racconto
storia dei luoghi di una storia
le stanze seguono una dopo l’altra, un vano un muro crollato un altro vano ridotto a un largo buco come un corridoio. Mattoni sconnessi poca luce se non qua e là da squarci del soffitto.
Il percorso s’interrompe. La costruzione continua a destra ad angolo retto, gli ambienti si fanno più bui questo lato sembra coperto da piani superiori. Negli angoli mucchi di mattoni e di calcinacci ferri rugginosi sporgenti da massi di cemento. Il cammino si complica non più lineare e obbligato. Svolto a sinistra poi a destra ancora avanti. Mi guida un ricordo preciso non riconosco i luoghi eppure so dove andare.
Nessun rumore esterno scalpiccio dei piedi rimbombo dei passi con echi a distanza rotolii di pietruzze inciampi improvvisi. Itinerario inevitabile. Nessuna volontà di conoscenza mi porta; che io voglia o non voglia, abbia timore o no — e ne ho moltissimo — non posso andare che là. Potrei anche tornare indietro, senza alcuna probabilità che lo faccia. Non si tratta di fatalità piuttosto un insieme di circostanze. La scala è in fondo a destra, un ammasso di macerie più consistente degli altri, irriconoscibile. Vi salgo senza troppe difficoltà appoggiandomi al muro più per le vertigini che per rischio di cadere. Anche al piano superiore la luce è appena un barlume. Sono in una cantina, sono discesa o salita?
La luce proviene dalla stanza vicina. Bisogna affrettarsi. Anche se non si sentono passi bisogna approfittare della momentanea solitudine, la scala a pioli è appoggiata. Ormai sono entrata. Ho chiuso la botola.
Il luogo in cui mi trovo apparentemente somiglia a quelli che ho appena attraversato, è quasi buio e vi regna un abbandono totale. La differenza è nei balconi che però sono ermeticamente chiusi con le imposte serrate da lucchetti, e nei mobili accatastati coperti di teli e soprattutto di polvere. Decenni di polvere. Ragnatele scheletri di sedie capovolte tavole tarlate rotoli di tappeti rigidi nelle pieghe incartapecorite.
Apro tremando la porta sul fondo, attraverso la seconda stanza che è pressoché identica alla prima, mi fermo davanti alla porta che si trova in posizione analoga alle precedenti. Nonostante la lentezza dei miei gesti sento l’affanno alla gola come un fragore che copre tutto invade il silenzio circostante sale perfino a spegnere il cigolio della maniglia che gira dei cardini rugginosi della porta, che striscia intoppa pesantemente sul pavimento.
Il letto è basso, proprio di fronte alla porta. Al rumore s’è alzata sui gomiti e mi fissa senza sorpresa, mi scruta con insistenza. I capelli scaruffati la guance pallide magre e pendule gli occhi nello sforzo di guardare sembrano due chiodi scuri confitti in un muro bianco.
— Finalmente. E chiudi la porta, mi viene un’affilatura d’aria giusto qui — e ‘appoggia la mano alla tempia sinistra. La voce ha inflessioni dialettali più forti di quanto io ricordassi.
— Bisognerebbe abituarsi alle correnti d’aria. Io invece con queste nervalgie devo chiudere sempre porte e finestre. Mi abbraccia attaccandosi al collo nel suo modo convulso appassionato e lunghissimo. Resisto male così piegata e intanto avverto con pena la leggerezza del suo corpo scheletrico. Accosto una sedia al letto ma il legno scricchiola e si piega da una parte. Per farmi sedere sulla sponda del letto sposta le gambe che sembrano occupare uno spazio minimo. Anche le braccia, che s’intravvedono tra le maniche della camicia e lo scialle sono scarne e percorse da vene come corde grosse e tese. Mi guarda con attenzione:
— Sei pallida e hai l’aria stancaanche se sei più grassa.
— E’ stato un viaggio faticoso.
— Non ti vedo mai. Una volta o l’altra non mi trovi più qui.
— Ho avuto molto da fare. Sto cercando casa.
— Anch’io ho avuto molto da fare.
— E’ diventata troppo piccola. E per il lavoro è troppo lontana.
— Figurati che ho dovuto sistemare tutti gli abiti nell’armadio della stanza in fondo. Peccato però. Una casa così piena di comodità in un quartiere signorile.
— Sì, ma è molto piccola.
— A proposito, quando vai nella nuova casa mandami la chiave e anche quella del portone.
— Da quanto tempo non esci di qui?
— Non lo so, il tempo passa e non me ne accorgo. Le ho avute sempre le chiavi di casa tua. Io e tuo padre. Anzi, ti avevamo detto che dovevi lasciare per noi una stanza. Invece hai occupato anche quella. Com’è il tempo fuori?
