testimonianza di una emigrata spagnola

marzo 1976

sono spagnola, emigrata in ‘Svizzera nel 1962 all’età di 21 anni. Allora ebbe inizio la mia vita difficile. Arrivo in un paese dove non conosco la lingua, due giorni dopo comincio a lavorare in una fabbrica di orologi. Dopo due mesi di lavoro, mi dicono che dovevo lavorare a «cottimo»; mi esigono 3000 pezzi al giorno.

Dovevo fare 3000 pezzi, altrimenti mi avrebbero pagato solo per il lavoro realizzato. Per fare 3000 pezzi giornalieri bisognava lavorare a ritmo forzato. In questo modo sono diventata una macchina in più; ogni giorno venivo sfruttata di più e considerata di meno. Nel 1963 mi sposai: mi concessero tre giorni di ferie. Continuai il lavoro, e così ebbe inizio la sfruttamento doppio. Dovevo lavorare 9 ore in fabbrica e 5 a casa. Nel ’64 nasce mia figlia. Durante i nove mesi di gravidanza lavorai allo stesso ritmo. Lavorai fino al momento di partorire. La mia giornata finì alle 17,30; alle 21 entrai in ospedale. Tre mesi dopo il parto tornai in fabbrica. Siccome non vi erano asili, dovetti lasciare mia figlia presso una famiglia svizzera. Pagavo loro il 15% del mio stipendio. Abitavamo in una casa senza comodità. Prima di essere usata come abitazione veniva usata come stalla, ci tenevano le mucche, era piena di topi e non c’erano nemmeno i servizi igienici. Voi direte: come si fa a vivere così? Il fatto è che quando vedevo gli annunci degli appartamenti leggevo: non ammessi gli stranieri, solo per svizzeri.

Dato le brutte condizioni della casa, dovetti portare la bambina in Spagna. Qui in Svizzera la donna non riceve nessun tipo di aiuto sociale, figuriamoci perciò se si tratta di una straniera. La bambina rimase in Spagna due anni; in questo periodo cambiai casa e lavoro. Lavoravo nel campo dell’elettronica, reparto uomini, e il mio stipendio era di 6 franchi in meno di quello dell’uomo, cioè il 50% in meno, nonostante mi esigessero lo stesso lavoro. Lavorai lì per tre anni. Quando chiesi un aumento di stipendio mi si rispose di no, che ero donna e non potevo guadagnare tanto quanto un uomo (ripeto, facevo esattamente lo stesso lavoro). Nel ’68 lasciai la fabbrica, poiché non mi volevano aumentare lo stipendio. Ritornai alla fabbrica di orologi, dove mi obbligarono a lavorare a cottimo. Sistema capitalista che serve a sfruttare di più la persona, visto che esigevano 7000 pezzi al giorno. In fabbrica lavoravo 45 ore, più 10 ore di trasporto settimanali, la fabbrica è a 15 km da casa. Come vedete nel ’62 si dovevano fare 3000 pezzi al giorno e nel ’68 7000. Se per fare 3000 pezzi al giorno si doleva lavorare senza riposo, per farne 7000 si lavorava senza nemmeno poter andare a fare pipì. L’orario della fabbrica era: uscita di casa alle 6,30, lavoravo fino alle 12 e 15, e dall’una alle 6; 9 ore di lavoro e due di trasporto. Ci pagavano solo nove ore. Alle 6 quando tornavo a casa dovevo fare tutto il lavoro di casa, ciò significa che le mie giornate erano di 16 ore lavorative, che complessivamente fanno 96 ore settimanali. Questa vita l’ho fatta per tredici anni, e per me è stato un vero e proprio sfruttamento. Conseguenze che derivano da ciò: non poter badare alle mie bambine (ho due figlie, una di 12 anni, l’altra di sei). Mentre io lavoravo, la grande rimaneva a casa da sola, fino all’ora di andare a scuola. La piccola la portavo in asilo, dove dovevo pagare 400 franchi, Per raggiungere questa cifra dovevo lavorare nove giorni. In questo momento mi trovo senza lavoro dovuto al sistema che esiste qui in Svizzera. Oggi fanno ancora più discriminazione. In quasi tutte le fabbriche dove lavorano donne, vi sono state diminuzioni di stipendi, circa due franchi l’ora, ci hanno fatto fare tutti i tipi di lavoro e ogni volta in peggiori condizioni. In generale, quasi tutte le donne emigrate, hanno l’esaurimento nervoso dovuto al troppo lavoro. Io sono una di quelle donne emigrata in perfetto stato di salute, e che vado via con l’esaurimento nervoso. Tutto ciò conseguenza del ritmo di lavoro. Avrei tante cose da raccontare sulla mia vita, ma preferisco parlare in generale, di quello che è qui la vita per le donne emigrate.