care compagne

marzo 1976

il questionario pubblicato nel n. 1 di EFFE è nato da una crisi. Crisi di EFFE, innanzitutto, ma anche del movimento, costretto dalla vertiginosa crescita numerica a misurarsi con due problemi di fondo: la gestione politica di questa crescita e la reazione del sistema al trasformarsi del femminismo da movimento d’elite a movimento di massa,

È proprio questo passaggio di status, dai piccoli gruppi di cinque anni fa al movimento di oggi, che appartiene ormai a migliaia e migliaia di donne, cioè la forza stessa delle cose, a imporre il problema della gestione politica, che è insieme di contenuti e di strategia (la necessità di approfondire la ‘ rosa ‘ di temi che ruota intorno all’asse centrale della questione femminile: cioè l’intersecazione tra sfruttamento di classe e sfruttamento di sesso; l’urgenza di andare ‘ oltre l’aborto ‘, proponendo obiettivi concreti su cui mobilitarci; il raggiungere questi obiettivl, attraverso quali alleanze, pur mantenendo salda l’autonomia del movimento; i rapporti con le organizzazioni politiche, in particolar modo della sinistra, cioè con quella fetta di potere istituzionalizzato che sta per sostituirsi, lo speriamo tutte, al decrepito e torbido «autunno dei patriarchi DC»). Ed è lo stesso denominatore comune — la nostra crescita, quindi la sempre più concreta possibilità di incidere — a causare la ‘ risposta ‘ del sistema. Risposta complessa in cui confluiscono la viscerale paura della piccola borghesia e l’ironia condiscendente della borghesia illuminata, gli esagitati esorcismi della gerarchia ecclesiale e la corsa sfrenata, negli ambienti radical-borghese-chic, a saltare sul carro vincente, l’interesse degli intellettuali al fenomeno-donna e lo stato di confusione, di sgomento di milioni di persone che, non possono più ignorare il femminismo. L’arma con cui la classe dominante tenta di esorcizzare l’avanzata del movimento è duplice: la repressione e il recupero. Alla prima si fa ricorso con parsimonia (dopotutto siamo in una società che deve salvare la faccia delle libertà borghesi, e poi la repressione crea i martiri e i martiri, Ecclesia docet, nuove ondate di proseliti) e soltanto in occasioni particolari. Il recupero, invece, è usato a piene mani, perché è la carta che offre maggiori probabilità di successo: arma più flessibile della repressione, è il nemico per noi più temibile, perché meno individuabile, capace di insinuarsi dovunque, abile nel trarre vantaggio dalle lacerazioni e contraddizioni che segnano il movimento. E se noi non ci aspettiamo — come scrive Alberoni su L’Espresso del 14 marzo in un articolo dal significativo titolo «Qualcuno vuole rapire le femministe» — che questo sequestro del femminismo venga operato addirittura dalla Chiesa che dovrebbe, secondo il Nostro, risucchiarci senza troppi problemi «forte della sua esperienza secolare di movimenti e ordini femminili», non sottovalutiamo certo i pericoli impliciti in questo recupero, soprattutto nella espropriazione dei nostri temi che vengono restituiti, stravolti e svuotati del loro contenuto rivoluzionario, al Grande Pubblico attraverso la Grande Stampa Nazionale e 1 mass media (TV inclusa). E se escludiamo — sempre in riferimento ad Alberoni (per inciso, a pontificare sui destini del femminismo sono sempre i maschi) — che il movimento stia piombando dall’eden dello ‘statu nascenti’ (la fase, scrive il sociologo, «eroica, radicale, entusiasta») nel baratro della istituzionalizzazione, scegliendo come sede la Chiesa, che, essendo in piedi da duemila anni, si qualifica come Istituzione per eccellenza, siamo lontane dal credere che il movimento possa andare avanti per forza d’inerzia, lasciandosi sospingere dagli eventi invece che affrontarli con una gestione politica che sbarri il passo a questo tipo di recupero. Su EFFE questi problemi si sono abbattuti pesantemente. Primo perché siamo femministe militanti; e sul fatto che riteniamo EFFE militanza non ci devono essere più dubbi. Quindi la questione del ‘ che fare ‘ ci si poneva con l’urgenza con cui si pone a tutte le altre compagne. Secondo, perché facciamo un giornale che dovrebbe funzionare come tramite tra il movimento e le donne interessate al femminismo e abbiamo quindi il problema di ‘ come farlo ‘, ‘ cosa metterci dentro ‘, e soprattutto ‘ perché farlo ‘, le domande, insomma, che vi siete trovate di fronte nel questionarlo. Tre mesi di dibattito (da settembre a dicembre) tra le compagne ‘vecchie’ di EFFE e quelle ‘ nuove ‘ per dare insieme una risposta a queste domande sono finiti in un’ennesima lacerazione (alcune compagne se ne sono andate) e in una grossa crisi.

