energia nucleare

una paura razionale

il coraggio di dire «siamo antinucleari in quanto è immorale risolvere i problemi della nostra generazione a spese di innumerevoli generazioni future».

ottobre 1979

quelli che si preoccupano dei rischi del nucleare vengono trattati, generalmente; come persone dotate di singolare emotività; come persone che rifiutano di «convivere con la tecnologia» accettando, insieme ai vantaggi che la tecnologia offre, anche le inevitabili contropartite di rischio. E vengono «richiamate alla realtà» con la considerazione che, per esempio, le automobili provocano ogni anno assai più morti di quanti ne abbia provocati complessivamente l’impiego pacifico dell’energia nucleare, eppure nessuno pensa di vietare la produzione di automobili, eccetera. E gli «specialisti» documentano — testi alla mano — che mai nessuna tecnologia è stata oggetto di indagini sulla sua pericolosità così massicce e documentate come lo è la tecnologia del reattore termonucleare; e documentano che nessuna situazione di pericolo è così accuratamente prevista, calcolata, prevenuta, come lo è il più grave dei possibili incidenti del reattore, la «fusione del nocciolo». Ancor più dopo l’incidente di Pennsylvania, della primavera scorsa, si chiedono supplementi d’indagine sulla sicurezza, studi analitici dell’incidente avvenuto, e via dicendo.

Ma tutto questo non tiene conto di due fatti estremamente importanti: il primo è che il sistema nucleare non è costituito solo di reattori, ma è, per l’appunto, un «sistema», Il reattore è solo «un momento del sistema». Prima del reattore c’è l’attività mineraria di chi scava dalle viscere della terra il minerale di uranio, poi c’è l’attività di chi lavora il minerale per ricavarne l’uranio, c’è chi prepara il combustibile, chi lo immagazzina, chi lo trasporta verso i reattori. Dopo il reattore c’è il primo stoccaggio delle scorie, poi c’è il loro trasporto verso luoghi di raccolta e ritrattamento, poi c’è il loro immagazzinamento definitivo. Il reattore è stato minuziosamente indagato sotto il profilo dei possibili incidenti, esistono ormai biblioteche di dati e di studi su tutto quello che può accadere nel reattore. Ma dove sono gli studi e le indagini sul sistema nel suo complesso? Sugli incidenti che possono aver luogo a monte dei reattore e a valle del reattore? Il sistema, nel suo complesso, è pochissimo indagato: e anche le commissioni di studio che sono state insediate dopo l’incidente di Pennsylvania non faranno che approfondire per l’ennesima volta i problemi del reattore, mentre nulla è stato loro chiesto sull’insieme del sistema. E’ come se la sicurezza dell’automobile continuasse a venire studiata sotto il profilo del freno, senza occuparsi né dello sterzo né dei pneumatici. E se qualcuno si preoccupa dello sterzo, gli «specialisti» gli rispondono promettendogli — visto che sullo sterzo non sanno niente o quasi — che raddoppieranno l’attenzione dedicata al freno.

