il dissenso è aperto

la proposta di legge di iniziativa popolare ha aperto nel movimento un acceso dibattito.

ottobre 1979

in questi ultimi mesi, in particolare da ottobre, il dibattito sulla violenza si è notevolmente intensificato. Non sono state solo infatti le proposte di legge fatte da alcuni partiti (PCI e poi PSI) a moltiplicare gli interventi sui giornali e le pubbliche discussioni, ma soprattutto un documento prima e un dibattito poi del gruppo di donne che fa riferimento alla libreria delle donne di Milano. Il documento (di cui pubblichiamo ampi stralci) infatti, scritto dopo una serie di discussioni in libreria, dichiara un aperto dissenso delle donne che l’hanno stilato rispetto alla proposta di’iniziativa popolare fatta dall’MLD, e da altri collettivi romani. In esso si mettono in discussione alcuni punti della proposta, in particolare l’articolo che prevede la procedibilità d’ufficio in caso di violenza sessuale, ma non solo questi. Infatti, il dissenso fondamentale riguarda il fatto che delle donne abbiano pensato e proposto una legge. Nel dibattito pubblico all’Umanitaria di Milano che ha fatto seguito al documento, la posizione rispetto a questa proposta di legge è stata unanime: un no molto netto al fatto che delle donne abbiano pensato ad una legge. Non solo, ma questa legge, è stata giudicata una brutta legge (“una legge Reale”) ed è stato negato qualsiasi significato positivo a questa iniziativa. Non è la prima volta che il movimento femminista in Italia si trova a fare i conti con una legge. A ben guardare infatti questo dibattito e gli interventi che sono seguiti, pubblicati soprattutto su // Manifesto e poi su Lotta continua e Quotidiano donna, ricordano molto vecchi dissensi interni che si manifestarono ad esempio anche quando si tentò di vedere se era possibile presentare, come movimento, una proposta di legge sull’aborto. Almeno un’analogia possibile c’è tra le due proposte ed è quella che riguarda il tema dell’autodeterminazione. Oggi questo tema passa attraverso il dissenso rispetto all’articolo sulla procedibilità d’ufficio per il reato di violenza sessuale. Allora come oggi uno dei nodi fondamentali del rapporto delle donne con la legge passa in modo tutt’altro che indolore ed indifferente per questa strada. Allora si tentò di fare una legge sull’aborto ben sapendo che questo aveva un significato che oltrepassava l’intervento medico in sé e il fatto che in Italia fosse vietato e clandestino. In quel caso lo scontro stava ad esempio sul numero delle settimane in cui una donna poteva decidere di abortire: qualsiasi proposta che prevedesse che una donna dovesse abortire a dodici settimane e non a sette mesi veniva subito bloccata perché si diceva che la donna doveva avere la possibilità di decidere se abortire a cinque o a trentasei settimane “indifferentemente”. Non credo — come afferma invece Goti Ricciardi in un suo intervento di risposta alle compagne di Milano — che il paragone con l’altra legge possa servire, a sostenere le. posizioni di chi delle donne critica in toto questa iniziativa. Può invece costituire
materia su cui riflettere il pensare ad alcune modificazioni che quel dibattito e quella battaglia hanno portato.
Una legge, la 194, non delle donne, certo, né buona, né cattiva, ma certamente non piovuta dal cielo. E anche se l’autodeterminazione oggi corre sul filo dell’obiettore e del giudice se si hanno meno di diciotto anni, non è la logica del meno peggio che fa dire che a qualcosa tutto ciò è servito alle donne. E ancora, della legge sull’aborto non se ne sono più occupate in tante del movimento — peraltro in fase critica — ma, e questo mi sembra un dato non irrilevante, se ne sono occupate “altre”, quelle donne per esempio che avevano cominciato a frequentare i sia pur scarsi consultori. Come non considerarlo dunque un segno di cambiamento?

Questo dibattito sulla violenza che tanta parte occupa dei nostri giornali non ha forse alcuni di questi segni? Questa proposta di legge fatta da alcune donne e che vede partecipe una organizzazione che movimento femminista non è, cioè l’UDI, non è anch’essa il segno di cambiamento? Quello che ha visto per esempio tante donne denunciare la violenza subita o ricorrere ai centri antiviolenza? Di ciò bisognerebbe forse tenere maggior conto. Se c’è sempre stato un rifiuto delle donne per la legge, «non a torto — dice Sesa Tato in un articolo del Manifesto del 9 novembre — intese come camicia di forza e pertanto incapaci di contenere quel caleidoscopio di sensazioni fatto di desideri, fantasie, intuizioni, comportamenti determinati dal profondo che nessun progetto può raccogliere», come non fermarsi sulle esperienze di queste donne e di quelle che la legge l’hanno pensata e discussa?

Dei due nodi di questa proposta che provocano dissensi ed interrogativi, la procedibilità d’ufficio e la penalizzazione del reo e anche della donna rea d’infanticidio, che dire poi? Sesa Tato nell’analizzare le posizioni emerse all’interno del movimento cita l’argomentazione di una compagna dell’UDI, Margherita Repetto «secondo cui grazie alla perseguibilità d’ufficio lo stupro diventa reato oggettivo che non offende la collettività, pertanto lo si sottrae alla sfera privata, alla contrattazione fra vittima e carnefice, ragion per cui sarà la società a definirla colpa in assoluto e non la donna che ha subito». Personalmente invece devo dire di essere stata molto colpita dalla testimonianza del Collettivo donne di Legnago. Agli articoli comparsi sul Manifesto contro questa iniziativa e in particolare a quello di Rossana Rossanda, in cui si affermava che il movimento delle donne ha finito per essere da anti-istituzionale, superistituzionalizzato, affidando il proprio destino allo Stato e cedendo al principio del risarcimento attraverso la pena, hanno risposto: «… e per favore non rispondeteci “cercate voi, che avete germi nuovi e diversi”. Troppo comodo. Noi abitiamo a Legnago, il paese in cui viveva e fu violentata Cristina Simeoni, 16 anni, la prima a chiedere un processo a porte aperte e una lira di risarcimento simbolico. Qui nessuno le ha perdonato di non aver taciuto e subito in silenzio e Cristina è stata costretta ad andarsene in un posto dove la gente l’abbia dimenticata. La nostra lotta è troppo amara, importante e vitale per noi per permetterci il lusso di aspettare, pensando a nuovi strumenti di lotta che non ci sporchino le mani mentre 16.000 stupri all’anno ci sporcano il viso e il cuore…».