Crisi che per molte di noi era anche di stanchezza: una gran voglia di dire basta con questo impegno che da tre anni ci strangola con le scadenze delle cambiali, le corse in tipografia all’altro capo della città, le riunioni notturne perché di giorno si lavora. Stanche, quindi, e piene di dubbi. Che senso aveva fare EFFE? ci chiedevamo. Non rischiavamo forse di diventare un’istituzione — il ‘giornale femminista’ — di autoperpetuarci per abitudine, per inerzia e perché, dopo tutto, ci eravamo identificate nel giornale mentre in effetti il nostro ruolo storico, per così dire, si era esaurito? In altre parole, forse avevamo già detto quel che dovevamo dire; scrivere certe cose tre anni fa poteva avere un senso, ripeterle oggi, no. In un momento di pessimismo nero, alla fine di gennaio, alcune di noi sono arrivate al punto di pensare con sollievo a un’eventuale chiusura. Da quel totale sconforto ci siamo risollevate: i problemi rimangono, ma ci è tornata la voglia e la forza di confrontarci con essi. Una grossa parte di questa ripresa è dovuta a voi. Alle centinaia di questionari che dall’inizio di febbraio hanno cominciato ad arrivare a EFFE, lasciandoci stupefatte e felici (< ma chi se l’aspettava? Così tanti» era il coro in redazione, mentre tutte leggevamo ad alta voce, interrompendoci a vicenda). Pagine e pagine di indicazioni, critiche, analisi e soprattutto le vostre storie, così simili alle nostre. È stato veramente ritrovarci in voi, con gli stessi problemi e anche con la stessa voglia di uscirne. Perché il questionario non era un sondaggio asettico, tanto per informarsi, per saggiare il ‘mercato’: era molto di più. Una richiesta di aiuto, un SOS, un’esigenza di confronto sui temi che più ci stavano a cuore. Non è che queste centinaia di questionari (cui dedicheremo uno dei prossimi numeri) ci risolvano i problemi intemi, ancora in gran parte Irrisolti. Ma sappiamo adesso di essere in tante ad affrontarli, sappiamo che le scelte che faremo, non saranno le nostre, del gruppo che fa il giornale, ma di tutte noi. Le strade per cui siamo arrivate al femminismo sono diverse, ma II dato che ci accomuna è l’acquisizione della coscienza femminista. Coscienza che, come scrivono le compagne del Collettivo Femminista Comunista (Commissione donne e cultura; «Contributi per un dibattito su emancipazione e liberazione») «ci ha permesso di portare la lotta ovunque, inevitabilmente, con più forza e con l’impossibilità di tornare indietro. Non si può più perdere una visione del mondo nuova, una volta che si è acquisita. È una conquista e una fatica insieme, ed è questo l’unico obiettivo reale che sia anche complessivo del problema femminile». Una coscienza che sappiamo ora con certezza di dividere con voi: che non siete le nostre ‘ lettrici ‘, ma le nostre compagne di lotta.