i rischi durano più dei benefici

Il secondo fatto importante, sul quale qualcuno vorrebbe che non si fermasse l’attenzione, è che non esiste proporzione accettabile fra le dimensioni dei benefici della tecnologia nucleare e le dimensioni dei rischi che essa porta con sé. E’ evidente che il confronto tra i rischi e i benefici è sempre difficilissimo da l’are, per tutte le tecnologie, ed è molto difficile, per non dire impossibile, mettersi d’accordo su una valutazione che abbia caratteri di «oggettività». Ma, per audace che possa sembrare l’affermazione, si può affermare che per ciò che concerne il nucleare queste difficoltà non sono grandi; e tanto meno sono insormontabili. Riflettiamo alla «dimensione tempo», e misuriamo in termini di tempo i rischi e i benefici. I benefici del sistema nucleare per la produzione di energia elettrica hanno una durata temporale assai limitata: se nel 1980 si desse inizio all’iter per la costruzione di una centrale nucleare, essa potrebbe cominciare a funzionare a pieno regime nel 1990; dopo 25 anni, cioè nel 2015, dovrebbe venire abbandonata perché pericolosa, dato il livello di radioattività cui saranno stati esposti i materiali; però non potrebbe venire sostituita in quanto a quell’epoca la disponibilità di uranio sarà così scarsa da rendere molto problematica la redditività di nuovi investimenti nel settore; anzi, è molto probabile che l’assottigliarsi delle riserve di uranio comincerà già verso il 2000 a creare i gravi problemi (economici, diplomatici, militari) che oggi vediamo accompagnare l’assottigliarsi delle riserve di petrolio. Di fronte a uno scadenzario di scadenze così ravvicinate (1980, 1990, 2000, 2015) stanno i tempi lunghi della pericolosità delle scorie radioattive, che bisogna calcolare in “decine di migliaia di anni”. Nel 2015 si esauriranno i benefici della tecnologia elettronucleare, ma nel 22.015 ci sarà ancora gente alle prese con le mappe dei depositi di scorie, per calcolare esattamente il tracciato di una strada o la rotta di un aereo, in modo tale da evitare i pericoli disseminati nell’ambiente dalla nostra generazione. La sproporzione tra la durata dei benefici e la durata dei rischi è inaudita: nella storia della nostra specie non ha mai avuto luogo una scelta volontaria caratterizzata da costi così elevati (si pensi che una massa di plutonio non più grossa di un pompelmo contiene tante dosi mortali da poter uccidere tutta l’umanità), da un protrarsi così lungo di una situazione di pericolo (decine, di migliaia di anni), e dall’irrevocabilità (una volta che il plutonio si è formato, nel processo di fissione, non vi è più modo di modificarlo: almeno, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche). Settori sempre più vasti dell’opinione pubblica, colpiti da queste caratteristiche del tutto nuove della tecnologia nucleare, si convincono che si tratti di una tecnologia alla quale si deve rinunciare al più presto, tanto più in quanto fra 30 anni vi si dovrà rinunciare per forza, per la scarsità di uranio). Questi settori dell’opinione pubblica vengono variamente derisi come: emotivi; irrazionali; moralisti: misticheggianti; privi del senso della storia in quanto incapaci di rammentare che l’umanità non ha mai rinunciato a ricavare da una tecnologia tutto l’utile possibile, e ciò che non è mai accaduto non potrà mai accadere.

Il livello culturale di queste obiezioni è piuttosto desolante. Vi si ravvisa anzitutto l’incapacità di’ immaginare che i criteri di scelta, nell’agire umano, possano mai essere diversi dalle valutazioni economiche, di immediata utilità pratica. Si tratta di un provincialismo culturale molto angusto: in realtà l’utilità pratica come esclusivo criterio di scelta nelle azioni umane occupa una provincia temporalmente e spazialmente piuttosto ristretta della storia dell’umanità: ha caratterizzato lo sviluppo capitalistico, è vero; ma lo sviluppo capitalistico non coincide con la storia dell’uomo, e siamo in molti a sperare che non ne costituisca la conclusione, Quanto al principio che «ciò che non è mai accaduto non potrà mai accadere», esso è stato innumerevoli volte sostenuto, e sempre fallacemente. Costituisce, esso sì, quanto di più «antistorico» si possa immaginare.

Il lungo dominio del capitalismo ci ha disabituati alla presenza di motivazioni etiche fra le molte e diverse motivazioni delle scelte umane: chi viene colto a compiere una scelta etica viene deriso o compatito. Ci vuole quindi un certo coraggio intellettuale per rivendicare il carattere etico delle proprie azioni. Per dire «siamo antinucleari in quanto è immorale risolvere i problemi della nostra generazione a spese di innumerevoli generazioni future». (Ipotizzando ciò che ancora è da dimostrare: e cioè che la scelta nucleare possa risolvere qualcuno dei nostri problemi).