continua il dibattito sulla stampa femminista
Care compagne di Effe, «È indispensabile sottolineare che la concezione patriarcale o borghese della donna si è affermata anche all’interno della classe operaia… (…) In realtà, qui siamo su uno dei terreni sui quali più evidente si manifesta la necessità di una lotta di classe a livello della concezione del mondo, della sovrastruttura: la necessità di una rivoluzione culturale, che induca le donne a ricostruire la loro personalità (che è una formazione storica) e induca gli uomini a modificare radicalmente la loro concezione del rapporto uomo-donna. L’esperienza ci insegna che in quei paesi dove la lotta di classe non è continuata anche dopo la rivoluzione proletaria — e anche a livello della sovrastruttura — il processo di emancipazione femminile, di cui pure erano state poste le premesse, si è arrestato e ha cominciato a camminare a ritroso».
Così leggiamo nell’editoriale del primo numero di «Compagna»: il mensile (edizioni Dedalo, Bari, direttore responsabile Laura Lilli) che uscì nel 72 proponendosi un’analisi della questione femminile in termini rigorosamente marxisti e di classe, ma in cui il discorso sulla «sovrastruttura» fosse altrettanto importante e contemporaneo a quello «strutturale». Dice ancora quell’editoriale che i passaggi fondamentali per arrivare a una vera e propria liberazione femminile sono, da un lato, il pieno impiego, dall’altro l’abolizione della figura della «casalinga» e la cancellazione dei «ruoli», i quali «mantengono in vita la causa determinante della lacerazione della personalità femminile. Cancellare tutto questo significa socializzare completamente i lavori domestici, trasformare l’organizzazione e la concezione stessa della famiglia e in primo luogo modificare radicalmente il rapporto tra i bambini e la società. Significa rivoluzionare la concezione che della donna e del suo posto nella società e nella famiglia hanno gli uomini e la maggioranza delle donne stesse». «Compagna» si poneva — sempre stando a quel primo editoriale — «come strumento di lavoro per intraprendere un’analisi delle esperienze ” non finite ” di liberazione femminile ” preparando l’opinione pubblica rivoluzionaria sul terreno della questione femminile “; e come primo momento di possibile raccolta e dibattito delle esperienze effettuate a livello teorico e pratico dai vari collettivi che sulla questione femminile partono dalle nostre stesse premesse e dalla nostra scelta di classe».
Tutto questo fu solo cominciato. La rivista ebbe vita breve, fino a maggio (quattro numeri, di cui l’ultimo doppio). Dissensi interni, una accoglienza da parte del PCI che definire «ostile» sarebbe dir poco, e che non fu riservata, in seguito, a nessuna altra pubblicazione femminista, e una repentina quanto unilaterale decisione di chiusura da parte dell’editore ne decretarono la morte. Oggi si può dire forse che «Compagna» usci «troppo presto»: una rilettura della breve collezione conferma tuttavia che, collocandoli nel quadro di una analisi che oggi comincia a trovare sempre maggiori consensi nella sinistra istituzionale, in quella meno «ortodossa» e in molti gruppi che si definiscono «solo» femministi, la rivista aveva individuato e colto con precisione pari all’anticipo temi che poi sarebbero diventati di furioso interesse generale, dilagando soprattutto fra le nuovissime generazioni. «Compagna» parlò di aborto e divorzio in termini ben più vicini al modo in cui oggi vengono posti dai movimenti di liberazione femminile che non al modo (scarso, e suscitante paure in tutti) in cui venivano posti in quel 1972 che, per quanto riguarda il discorso sulla liberazione femminile, oggi sembra lontano di decenni. (Non c’era stato il XIII congresso del PCI, non il IX congresso dell’UDI, non il referendum; l’intera sinistra extraparlamentare «snobbava» la questione femminile demandandola ad un generico «dopo», mentre nei partiti i movimenti femminili erano più o meno dei ghetti. In più, il 72 fu l’anno della svolta a destra: l’editoriale dell’ultimo numero di «Compagna» prende posizione anche su questo punto). Si diede subito importanza alla questione famiglia e ai «ruoli»; fu riletto Engels; e fu letto Laing-Estérson; si tentò di «smontare» (in termini culturali) l’educazione femminile come condizionamento schiavistico della donna nella società con una rubrica fissa — «Controletture» — in cui si rianalizzavano i classici vecchi e nuovi sulla donna, dalla «Sonata a Kreutzer» di Tolstoi a «La donna e il lavoro» di Evelyne Sullerot, dichiarando. In apertura di rubrica, che, nei milioni di pagine scritte nella cultura occidentale la donna era «la faccia in ombra del pianeta uomo»; che si sarebbero analizzati anche i silenzi, significativi quanto le teorie distorte; che c’era un’«Altra bibliografia» da costruire. Grande rilievo ebbero i temi della donna che lavora in fabbrica ma anche in ufficio; con saggi e cifre sull’«esercito di riserva» e con testimonianze piuttosto nuove per l’epoca. Le operaie della Voxon di Roma e della Siemens di Milano che parlarono rispettivamente di «aborto bianco» (e quindi questioni relative alla salute) e della difficoltà di essere «operaie» •— donne che lavoravano accanto a «operai» — uomini. Parlarono anche le segretarie, chiuse nei «ghetti con moquette»; le centraliniste dell’Eni.
