su questo “buco” editoriale: certo è che una traduzione massiccia di queste ricerche potrebbe elevare molto il tono del dibattito su “donne e antropologia” in Italia, evitando che si continui a girare a vuoto su problemi e ipotesi altrove già affrontati e analizzati, o a riscoprire continuamente l’acqua calda. A parte il meritorio lavoro compiuto dalla rivista nuova DWF, che ha tradotto e continua a tradurre alcuni di questi saggi, c’era dunque ben poco; è quindi evidente l’utilità della raccolta di saggi inglesi e americani pubblicata, a cura di Rosaria Micela, da Savelli: Oppressione della donna e ricerca antropologica – Immaginario e realtà nella subordinazione femminile. Speriamo che il prezzo un po’ alto del libro (7.500 lire) non costituisca un ostacolo alla sua diffusione.

I sei saggi raccolti nel libro (tutti, tranne uno, di donne) hanno diversa origine: tre (Rosaldo, Sacks, O’ Laughlin) facevano parte di una raccolta (Wo-man, Culture and Society, Stanford University Press 1974) che è uno dei prodotti più interessanti della “antropologia femminista” americana; gli altri tre (Rapp Reiter, Aaby, Molineux) sono tratti da un numero monografico sulle donne della rivista inglese Criti-que of Anthropology. “La scelta operata” — osserva Rosaria Micela nell’introduzione — “risponde da un lato all’esigenza di ricostruire uno spaccato problematico di questo settore della ricerca e una sua linea interna di sviluppo, dall’altro all’esigenza di evidenziare il nesso fra elaborazione teorica e problematica politica del movimento femminista” (p. 14) L’impegno politico e il lavoro di ricerca a livello universitario sono comuni a tutte le autrici/autori compresi nell’antologia, ma sono immediatamente evidenti le diversità di impostazione teorica e le differenti matrici culturali; da questo punto di vista, la raccolta esemplifica bene i diversi approcci e metodologie presenti nella antropologia “femminista” anglosassone. L’operazione di Karen Sacks, ad esempio, è sostanzialmente una rilettura critica di Engels, un tentativo — forse non del tutto riuscito — di attualizzare le tesi “classiche” engelsiane alla luce dei contributi dell’antropologia moderna. I saggi di Peter Aaby, di Maxine Molineux e sopratttuto di Bridget O’Laughlin, invece, si ricollegano direttamente alle ricerche contemporanee sui modi di produzione non capitalistici, e in particolare ad autori francesi come Meil-lassoux, Terray, Godelier. Il taglio del saggio di Rayna Rapp Reiter (sulle “origini” della ineguaglianza fra i sessi) può apparire più esplicitamente “politico”, legato alla esigenza di rispondere a domande che la pratica femminista pone in continuazione. A mio avviso, pecca forse di un eccesso di ambizione, rischiando di voler affrontare troppi problemi insieme; del resto, il rapporto fra ricerca scientifica e pratica politica è estremamente complesso, e sarebbe forse il caso, prima di tentare — sia pure in via ipotetica — delle “risposte”, di analizzare criticamente le domande stesse che ci poniamo o che ci vengono poste dal movimento, cercando di ribaltare, prima ancora delle ipotesi e delle metodologie, l’ordine delle “questioni” imposto dalla cultura maschile. In questo modo scopriremmo forse che lo stesso problema delle “origini” della subordinazione femminile è, se non un falso problema, quanto meno un problema mal posto… In ogni caso il tentativo della Reiter è tutt’altro che banale, e potrà fornire numerosi spunti di discussione. Il testo di Michelle Zimbalist Rosaldo (Lavoro domestico e attività pubblica: sul ruolo sociale dei sessi) si stacca nettamente dagli altri, per un più immediato ed evidente legame con la tradizione dell’antropologia culturale americana, e con la Mead in particolare. L’autrice si propone di “collegare le asimmetrie universali nelle attività e nelle valutazioni culturali di uomini e donne a una opposizione strutturale universale fra sfera domestica e sfera pubblica”, e sostiene che “le donne appaiono oppresse o prive di valore e di status nella misura in cui sono relegate in attività domestiche, tagliate fuori dalle altre donne e dal mondo sociale degli uomini. Le donne acquistano potere e senso del proprio valore quando riescono a oltrepassare i confini domestici, o penetrando nel mondo degli uomini o creandosi una propria società… Le società più egualitarie non sono quelle in cui gli uomini danno valore alla vita domestica e vi partecipano”. <p. 54). L’articolazione di questa ipotesi di fondo attraverso una documentazione e una casistica ricchissime rende il saggio particolarmente interessante, al di là di dubbi legittimi sui tagli teorico-metodologico e sulle stesse conclusioni dell’autrice. Come osserva infatti Rosaria Micela nella introduzione, sancire la dicotomia “privato/pubblico”, considerandola in grado di spiegare la subordinazione femminile, porta in: sostanza a riproporre l’ideologia di una “naturalità” dei ruoli di maschio e femmina. Si può quindi, in certa misu-critica di fondo all’impostazione “cul-turologica” dell’antropologia americana. Citiamo la Micela; “Proprio mei ra, applicare anche a questo saggio la momento