Italia le operaie della “solari” in lotta per la salute
noi siamo delle donne che lavorano in una fabbrica di orologi, la Solari, che si trova a 100 metri dall’Ospedale Civile di Udine. Nella nostra fabbrica rappresentiamo quasi la metà delle maestranze; in tutto siamo 400 ‘donne. Abbiamo sentito la necessità di scrivere un documento su, una lunga vicenda che ci ha viste protagoniste nel tentativo di esercitare il nostro, come di tutti i lavoratori, diritto a difendere la nostra salute.
Questa nostra vicenda è cominciata nella primavera del ’74 quando abbiamo affrontato il problema dell’esame oncologico (cioè l’esame che serve per sapere se abbiamo o non abbiamo il cancro all’utero e alle mammelle). Era per noi un problema serio in quanto il Centro Oncologico «Varisco», che ha la sua sede nell’ospedale civile e dipende dalla Provincia, è aperto solo dalle ore 8 alle ore 12 di ogni giorno escluso il sabato. Per noi un orario di questo tipo voleva dire perdere due mezze giornate di lavoro (ovviamente non retribuite). Una mezza mattina per andare a fissare la prenotazione lasciando i dati anagrafici e sanitari all’infermiera addetta; è da notare che i tempi di prenotazione sono di mesi. La seconda mezza mattina viene utilizzata per effettuare la visita. Quando abbiamo posto questo problema abbiamo avuto subito una certa «comprensione».
Da una parte il Centro Tumori si è dimostrato disponibile a fissare per noi un orario riservato, dall’altra la direzione della nostra fabbrica ci ha concesso un’assemblea di mezz’ora a fine orario di lavoro per avere una serie di informazioni su questo esame, assemblea consigliata dal Centro Tumori stesso. È stata un’assemblea che ricordiamo volentieri in quanto abbiamo avuto la possibilità di parlare, fare domande e discutere. Ma la direzione è andata oltre le aspettative, forse sollecitata dalla «nobiltà del gesto» e ci ha concesso
un’ora retribuita per farci questo esame (ma solo per noi della Sede). 180 di noi hanno fatto questo esame. Quando il Centro Tumori ci ha inviato i risultati dell’esame oncologico, molte di noi ‘(il 25%) hanno scoperto di essere invitate a fare una visita ginecologica, in quanto lo striscio vaginale aveva rivelato cerviciti, vaginiti, erosioni del collo dell’utero, parassiti, pia-ghette, infiammazioni ecc. Non che prima noi ci credessimo «sane», perfettamente in salute; ma ognuna di noi, a livello individuale, proprio per mancanza di tempo, in quanto finito il lavoro in fabbrica comincia il lavoro domestico, si era rassegnata a non badare ai dolori renali, ai malesseri vari, all’esaurimento, alle perdite bianche e di sangue, ai pruriti, ai forti dolori mestruali, alla febbre. Si era rassegnata a non trovare il tempo nemmeno per curarsi; di fronte alla nostra perenne stanchezza.fisica e psicologica, dovuta al fatto che tutto il nostro tempo di vita è sempre tempo di lavoro, un doloretto in più o in meno non aveva nessuna importanza. Cosa può significare per una donna essere malata? Quando ci possiamo permettere di stare male? MAI; solo se abbiamo un cancro, la tubercolosi, ecc., o se dobbiamo operarci. Bisogna che la nostra vita stessa sia in pericolo e con essa anche il lavoro che noi garantiamo prima di tutto in casa e poi anche in fabbrica. Solo allora «possiamo» curarci; ma la nostra malattia in quel caso deve essere veramente grave.
Noi, però, di fronte a quegli «inviti» a fare la visita ginecologica, abbiamo deciso di accettarli. Abbiamo deciso di cominciare a curarci anche le malattie non gravi, anche quelle malattie che tutti danno per scontato che le donne devono tenersi come croniche.-Avremmo ben presto scoperto che forse pretendevamo troppo!
Infatti è cominciata’ allora la nostra «via crucis».
Andarsi a fare la visita ginecologica significava perdere, 4 giornate lavorative: mezza giornata per la visita dal proprio dottore, altra mezza giornata per andare all’Inam a fissare l’appuntamento per la visita specialistica, altra mezza per la visita specialistica col dottore dell’Inam, ancora una mezza per la seconda visita dal proprio dottore per le prescrizioni mutualistiche. E poi la stessa trafila a conclusione della cura per accertarne il risultato, In tutto quattro giorni di lavoro non retribuiti.
Perché diciamo quattro giorni di lavoro?
