la giustizia é donna…. togliamole la benda

marzo 1976

tanto vale dirlo subito: la nostra idea non è originale, tant’è vero che non è venuta a noi sole. La legge contro la discriminazione sessuale entrata in vigore in Inghilterra negli ultimi giorni del 75 ha probabilmente stimolato iniziative giuridiche femministe in molte parti del mondo: qui da noi ha ispirato la senatrice Carettoni che, dieci giorni dopo la nostra conferenza stampa, ha presentato un progetto di legge modulato su quello inglese. Contemporaneo al nostro è stato invece il lavoro delle compagne del MLD, che si sono basate sull’americano Equal Rights Amendment e che hanno formulato la richiesta «politica» di riservare alle donne la metà di tutti i posti di lavoro. A questo punto mi sembra tuttavia giusto spezzare una lancia in favore del nostro gruppo di lavoro: il Collettivo Femminista di Studi Giuridici ha fatto un’analisi approfondita dei codici italiani, per vedere dove ancora si annidano le cause concrete della discriminazione, ed un esame storico della legislazione italiana riguardante la donna dall’inizio del secolo all’approvazione del diritto di famiglia. Stiamo inoltre studiando i contratti collettivi di lavoro, i decreti istitutivi dei corpi speciali, i decreti presidenziali sulla pubblica istruzione: e abbiamo già trovato non pochi articoli in contrasto con la parità dei sessi che la Costituzione dovrebbe garantirci. Il nostro dunque è un lavoro organico in vista di una revisione di tutte quelle leggi italiane che discriminano in base al sesso: una volta ultimato sarà a disposizione di quelle forze politiche che volessero servirsene per introdurre nei nostri codici una parità che non sia solo quella «programmatica» dell’articolo 3 della Costituzione; sempreché non si decida di cominciare la raccolta di firme per una legge d’iniziativa popolare. Anzitutto una breve cronistoria del nostro collettivo e del nostro lavoro: siamo nate verso la fine del 75 come Controstampa Femminista: un gruppo di femministe di diversa provenienza che si proponevano di esaminare la stampa (non femminile) e di denunciarne gli atteggiamenti sessisti. Sono entrate a far parte stabilmente di Controstampa Giulietta Ascoli, Antonietta Censi, Silvana Cichi, Elena Gianini Belotti, Angelamaria Loreto, Laura Re-middi, Gilda Tissino, Simona Weller ed io stessa, Elena Doni: ma poiché si tratta di un gruppo aperto non è detto che, quando leggerete queste righe, a questi nomi non se ne siano aggiunti altri. Lavoro ce n’era finché si voleva: anche i giornali che si dichiarano più aperti al femminismo contengono spesso perle che vanno dall’inesattezza al sessimo più truculento. Per non parlare della cronaca che è tutta permeata del bifronte atteggiamento maschista nei confronti della donna: da una parte l’esaltazione dell’oggetto, dall’altra la condanna esplicita delle donne che si mostrano tali, delle «belle e perverse» che causano la rovina delle famiglie. Controstampa Femminista è spesso intervenuta — e continua a intervenire — con il sistema delle «Lettere al Direttore»: solo raramente abbiamo avuto la soddisfazione, sia pur magra, di vederci pubblicate; andiamo comunque raccogliendo, ora abbastanza disordinatamente per dire il vero, gli esempi più clamorosi di antifemminismo. Un giorno potrebbe diventare un bel dossier. Una sera, ad una riunione di Controstampa, Laura Remiddi lanciò la proposta di «fare qualcosa di più incisivo»: dall’idea di creare le premesse per avere anche in Italia una legge sul tipo di quella inglese nacque la necessità di studiare prima le leggi che c’erano da noi. Laura, che è avvocato, impostò e distribuì il lavoro: e quelle che non avevano competenze specifiche se le vennero facendo. Dopo qualche settimana decidemmo di organizzare una conferenza per far conoscere la nostra iniziativa; tra l’altro, il giorno prima l’MLD aveva presentato la sua iniziativa nell’ambito della Carta delle Libertà del partito radicale. Numerosi giornali, anche della provincia, hanno riportato lo avvenimento: il Corriere della Sera ha addiritura parlato di una nuova fase, pragmatica, del femminismo, contrapponendola alla precedente di autocoscienza e di crescita. Come ho già detto prima, il lavoro del nostro gruppo (che ha preso il nome di Collettivo di Studi Giuridici in quanto il vecchio Controstampa avrebbe potuto creare equivoci) continua: abbiamo deciso di parlarne prima di portarlo a termine per mettere un’ipoteca femminista su una legge, quella contro la discriminazione sessuale, che potrebbe far gola a parlamentari a caccia di voti, pronti magari a contorsionismi e compromessi. Se le femministe italiane conosceranno meglio le leggi che condizionano la nostra vita, il nostro lavoro ed i nostri rapporti familiari, sarà più difficile domani far passare iniziative che non tengano conto della mutata realtà delle donne.