— Grigio coperto però non piove.
— Sentivo l’aria umida. Mi ha ripreso la nervalgia. — Vuoi un’aspirina?
— Ora sono stanca e voglio dormire un po’. Perché non vai a cercarmi l’uva di Sant’Angelo, l’uva per la malvasia? La portavano a ceste e la nonna la conservava sotto il letto. Te la ricordi tu la nonna Brigida?
— Non l’ho mai conosciuta.
— Era tanto bella. Mi teneva con sé quand’ero bambina nella sua casa sotto la Torre proprio sul mare.
— E tu non avevi paura di quel mare sempre tanto scuro e cupo sotto la Torre?
— No, non credo. La sera quando la casa diventava buia, allora s’usavano le candele a Sant’Angelo, la nonna mi portava a dormire nel suo lettone e metteva le lenzuola fresche e pulite per me.
La voce si è fatta più lenta e debole. Mi avvicino per baciarle le tempie che si distendono nel sonno. Mi ferma un rumore improvviso dal fondo della camera alle mie spalle, uno strofinio che aumenta d’intensità un raspare un graffiare un po’ sordo e trattenuto.
Alla porta non v’è traccia di presenza alcuna. Dopo una pausa in cui mi convinco di aver sentito echi esterni, avverto più vicino e distinto il rumore anzi mi accorgo che le ante dell’armadio hanno una vibrazione come se qualcuno dall’interno tentasse di aprirle.
Nonostante il sonno lei s’accorge della mia esitazione:
— Aprigli, mormora con un filo di voce senza aprire gli occhi, è Costantino.
Spalanco i battenti dell’armadio che nella penombra appare così pieno da traboccare. Infatti una balla di coperte panni smessi lenzuola mi cade addosso e insieme un rotolio di pelo e di zampe.
Il muso lungo di Costantino mi annusa le scarpe e le calze, l’orlo della gonna poi con un soffio e uno scuotimento energico del pelo per sgranchirsi e assestarsi si rivolge verso il letto. Si ferma a distanza, non osa saltarvi su e fissa mia madre insistentemente. Infine con aria rassegnata si siede sulle zampe posteriori e resta a guardarlo. A stento rimetto nel mucchio tutti i panni caduti.
La porta dell’armadio ha dei riflessi inaspettati, trasparente come una tela leggera e consunta colore del legno. E’ il paravento della camera dei nonni, lo spingo per passare nell’angolo della camera che fa da spogliatoio. Ai pioli sono appesi uno sull’altro abiti vecchi e rattoppati e hanno un odore nauseante di sudore e di terra. Il nonno è seduto sulla cassapanca. E’ appena salito dall’orto e sta sfilandosi i calzoni sporchi di fango agli orli; il terriccio secco scricchiola sotto gli scarponi. Finge di non vedermi perché si vergogna di mostrarsi in mutande con le sue gambe bianche e glabre.
Giro lo sguardo agli abiti della nonna per fargli credere che non l’ho,notato. Con la coda dell’occhio osservo che si copre con cura mentre borbotta parole che non capisco, S’impazientisce a staccare da un piolo l’abito da gasa, benché i movimenti siano agili e affatto rigidi per la vecchiaia. Poi avvolge una sciarpa attorno al collo e si copre con la berretta di velluto blu. E’ molto bello anche se troppo pesante. Esce fuori dal paravento impettito, lo sguardo fisso imbarazzato.
— Povera Costanza, lo sento rivolgersi alla figlia senza aspettare risposta perché si è accorto che dorme, sempre così delicata di salute. Ma il ragionamento include la mia presenza mi richiama ai miei doveri. Tutto è silenzioso, anche Costantino nella identica posizione s’è appisolato e ronfa leggero. Passo nelle altre stanze badando a non sollevare troppa polvere e a non appoggiarmi.
La poltrona di vimini è ancora accanto alla stufa di terracotta, ma capovolta, e il tubo ricurvo del tiraggio è squarciato e mostra le sue nere viscere inutile. Al balcone la porta è socchiusa e di tanto in tanto sbatte al vento. Mi affaccio al ballatoio, la sensazione del vuoto sottostante mi fa tremare le ginocchia e aggrappare saldamente alla ringhiera. Nel cortile sottostante passeggia una donna che allatta un bambino e intanto chiacchiera con una vicina. La pelle bianca delle mammelle è avvizzita o il vento le fa accapponare e rabbrividire. Lo strano è che il bambino non ha l’età di un lattante sembra più grande e con una mano preme con forza. Infine si stacca. La donna chiude l’abito ma il bambino piange forte e si lamenta, lei allora tira di nuovo fuori la mammella. Quello s’attacca per un po’ poi si stacca ancora. Altri strilli. Questa volta la madre, senza smettere di parlare gli porge l’altro capezzolo e tutto va avanti per un pezzo, finché il bambino stesso, quando la madre gli toglie la mammella credendolo finalmente sazio, con la manina scura e prepotente gliela tira fuori. Non resisto oltre e sentendomi mancare rientro per cercare nell’oscurità di un angolo nascosto di aprire in me stessa una via ben nota, fino al momento in cui una traccia naturale come quella di una lumaca benché più lieve mi bagnerà la mano. Non faccio più caso alla polvere del canapé al vecchio attaccapanni rovesciato che rischia di rovinarmi addosso. Ma la sua voce tagliente e accusatrice mi sorprende alle spalle. Non ho la forza di risponderle, di affrontarla. Mi alzo, mi asciugo le parti umide contro la gonna, m’incammino verso la porta del ballatoio, l’accosto dietro le mie spalle. Sento Costantino abbaiare chiuso nella camera da letto, rabbioso sanfedista.