in cui l’antropologia, a partire dagli anni ’20, si propone di combattere la definizione esclusivamente biologica dei ruoli sessuali, in sostanza viene ad attribuire implicitamente alla diversità fra i sessi una connotazione universalistica, Il fatto di avere interpretato la differenza come culturalmente determinata, se ne ha messo in luce l’elemento non-naturale, non ne ha tuttavia disoccultato la valenza profondamente storica e materiale. Manca, nelP elaborazione antropologica americana, il nesso fra sistema di relazioni sociali di un gruppo e grado di ineguaglianza culturale fra maschio e femmina, al fine di collocare la questione della gerarchia fra i sessi all’interno di rapporti di potere specifici esistenti in quel gruppo” (p. 12). E’ proprio in quest’ultima direzione che si muovono, invece, i saggi di Aaby, della Molineux e della O’Laughlin. Il rimando alla divisione del lavoro e ai rapporti di produzione come fondamento anche del rapporto ! fra 1 sessi, della “asimmetria” fra i sessi, consente qui di fare i conti con qualsiasi visione astorica e universalizzante dei ruoli di maschio e femmina. Diviene esplicita la critica noti solo alla impostazione dell’antropologia culturale americana, ma anche alle teorie strutturaliste (legate all’opera di Lévy-Strauss) che vedono nello scambio delle donne (espresso nel tabù dell’incesto) il fondamento universale della cultura e del perpetuarsi delle relazioni sociali. Quest’operazione critica riesce particolarmente bene nel saggio della O’Laughlin (La mediazione della contraddizione: perché le donne Mbum non mangiano pollo). Attraverso l’analisi di un caso particolare, da lei studiato personalmente, “sul campo”, l’autrice riesce a fornire elementi validissimi di critica alle teorie lévi-straussiane. Si parte dall’esame di alcuni tabù alimentari che si applicano alle donne e attraverso l’analisi dei rapporti di produzione e riproduzione esistenti in quel gruppo sociale, si esplicita il legame e la sovrapposizione tra rapporti di produzione e rapporti di parentela, arrivando a conclusioni analoghe a quelle di M. Godelier circa le società “primitive”, dove rapporti di parentela, struttura e sovrastruttura, esistono come diverse funzioni dei medesimi rapporti sociali: in altre parole, i rapporti di parentela funzionano come rapporti di produzione, e viceversa. La tesi di Godelier è ormai nota, grazie anche alle numerose traduzioni delle sue opere; ma qui l’analisi serrata di uno specifico “caso” la rende particolarmente feconda,. evidenziando, come osserva la Micela, “la dinamica fra rapporti di produzione / ideologia / simbolico”, e consentendo “di cogliere, a livello delle categorie, i nessi fra i fondamenti materiali su cui poggia il ‘dominio’ maschile e la creazione di immagini che ne rendono possibile l’accettazione e la riproduzione” (p. 21). Servendosi di una metodologia rigorosa, che intreccia l’approccio storico e quello sincronico, la O’Laughlin arriva a mostrare che “matrimonio ed economia nella società Mbum non sono… sistemi di comunicazione separati e paralleli aventi in comune strutture profonde e legati soltanto da trasformazioni metonimiche” (come affermava Lévi-Strauss), ma sono “componenti di un unico sistema di produzione sociale” (p. 97). Ciò consente di uscire dalla ricerca di spiegazioni psico-fisiologiche della “universale” subordinazione delle donne agli uomini, per volgere invece l’attenzione alle condizioni che consentono il perpetuarsi di tale subordinazione, cioè alle condizioni di riproduzione di un particolare insieme di rapporti sociali di produzione. E questo è, anche, una conclusione politica: in altre parole, il saggio della O’Laughlin è una delle migliori dimostrazioni della possibilità di un intreccio fecondo tra impegno politico e rigore scientifico, che conduce a riesaminare criticamente tanto le conclusioni (e le ipotesi) delle scienze sociali, quanto le impostazioni (e gli interrogativi) politiche del movimento delle donne. Sotto questo profilo, le considerazioni dell’autrice sul problema delle “origini” della subordinazione della donna mi sembrano esemplari. “Si può immaginare facilmente (ma non altrettanto facilmente ricostruire scientificamente) uno stadio di sviluppo delle forze produttive materiali in cui la vulnerabilità femminile durante la gravidanza e l’allattamento prolungato può aver condotta all’affermazione del controllo maschile sulle forze produttive. Ma queste ricerche dell’origine — siano fantasiose o scientifiche — sono spesso di carattere essenzialmente mitico: nelle dispute che partono dalla genesi la spiegazione dell’ineguaglianza nell’ordinamento sociale attuale può diventare una sua giustificazione. Il problema più importante è come, in un ordinamento tecnologico più avanzato (forse quello degli Mbum Kpau, certamente quello dell’Occidente industrializzato) tali strutture di predominio maschile si riproducano” (p. 97).

 

“Il fatto di avere interpretato la differenza come culturalmente determinata, se ne ha messo in luce l’elemento non-naturale, non ne ha tuttavia disoccultato la valenza profondamente storica e materiale.”