la f.g.c.i. e le studentesse romane

marzo 1976

con queste acute osservazioni l’Unità e i Comitati Unitari hanno commentato il primo sciopero delle studentesse romane. E noi ne vogliamo parlare perché si tratta dell’unica forza politica che si è pronunciata contro questo sciopero, dispiacendosi per la sua riuscita. Questo atteggiamento di contrapposizione alla crescita della lotta delle studentesse si era verificato anche il 10 febbraio, quando le studentesse, che protestavano perché in uno sciopero sulla riforma della scuola di FGCI, AO e PDUP gli unici accenni alle donne erano per l’abolizione delle materie inutili nelle scuole femminili (notare: inutili per la qualificazione e non perché contro la donna), sono state insultate e picchiate dal servizio d’ordine e si sono viste negare l’intervento al comizio. Quella volta ci hanno gridato isteriche e puttane, ma dopo il 18 febbraio hanno dovuto fare i conti con la nostra forza.

Perché c’è questa ostilità della FGCI verso la nostra lotta? Per prima cosa perché anche se a volte si sono occupati di noi lo hanno fatto senza partire dalla condizione della studentessa in quanto donna nella scuola, senza considerare le idee delle donne sulla cultura, sulla didattica, sull’occupazione, ma trattando il problema delle. scuole femminili come uno fra i tanti, da discutere e risolvere nelle solite strutture, tra i soliti capetti maschi ohe decidono la linea della FGCI. Negano alle loro militanti il diritto di affrontare autonomamente questa questione. Decidere in prima persona dei propri problemi secondo loro sarebbe porsi al di fuori del movimento, essere interclassiste e separatiste. E poi affrontare la lotta delle donne partendo dalle loro esigenze è in contraddizione con ciò che serve alla politica del PCI. Le’ studentesse chiedono l’aborto: bisogna frenarle, far loro capire che devono accettare una mediazione al vertice sulla loro pelle, far decidere come sempre i maschi, che come in tutte le organizzazioni hanno in mano le strutture dirigenti.

Ma dopo il 18 molte cose sono successe, L’8 marzo i CU. hanno scioperato con una piattaforma che riprendeva quasi tutti i nostri obiettivi, escluso ovviamente l’aborto libero. Una piattaforma che fino a dieci giorni prima era centrata sulla riforma e sull’occupazione. Rapida metamorfosi, dunque, dovuta al fatto che i Comitati Unitari si sono resi conto di non poter più fare finta di nulla davanti a un movimento con dei contenuti così nuovi e importanti, del quale nonostante tutto si stanno accorgendo anche le loro studentesse, che in molte scuole partecipano ai collettivi femministi, anche se in forma semi-clandestina. La metamorfosi, però, resta non convincente e superficiale. Vediamo la piattaforma: si parla di liberazione, ma affiancandola all’emancipazione; si chiedono corsi di informazione sessuale e consultori, ma gestiti dagli esperti e non dalle donne; si parla di riformare ma non di abolire le scuole femminili; si difende una generica libera maternità ma non l’aborto. Proprio per tutto ciò è stato per noi positivo poter intervenire al comizio finale dell’8 marzo, per spiegare alle studentesse dei CU. le differenze tra la nostra e la loro piattaforma. Nel nostro intervento abbiamo detto che «Lo sciopero delle studentesse ha rappresentato qualcosa di nuovo, di diverso, finalmente qualcosa di vitale. Una scadenza diversa sia per i contenuti che per le forme. La piattaforma su cui siamo scese in piazza era il tentativo di individuare obiettivi di lotta che da un lato fossero praticabili e dall’altro tenessero conto dei problemi reali che viviamo in quanto donne nella scuola. Ci siamo assunte in prima persona il peso politico e organizzativo della scadenza, senza delegare nessuno di questi momenti né alle forze politiche né alle più esperte di noi. Abbiamo parlato di abolizione delle scuole femminili perché è lì che con più violenza si ripropongono alla donna i ruoli di subalternità ohe le sono sempre stati imposti; è lì che le si «concede» di essere solo una futura buona moglie e madre. E diciamo abolizione perché pensiamo che non debbano più esserci scuole di serie B in cui siano relegate le donne. Abbiamo detto no a tutte le materie che sono contro le donne (economia domestica, galateo, etc.) e anche a tutte le altre che lo sono ugualmente, in forma. più mascherata e quindi ancora più pericolosa.