Perché aspettare ore in una sala di aspetto di un dottore fino a quando arriva il nostro turno, andare all’Inam a fare la fila, sperando sempre nella puntualità del dottore, farsi le visite, curarsi, non è un divertimento, ma è un lavoro: è lavoro domestico in quanto sono ore, che spendiamo per cercare di rimettere in sesto il nostro corpo che altri sfruttano ogni giorno in fabbrica e in casa. Non è ritenuto lavoro dal capitale (la società in cui noi viviamo) il mestiere di casalinga, tanto è vero che non è retribuito e quindi in termini politici ed economici non ha valore di scambio, non ha potere contrattuale, non ha limiti e tutele. Ma perché tutto questo? Il capitale guadagna sulla pelle delle donne soldi, profitto in più. Con il nostro «lavoro» risparmia da una parte denaro (servizi sociali collettivi, strutture funzionanti al servizio reale, di tutte le comunità), e dall’altra tiene isolata la maggioranza della popolazione femminile costringendola a lavorare nelle case. NO, non è missione femminile, e se anche lo fosse, troppo ci guadagna su questa «missione» il capitale per potercela contrabbandare come tale! La donna è la massa più ricattabile dal capitale ovunque, sul posto di lavoro e in casa. Il capitale, la società, sfruttano la donna da quando nasce a quando muore e questo processo di sfruttamento si ripercuote sulla salute fisica e psichica della donna.
A doppio sfruttamento, e quindi a doppio lavoro e fatica fisica, corrisponde maggior vulnerabilità fisica della donna e sua minor tutela perché non ha tempo materiale per curarsi, per permettersi questo lusso; infatti è lusso e non «diritto», e perciò dovere dello Stato verso i cittadini, come sancito dalla stessa Costituzione.
Dunque anche quando curiamo noi stesse svolgiamo lavoro, lavoro domestico, anche se nessuno è disposto a vederlo e tanto meno a retribuirlo. È a questo punto che sorge all’interno della fabbrica la Commissione salute donne. Con lo scopo non solo di risolvere questo problema concreto, cioè di poterci visitare in modo decente con permesso retribuito, ma anche di raccogliere e dare voce a tutte le cose sempre pensate ma mai dette pubblicamente da noi tutte. E queste cose sono tante! Riprendiamo comunque brevemente la storia dei fatti. Innanzitutto ci siamo rivolte all’Ospedale Civile perché è a due passi dalla nostra fabbrica e ci sarebbe stato comodo fare le visite là. Perché pensavamo fosse la soluzione più logica di cordinazione sanitaria rispetto ai nostri bisogni: informazione, diagnosi e cura. Anche perché avremmo risparmiato, oltre il tempo, anche i soldi del trasporto, che sommate tutte le corse, non sarebbero stati pochi.
Abbiamo promosso l’incontro con lo Ospedale, alla presenza anche del nostro consiglio unitario di fabbrica e dei sindacati.
L’ospedale ha dato la sua piena disponibilità a far eseguire non solo le visite più urgenti ma anche ad iniziare dei cicli di informazione sanitaria pertinente le visite oncologiche e ginecologiche. Previa, naturalmente, l’autorizzazione dell’Inani per le visite. Ma l’Inam per un disguido era in quella riunione assente.
In compenso erano presenti i responsabili dei servizi sanitari della Provincia e del Comune. Tramite uno di loro abbiamo appreso «che il Trichomonas è molto comune soprattutto per la eccessiva frequenza al coito (abbiamo troppi rapporti sessuali) e per poca pulizia intima (ci laviamo poco)»! È un’amara riflessione la nostra, nel far notare che questi personaggi sono anche responsabili dell’educazione sanitaria della cittadinanza tutta. Dopo.di che, abbiamo chiesto un incontro, tramite il consiglio di fabbrica, con il Centro Oncologico Varisco di Udine, dipendente dalla Provincia e con sede presso l’ospedale civile. Con tale incontro ci proponevamo di ottenere due cose.
Da una parte volevamo chiedere esplicitamente un centro mobile che facesse il prelievo direttamente in fabbrica, affinché anche le donne della fabbrica di Artegna (la nostra sede staccata) potessero fare l’esame oncologico (cosa che la direzione della Solari non aveva concesso come aveva invece concesso a noi).
Dall’altra che ci fosse la possibilità di avere una prima visita ginecologica già durante il prelievo oncologico. La prima richiesta si spiega da sé: non volevamo che la possibilità di fare l’esame oncologico restasse solo un nostro «privilegio», ma che fosse un diritto da difendere per tutte. La seconda richiesta partiva dalle difficoltà pratiche che noi avevamo incontrato: il prelievo viene fatto da una infermiera specializzata per cui ogni informazione che lei ci dà a voce (c’è una piaghetta, una cervicite ecc.), non
si traduce concretamente in una immediata spiegazione di ciò che si ha e in una prescrizione altrettanto immediata della cura.