Si «rilesse» la Comune di Parigi e il ruolo che vi avevano avuto le donne; si parlò — per la prima volta in Italia — della «metà del cielo» cinese (una testimonianza di Maria Antonietta Mac-ciocchi, che era appena stata in Cina); si produsse un’ampia documentazione — anche foto e cartoline dell’epoca — sul «fascismo e la donna», un tenia diventato di attualità in questi ultimissimi tempi. Ancora, da segnalare, un saggio di Giovanni Cesareo su «Famiglia ’72», tuttora valido; una analisi del matriarcato americano attraverso i fumetti.
Oltre a questi «fatti», c’erano poi le intenzioni: «Compagna» intendeva aggredire la questione femminile nei suoi aspetti scientifici: salute; rapporto natura-cultura; psicanalisi. Avevamo nel cassetto, ad esempio, la denuncia che Phillis Chessler, psicanalista femminista americana, fece, in nome delle donne del suo Paese, alla Società Americana di Psicanalisi, chiedendo addirittura un indennizzo in denaro. Più discutibile la parte internazionale della rivista: con documenti dai movimenti di liberazione di Paesi dell’Africa e del Sud America che apparivano spesso casuali ed erano privi di serie e contestuali annotazioni. C’è ad esempio, una lunga documentazione sulla condizione della donna in Albania di stampo terribilmente agiografico, in evidente contrasto con l’editoriale del primo numero e il cui significato stava semplicemente nell’intenzione provocatoria della scelta del Paese socialista filocinese. Certo, il tentativo fu ambizioso. Si voleva da un lato riaffermare la continuità «comunista»: e lo prova, più di tutto, il titolo della rivista, che riprende una vecchia testata del PC d’I e addirittura la riproduce in copertina, numero per numero; dall’altro, si volevano sottolineare e documentare certi cedimenti della sinistra istituzionale. Per esempio si pubblicò, nel secondo numero, un documento inedito, di notevole valore storico: una lettera scritta, alla vigilia dell’insurrezione antifascista al «Nord» inviata dai «Gruppi della difesa della donna» all’UDI di Roma. Nel primo numero, insieme all’intervento, di cui si è detto, di Maria Antonietta Maccioc-chi sulla condizione femminile in Cina, c’era un articolo di Teresa Noce su come nacque la legge che tutela la maternità in Italia. Si citò spesso Camilla Ravera; in cantiere c’era un ritratto di Pia Carena Leonetti. Questo linguaggio «di classe», questo ricorso a personaggi del mondo comunista e il fatto evidente che obiettivo ideale di «Compagna» era un pubblico politicizzato, quello che forse la commissione femminile del PCI giudicava sua esclusiva riserva: fu forse questo a provocare la reazione settaria di cui si è detto da parte del Partito Comunista. Alla presentazione del primo numero la rappresentante della commissione femminile del PCI si scagliò con violenza contro il collettivo femminista (il quale, si badi, era composto di uomini e donne), accusandolo di «provocazione». Di eguale tenore fu un trafiletto che comparve il giorno dopo sull’«Unità». (Per «Effe» questo non avverrà: nei frattempo, d’altronde, anche nel PCI e nella stessa UDÌ molto è cambiato: il merito di tale cambiamento, è indiscutibilmente, in parte, di «Compagna»). Al tempo stesso, questo linguaggio «di classe» non era approvato da parte del collettivo che proveniva da esperienze come Rivolta femminile, o anche Movimento di liberazione della donna: femminismo non marxista, cioè, o comunque «sessista». Così il tentativo di sintesi e di mediazione fra due modi di fare cultura e politica violentemente opposti, non ebbe tempo di «dirsi» fino in fondo: di essere capito, digerito; e anche di modificarsi e di «crescere» dove avrebbe dovuto. (Quando il collettivo di «Compagna» si sfasciò, alcune componenti, Adele Cambria, Danielle Turone, Grazia Francescato – passarono a «Effe»).
Ciò non toglie nulla al grande merito storico di questa rivista: che infatti di questi tempi viene più e più riscoperta. Forse non è presunzione definirla una bomba a scoppio ritardato nel neo-femminismo italiano.