Una risposta non “indifferente” in questo dibattito, in cui fra le altre cose Luisa Muraro durante il convegno milanese ha detto: «personalmente non l’ho firmata né vorrei farlo, però lo schieramento prò o contro la legge è il più banale perché tra chi la sostiene come tra le altre ci sono diversità profonde, ci sono argomenti, interrogativi che ci attraversano e che sarebbero cancellati con questo schieramento. Per evitarlo forse il modo migliore sarebbe che ciascuna partisse dalla sua esperienza…».

 

Dal documento della libreria delle donne di milano

Appena conosciuto il testo della proposta abbiamo fatto delle riunioni nella Libreria delle donne di Milano per analizzarla e discuterla. Alcune sue parti ci sono apparse buone, altre invece criticabili. Ci sembra buona quella parte che “limita i poteri” di indagine e di decisione dell’autorità pubblica nei processi per stupro. Ma per la stessa ragione siamo contro l’articolo che introduce la procedura d’ufficio, appunto perché dilata l’intervento dell’autorità pubblica Tutti i motivi che vengono portati a favore di quell’articolo, non bastano a coprire il fatto che con la procedura d’ufficio si nega alla donna vittima di violenza la possibilità di “decidere lei se vuole o non vuole cercare giustizia con un processo”. Con la procedura d’ufficio la donna diventa obbligatoriamente il principale o l’unico testimone d’accusa contro gli autori della violenza (…). Tra noi che ne abbiamo discusso, sono venuti fuori atteggiamenti molto diversi non solo su quello che ciascuna farebbe dopo il caso disgraziato di una violenza, ma anche su come questo caso sarebbe vissuto. Tale diversità non fa meraviglia, perché sul proprio corpo e sulla propria sessualità non c’è tra le donne un sentimento uniforme. La vecchia legge del codice Rocco prevedeva la querela di parte per permettere alla famiglia della vittima (cioè al padre o al marito) di valutare se il loro onore si accordava con un processo pubblico. Noi vogliamo la querela di parte per permettere alla donna di valutare se i suoi sentimenti e i suoi interessi si accordano con un processo pubblico. Preferiamo che questa valutazione rimanga in ultima istanza individuale, per due ragioni: 1) perché noi stesse desideriamo riservarci la possibilità di una valutazione individuale (è giusto segnalare che questa posizione non è unanime: una ha detto che forse lei preferirebbe la denuncia d’ufficio per non dover decidere, essere de-responsabilizzata); 2) perché ci sembra importante che il movimento politico delle donne si confronti sempre nelle sue iniziative con quello che le donne, in concreto, sentono, desiderano, vogliono. Già è capitato che il movimento si sia mobilitato in difesa di donne che non potevano o non volevano sostenere fino in fondo la parte prevista da quella mobilitazione. Ci è stato detto che in futuro simili “eccessi” saranno evitati. Bene: il primo passo per evitarli consiste nel “non” prendersi gli strumenti legali che permettono di scavalcare la singola donna. Su questo punto è venuta fuori un’altra questione. La nuova legge ammette la costituzione di parte civile del movimento. C’è un motivo che riconosciamo valido: in un processo per violenza la singola quasi sicuramente ha bisogno di avere accanto a sé altre donne. Ma chi saranno queste altre donne? I movimenti organizzati oppure quelle con cui lei ha un qualche legame concreto? Per noi soltanto questa seconda eventualità è accettabile (…). C’è questo problema della nostra incerta esistenza sociale. Le donne sopportano in silenzio fatiche e purtroppo anche violenze quotidiane. Vogliamo che non sia più così, o che almeno si cominci a parlarne, a protestare apertamente. E’ giusto. Ma in che modo? E’ evidente che la denuncia penale non è l’unico modo, non si può neanche dire che sia il migliore. Ma con la legge che stabilisce la procedura d’ufficio, diventerebbe la strada obbligata per tutti (…). Per questi motivi non ci sentiamo di fare nostro il progetto di legge. Abbiamo visto in questi anni che la nostra marginalità, diventando autonomia dal mondo maschile, presa di coscienza e di parola, ed arricchendosi con rapporti più significativi tra donne si è tradotta anche in forza sociale. Il cambiamento decisivo da realizzare riguarda il rapporto uomo/donna. La sostanza di questo rapporto sono fatti materiali e culturali che si radicano dove nessuna legge arriva. Un nuovo modo di fare politica è stato inventato dalle donne proprio per arrivare a quelle radici (…) Noi vorremmo confrontarci su queste cose, realizzare dei cambiamenti di questa natura. Ma non vediamo in che modo, se va avanti un discorso in funzione del progetto di legge. Quelle che, come noi, non sono d’accordo, sono costrette al dissenso e all’opposizione.

(ciclostilato della Libreria delle donne, vìa Dogana 2, Milano)