Si riceve solo il consiglio di andarsi a fare una visita ginecologica. Il risultato di questo era stato che molte donne si erano spaventate (quante di noi sanno cos’è una cervicite?) non riuscendo a capire cos’avevano e si erano ancora più spaventate sentendosi consigliare una immediata visita ginecologica. La risposta a queste due richieste è stata NO! Un altro no è stato ribadito alla nostra esigenza di un rapporto diverso tra «ammalato» e medico. «Non si può fare salotto» sono le testuali parole del dr. Cozzi, il quale evidentemente non ha vissuto l’esperienza comune a parecchie di noi, di essere visitate senza vedere materialmente il dottore. Di essere spogliate a metà e di rimanere quindi con mutandina o collant in mano, ad attendere in locali super affollati, senza finestre e sedie sufficienti (80 persone); questo per consentire una visita più rapida. Il tono della riunione è stato molto pesante (leggi offensivo), specialmente a causa del comportamento del dr. Cozzi, più volte richiamato dallo stesso presidente della provincia. Non a una delle donne presenti è stata concessa la parola. Chi era in qualche modo riuscita a parlare, è stata subito zittita dal dr. Cozzi, che ha chiuso l’argomento con una delle solite offese contro le donne. Se non ci fossero stati presenti i sindacati e il consiglio di fabbrica, probabilmente avremmo abbandonato la sala. E sarebbe stato meglio ! Da allora col Centro Tumori nessun altro contatto. Il 28 gennaio, sempre noi, lo stesso gruppo di donne e gli organismi di fabbrica, abbiamo promosso un incontro con l’Inam per avere quella famosa autorizzazione per effettuare le visite ginecologiche presso l’ospedale. Abbiamo spiegato le molteplici difficoltà a cui va incontro una donna che frequentemente deve sottoporsi a visite e controlli ginecologici. Abbiamo raccontato cos’è la vita di una donna. Lavoro di fabbrica e lavoro domestico, dove finisce l’uno comincia l’altro, il fatto che prima dobbiamo assistere gli ammalati di casa e poi pensare a noi stesse, che quel poi non arriva mai, che in fabbrica non ci danno i permessi retribuiti, che difendere la nostra salute costa soldi senza i quali è ben difficile curarci.
Abbiamo denunciato l’assurdità delle lunghe ore trascorse (ore di lavoro domestico, non generica perdita di tempo) in sale di attesa per pochi minuti di visita affrettata senza alcuna considerazione della paziente come persona, delle lunghe ore passate all’Inani per continui timbri e super-controlli agli sportelli, tutte lunghe attese sfibranti e demoralizzanti.
Abbiamo parlato delle trascrizioni delle prestazioni e delle ricette, fatte da troppi dottori (medico centro Oncologico, medico personale, medico Inam, medico Ospedale civile) per cui di fronte alle ricette o terapie così manipolate e multiple restiamo confuse e perplesse. La risposta dell’Inani è stata commovente e piena di tatto. Non preoccupatevi, facciamo tutto noi, non serve l’ospedale, non serve neppure il centro Tumori.
Visite, prevenzione, informazione sanitaria, terapia, facciamo tutto noi (per voi della Solari) !
Perciò l’autorizzazione per l’ospedale non ve la diamo, perché non vi servirebbe. In compenso però noi otteniamo:
– di fare subito la visita a queste ammalate urgenti;
– senza la prescrizione del medico della mutua;
– senza fare code (per voi stabiliremo delle prenotazioni riservate;
– di avere dallo specialista la ricetta Inam (che consente l’acquisto diretto in farmacia delle medicine prescritte, senza dover così ritornare dal proprio dottore solo per questo scopo).
E riceviamo (sempre dall’Inani) un preannuncio di un concreto possibile programma per effettuare lo striscio vaginale per l’esame oncologico in fabbrica e per adoperarsi, sempre in futuro, per l’informazione sanitaria. In ogni caso, l’accordo era quello che ci sarebbe stato quanto prima un incontro tra l’Inani, l’Ospedale e noi e il consiglio di fabbrica e i sindacati per approfondire il discorso sulla salute ed esaminare tutti i problemi relativi alla visita ginecologica e oncologica. Ma vediamo cosa è saltato fuori dalle visite.
Il 14 febbraio cominciano le prime contestazioni da parte delle altre donne in coda all’Inani. La nostra piccola conquista rischia di dividerci dalle altre donne.
Il 17 febbraio la contestazione delle altre donne diventa così aperta che lo specialista si rifiuta di visitarci nell’orario iniziale, dando così in escandescenze e protestando con l’assistente sociale dell’Inam. Alla fine propone un nuovo orario dalle ore 11,45 alle 12,30. Tutto questo, mentre una di noi, che lui stava visitando, era in posizione ginecologica.