— Ora vienimi dietro vecchia ipocrita canaglia.
Per le scale tornano i rumori l’acqua rovesciata che porta via la polvere i gerani ancora fioriti gli ultimi stecchi verdi di basilico. Attraverso la portella di legno mi trovo nel giardino.
E’ cambiato. Avverto la presenza di mani e testa estranei. Non mi riconosco. Il pergolato è scomparso e i rampicanti che coprivano il muro di cinta, divelte (una rapina) le pietre delle aiuole lungo i vialetti. Sì, gli spazi ordinati la terra smossa di recente i pomidoro i finocchi i cavoli ben curati nuovi alberi da frutto: non il giardino dei nascondigli segreti che si dilatava negli intrichi del gelsomino giallo o nel buio dei rami d’edera sostenuti da graticci curvi dagli anni: uno sparuto rettangolo di terra coltivato ad insalata. La bocca nera del celialo mi vorrebbe rassicurare:
— Calmati, ci sono sempre io.
Infatti è uguale, chiuso con catena e lucchetto; in basso oltre i tre scalini la zappetta l’innaffiatoio — pieno non riesco nemmeno a’ sollevarlo da terra — le zappe, le grosse forbici e oltre la grata del ripostiglio i barili alti e stretti, i graticci per seccare la frutta al sole.
Non vorrò abbandonarmi a un elogio del tempo antico, non vorrò proporre il ritorno alla civiltà contadina e ricordare il nonno come superstite dal momento che di noi è stato l’ultimò a fare da sé il vino? Perché evocare immagini consuete proporre questioni tanto presenti? Il dilemma è qui: da quel giardino cancellato non sono mai uscita e le stanze abitate che hanno accolto e poi lasciato svanire le mie tracce sono pareti mobili e temporanee, quinte, praticabili che si tolgono secondo le esigenze di scena. Ma dove mi trovo, quale il mio giardino la casa dei nonni le zappe leggere adatte alle mie braccia? E ancora ritorna la solita domanda il perché di questo scritto, della inutile tortura e della irrinunciabile necessità di sedere a questo tavolo inseguendo chimere che non riguardano nessuno. Così la sicurezza del racconto (che ha il più modesto degli autori) in me non esiste. E dunque perché intestardirmi a dire se non credo di dover dire. Il tormento è proprio questo avvertire in ogni occasione quel pensiero segreto: «questo è da dire» oppure «ecco ora invece di perdere tempo potrei scrivere» o ancora «si dovrebbe appunto scrivere questo e l’avrei già fatto se…». Tanti anni trascorsi dedicandomi a tutt’altro, e provando sempre ma con poco tempo, e negli intervalli, e con scarsa concentrazione. Una vita tanto anonima e a volte così poco meditata e lasciata scorrere per molti anni in quella che ora mi pare incoscienza e forse non era, se non resa a ciò che non si poteva evitare senza lotte e crudeltà verso gli altri e verso’ di me e sofferenze per tutti, e che infine chiamo frode verso me stessa le speranze e le possibilità, le capacità che avevo. Pensare oggi che la vicenda sia esemplare e possa servire ad altre è presunzione. Ogni esistenza ed ogni generazione ha le proprie speranze e le proprie forze, ed io dalle ragazze ho più appreso di quanto abbia dato.
Non esiste possibilità d’invenzione se non di ciò che già sono. La fantasia non riesce ad inventare niente al di fuori di un giardino che non è più tale, muovendosi tra quinte e finti fondali che vengono rapidamente rimossi, via via che la scena cambia.
Le scena è cambiata radicalmente. La storia della mia ribellione all’autorità degli adulti, alle inibizioni dei parenti non ha ragion d’essere oggi in una società permissiva (benché falsamente permissiva — P.P. Pasolini —). Posso andare più in profondo e tracciare una storia più personale che esemplare, ne ho la forza?