Prendiamo per esempio la storia: in essa la donna non c’è quasi mai, e se c’è il suo nome non è scritto in neretto, non è il titolo di un capitolo e nemmeno di un paragrafo; è di solito un nome di madre, moglie, figlia, amante, sorella di qualche uomo importante; 1 rari casi in cui è presentata da sola o è Cleopatra che imperversa in Egitto, o è S. Maria Coretti che difende fino alla morte la sua verginità. Proviamo a invertire le parti: prendiamo S. Maria Goretti e Cristoforo Colombo e diciamo: S. Maria Goretti, grande esploratrice, nel 1492 scoprì l’America; Cristoforo Colombo, uomo d’onore, difese la sua verginità fino alla morte, Sembra assurdo, dato che «uomo di onore» è quello che mantiene i patti fatti e «donna d’onore» è quella vergine; sono tanti gli aggettivi che al maschile significano una cosa e al femminile un’altra. Se questi ed altri modi castranti di vedere la donna stessero solo sui libri, comunque, sarebbe già meglio.

Invece sono dappertutto: nei caroselli, nei film, nei giornali di tutti i tipi, anche i più seri. Sono le cose che hanno sentito a scuola quelli che per strada ci toccano, ci insultano e se possono ci violentano. Le studentesse quindi si trovano a combattere, insieme alle materie che devono studiare, anche i compagni di banco con cui le studiano, nel momento in cui questi le giudicano tutte le mattine come si giudica un quadro o una scultura, soppesandone i vari difetti e qualità fisiche. Ed è proprio per cominciare a vivere e conoscere il nostro corpo, per farne qualcosa di nostra proprietà e non più di proprietà degli occhi o delle mani degli uomini, che vogliamo i corsi di educazione sessuale nelle scuole come momento di incontro fra le donne. Vogliamo parlare della sessualità di ognuna di noi, vogliamo renderci conto insieme che la vita cosiddetta privata, che ci hanno sempre fatto nascondere con tutte le sue angosce e frustrazioni, è la vita di tutte. Vogliamo fare delle esperienze individuali un patrimonio collettivo.

E tutto ciò vogliamo farlo da sole, senza l’aiuto di esperti che non ci potrebbero minimamente aiutare nei nostri problemi più grossi. E poi vogliamo riappropriarci della salute e dire basta ai medici che guadagnano milioni sui nostri aborti, che si sentono in diritto di toccarci se non siamo sposate e gli chiediamo la pillola perché significa che siamo puttane, che sono quasi sempre uomini e quindi non capiscono i nostri problemi.

Ed è per questi stessi motivi che vogliamo dei consultori ohe non siano distributori di anticoncezionali e di sommarie visite ginecologiche, ma che siano dei luoghi in cui le donne possano riappropriarsi dei mezzi per curare e conoscere il proprio corpo che sono attualmente in mano ad altri e possano magari trovarne di nuovi e più adatti scambiandosi le proprie esperienze. È quello che tentavano rudimentalmente di fare le streghe medievali. Ed è per questo che il 18 febbraio siamo scese in piazza gridando «tremate, tremate, le streghe son tornate». E in piazza abbiamo portato fantocci, striscioni colorati, scope, mattarelli, cartelli. Un modo diverso di esprimere la nostra voglia di cambiare, la nostra rabbia. Ci hanno chiamate anticomuniste, donnine di L.C., bambine prepotenti; qualcuno ha parlato della nostra autonomia come di una strada pericolosa. Ma sono stati costretti a fermarsi, a guardarci passare, nonostante la loro presunzione, il loro paternalismo, la loro superficialità. Non hanno capito che fare un girotondo e cantare invece di avere la faccia dura e l’urlo serio non vuol dire non avere problemi ma solo esprimerli in un modo diverso.

Un modo che esce fuori solo in queste manifestazioni proprio perché sono fatte dalle donne, e le donne sono diverse dagli uomini e quindi quando hanno spazio di espressione fanno cose nuove, che gli uomini non hanno mai pensato di fare. Ed è così che vogliamo vivere P8 marzo, perché poi sia sul serio una giornata delle donne e non sulle donne, ci pare decisivo assumerci la gestione delle iniziative senza delegare a nessuna struttura non di donne, anche se autonoma, nessuno spazio della giornata. E siamo state qui a intervenire solo perché ci interessa aprire un discorso con le studentesse dei CU., perché crediamo che il movimento politico e autonomo delle donne debba diventare sempre più vasto e forte, debba andare oltre le divisioni delle forze politiche, superare le ” scomuniche ” e essere un punto di riferimento per tutte le donne».

L’8 marzo è passato, la nostra strada è ancora questa: confrontarci tra donne e non tra forze politiche. Vedremo nei fatti se la metamorfosi dei CU. è stata strumentale o reale.