La stesura della base politica e programmatica del nostro lavoro non è stata semplice né pacifica: uno dei punti su cui abbiamo discusso più a lungo è stato quello relativo al servizio militare che, secondo la Costituzione deve essere difensivo e obbligatorio per tutti i cittadini. Il femminismo, come tutte noi sappiamo, è un movimento pacifista: ma nel momento in cui si chiede parità di diritti non si può non postulare l’uguaglianza dei doveri; e chiedere l’istituzione, per le donne, del servizio civile equivarrebbe a creare un altro ghetto, un’ennesima fonte di discriminazione. D’altra parte i trattati internazionali limitano il contingente di militari in ciascun paese: se la ferma diventasse obbligatoria anche per le donne, ne salterebbe automaticamente (e non è un bisticcio di parole) l’obbligatorietà. Per il momento pensiamo che sia inevitabile, pur ribadendo il nostro antimilitarismo, accettare in linea di principio che il servizio di leva sia esteso alle donne.

Un’altra fonte di lunghe discussioni è stato il diritto canonico: d’accordo che si tratta di un ordinamento straniero, ma può lo stato ignorarlo dal momento che le sue norme si applicano ai cittadini italiani? D’accordo che nessuna di noi vuol celebrare messa e, credo, neppure fare il chierichetto: ma è giusto che le religiose siano regolarmente utilizzate in ruoli strumentali e di servizio (si pensi agli ospedali) spesso eludendo le norme di tutela del lavoro? Un punto sul quale ci siamo trovate immediatamente d’accordo era che non si doveva in alcun modo tendere a una legge tutelativa della donna: l’esperienza passata ha dimostrato che i provvedimenti protettivi sono altrettanti boomerang che ribadiscono l’immagine di una donna «diversa», bisognosa di particolare protezione, quindi non «adatta» ad assumere gli stessi ruoli degli uomini. Noi rifiutiamo ogni privilegio o potere sia per la donna che per l’uomo: rivendichiamo solo uguali diritti alla persona umana. Di conseguenza bisognerebbe abolire dalle leggi i termini «uomo» e «donna» e sostituirli con «persona» e tale principio dovrebbe essere anche applicato nelle offerte di lavoro, come già accade in alcuni paesi.

Inoltre, se è vero che i figli sono un bene sociale, non si capisce perché non possano usufruire anche i padri, in alternativa alle madri, della possibilità di assentarsi dal lavoro nei mesi immediatamente successivi alla nascita di un figlio e nei primi tre anni di vita del bambino.

Ma veniamo adesso all’analisi femminista dei nostri codici: un bell’esempio ci è subito offerto dall’articolo 587 del codice penale, quello sul delitto d’onore, in virtù del quale chi ammazza il coniuge la sorella o la figlia «nell’atto in cui ne scopre l’illegittima relazione carnale» se la può cavare con tre anni di carcere: mentre chi in illecito amplesso trova figlio o fratello e li uccide, ha la ragionevole certezza di finire i suoi giorni all’ergastolo. Il 587 non è l’unico articolo del codice italiano che usa due pesi e due misure nei confronti dell’uomo e della donna: la legge sul diritto di famiglia, fresca dell’anno scorso, stabilisce che l’uomo può trasmettere la cittadinanza italiana ai propri figli, ma non così la donna. Tra le disposizioni più comiche del nostro codice si può ricordare quella per cui il prefetto di una città ha la facoltà di vietare alle donne di somministrare bevande alcooliche al minuto, a meno che non si tratti di mogli o parenti del gestore: e questo per ragioni di «moralità e ordine pubblico». Tra le norme che toccano da vicino un gran numero di persone ci sono quelle sulla non reversibilità della pensione, (salvo rare eccezioni, il vedovo di una lavoratrice non ha diritto a pensione: come se per la donna non fossero stati versati uguali contributi) e sul pensionamento anticipato della donna, ciò che in pratica le impedisce di arrivare al massimo della pensione. Inoltre gli assegni familiari, che vengono corrisposti all’uomo su semplice richiesta, possono andare alla donna solo se questa ha dimostrato che non c’è un uomo capace di provvedere alle esigenze della famiglia. Leggi, leggine, regolamenti e disposizioni discriminatorie si annidano un po’ dovunque e spesso senza neppure una ragione «storica». Prendiamo ad esempio il regolamento di polizia: esso dice semplicemente che l’indennità di servizio speciale e l’indennità speciale corrisposta alle ispettrici di polizia è inferiore di un terzo a quella corrisposta ai funzionari di pubblica sicurezza; le stesse indennità sono corrisposte alle assistenti di polizia con una decurtazione di due terzi rispetto al corrispondente grado maschile. Perché? Non è spiegato. Forse perché si presume che le donne impiegate nel corpo di polizia femminile non svolgono lavori . rischiosi? Ma chi si sente di affermare oggi dove sta il rischio e dove la sicurezza?

La verità è che la volontà di creare cittadini diversi a dispetto della Costituzione, è espressa chiaramente nei decreti presidenziali relativi all’insegnamento. Nei programmi per la scuola elementare sono contenute precise norme affinché fin dalla prima classe le bambine vengano incoraggiate a giocare con le bambole e addestrate alle più facili attività della casa, comprese «le più elementari abilità nel cucinare». Alla scuola media poi, nelle ore di applicazioni tecniche, mentre i maschietti si dedicheranno a «processi di trasformazione di materie prime di uso corrente», le femmine saranno addestrate in «applicazioni rivolte specificatamente alla casa e al suo governo». Anche per quanto riguarda l’educazione fisica il decreto non tralascia una rigida divisione in ruoli: per i maschi sono previsti esercizi che siano «espressione di atteggiamenti di decisione e di sicurezza di sé», mentre gli esercizi per le femmine dovranno conferire loro «una spigliatezza aggraziata» (?!).