Il 21 febbraio le donne della Solari si rifiutano di effettuare le visite all’Inam, perché, primo, in quelle condizioni la nostra piccola vittoria rischiava di tramutarsi in una sconfitta politica, in quanto si creava una divisione aperta tra noi, donne della Solari, e le altre donne (casalinghe ecc.) anch’esse lavoratrici come noi e quindi con poco tempo da «dedicare» alle code. Secondo, in quanto il nuovo orario proposto dal dr. Debiasi snaturava la nostra lotta, perché accettare di farci visitare fuori dall’orario di lavoro significava ritornare alla rassegnazione di sempre a non curarci, oppure a curarci pagando il solito costo in termini di lavoro, tempo e soldi. Oltre questi fatti, sempre in relazione alle visite fatte all’Inam, abbiamo rilevato che: è stata prescritta la pillola a due pazienti senza le analisi di tolleranza relative, la cui necessità è ormai da tutti risaputa; sono state prescritte medicine fuori commercio da anni (ci proponiamo di capire perché); è stata prescritta una cura di 20 giorni a base di ovuli a una donna con una cisti ovarica, quando necessitava il ricovero urgente (come in effetti poi è avvenuto ad opera del medico curante). Questo fatto ha provocato nei reparti delle piccole riunioni tra noi, sia per sollecitare un incontro, ormai non più rimandabile, tra l’Inam e l’Ospedale allo scopo di ottenere l’autorizzazione ad effettuare le visite in ospedale, sia per discutere ancora dell’assistenza sanitaria che lo Stato ci fornisce.
È saltata fuori una realtà che vogliamo denunciare: tutte le donne visitate in privato dagli specialisti (spesso gli stessi Inam) non ottengono mai la ricevuta delle parcelle pagate (più di 20 donne hanno pagato dalle 20.000 alle 25.000 lire), cosa che permette ai medici di non denunciare i loro reali introiti.
Spesso, l’Inani ci nega il diritto di fare le analisi che il nostro medico curante richiede. E l’Inam sarebbe uno dei tanti enti i cui soldi escono dalle nostre tasche.
Dottori che prescrivono anticoncezionali scaduti e inefficaci, cosa che dimostra la loro grande ignoranza. Visite squallide e affrettate: di fronte alla paziente che si lamenta e vuole essere
ricoverata, solo se ha il marito accanto a sé riesce ad ottenere quello di cui ha bisogno.
Dalle discussioni è venuta fuori un’altra domanda, che ha cominciato subito a girare in fabbrica: perché, quando siamo ammalate ci pagano, e quando andiamo a farci visitare, no? E così anche alcuni operai hanno cominciato a chiedersi la stessa cosa, perché per esempio, quando vanno a farsi i raggi per l’ulcera, non vengono pagati. La nostra lotta questa, volta è riuscita a dare delle indicazioni politiche anche a loro.
Nell’ultimo incontro con l’Ospedale e l’Inam, abbiamo ottenuto che l’Inam predisponesse la convenzione affinché noi potessimo effettuare tali visite anche presso l’ospedale. Per fare questo piccolo passo avanti, abbiamo dovuto bussare a molte porte e non perderci d’animo, quando ce le sbattevano in faccia. Noi abbiamo tenuto duro.
Questo documento l’abbiamo scritto perché il maggior numero di donne possibile venga a conoscenza della nostra lotta.
L’abbiamo scritto per le donne operaie come noi, che sempre più numerose stanno lottando per ottenere delle assemblee di fabbrica tutte per loro, in cui discutere dei loro problemi come donne, per ottenere dei permessi retribuiti per potersi curare, per ottenere una giornata al mese per il lavoro domestico ecc.
L’abbiamo scritto per tutte le donne che finora, durante le visite e le analisi, nelle sale d’aspetto, negli ospedali, non sono riuscite a esprimere apertamente la loro ribellione contro questo sistema sanitario che ci sfrutta, ci offende e ci opprime, soprattutto noi donne, in un modo ancora più pesante rispetto agli uomini.
La nostra lotta è cominciata da qui, ma non finirà qui.
Volenti o no, gli enti mutualistici, gli ospedali, i medici, la provincia, il comune, lo stato, da oggi in poi dovranno fare i conti con noi e le nostre lotte.
La lotta delle donne della Solari si è conclusa recentemente con i seguenti risultati:
1) permesso retributivo durante l’orario di lavoro per tutte le visite specialistiche;
2) estensione anche alle mogli degli operai del pap-test, corredato da una eventuale terapia;
3) riconoscimento specifico della «Com missione salute donna» all’interno del Consiglio di fabbrica.