” psicoanalisi e femminismo”
un libro da leggere e da discutere
«La maggioranza del movimento femminista ha identificato in Freud il nemico. Si ritiene che la psicoanalisi asserisca che le donne sono inferiori e che possono conseguire la vera femminilità solo in veste di mogli e di madri; si pensa che essa serva a giustificare lo status quo borghese e patriarcale, di cui Freud è ritenuto la personificazione.
Convegno che il freudismo popolarizzato si attaglia a questa descrizione; ma questo libro vuole provare che il rifiuto della psicoanalisi e delle opere di Freud è fatale al femminismo. Qualunque sia l’uso .che è stato fatto della psicoanalisi, essa non è in favore di una società patriarcale, ma si limita ad analizzarne una; se ci interessa comprendere e combattere l’oppressione della donna, non possiamo permetterci di ignorarla».
Queste le battute iniziali della Mitchell nel suo ultimo libro «Psicoanalisi e femminismo», uscito in Inghilterra nel 1974, edito in Italia dal «Nuovo Politecnico Einaudi» 1976. Juliet Mitchell, già nota anche in Italia per il volume «La condizione della donna», apparso nella stessa collana nel 1972, vive a Londra e lavora nel gruppo del Women’s Liberation Works-hop.
Il libro, almeno qui da noi, non ha ancora suscitato reazioni, o almeno pare, a causa del silenzio che lo ha seguito. Le ragioni di questo atteggiamento «distratto» di molte compagne femministe, sono, per certi aspetti in contraddizione con gli sviluppi recenti e con le reali possibilità di crescita dell’intero movimento femminista in Italia. Molte compagne ci dicono d’essere spaventate dalla mole del libro, di non avere tempo, o anche di non aver interesse per queste cose, o di non capirci niente. Questi problemi ci sono realmente, ma non vanno esorcizzati, quanto piuttosto indicati come problemi di fondo per lo sviluppo di un movimento femminista che abbia non solo il corpo, ma anche la testa.
Per troppo tempo, noi donne siamo rimaste estranee a qualsiasi tipo di dibattito che fosse riferito all’immediato, regalando sempre ai maschi il privilegio della teoria.
Da noi, in Italia, l’interesse femminista per la psicoanalisi è divenuto progressivamente più scarso, restando confinato per lo più in gruppi ristrettissimi di «spécialiste» e nella sostanza estraneo al movimento nel suo complesso.
È giusto che «Effe», l’unica rivista femminista presente a livello nazionale, non solo ospiti articoli come questi, ma si faccia essa stessa portatrice dell’esigenza di «superare il muro di cinta», fornendo anche alle sue lettrici strumenti di dibattito efficaci. A questo punto sorge l’inevitabile problema del linguaggio che deve, e può essere semplice e non specialistico, chiaro ma non banale.
Se le compagne sono d’accordo con queste osservazioni, ora possiamo anche parlare del libro e, vi preghiamo, non accusateci di intellettualismo. Premettiamo che il libro, per il modo in cui è strutturato, non è di difficile comprensione: c’è una tesi centrale volta a mostrare che il Freud antifemminista del quale siamo abituate a parlare è il Freud della vulgata, la cui recezione da parte del movimento femminista, in particolare quello africano, ha impedito finora al femminismo di scorgere nella psicoanalisi (depurata dalle inquinazioni postfreudiane) uno strumento solido di cui appropriarsi. Da ciò si capisce come l’interesse principale della Mitchell sia rivolto soprattutto alla «scoperta del vero Freud» ed infatti la prima parte del libro, che poi è anche la più corposa, è una ricostruzione puntuale del pensiero freudiano con ampi riferimenti alle sue opere principali (I «Tre saggi sulla teoria sessuale», «Il disagio della civiltà», «Al di là del principio del piacere», «Psicopatologia della vita quotidiana» età), ai vari casi clinici da lui analizzati, agli articoli e ai vari frammenti scritti.
Da questo punto di vista il libro può anche essere un’ottima introduzione alla lettura di Freud. La parte centrale costituisce una critica ed insieme una esposizione del «pregiudizio antifreudiano» che ha accomunato storicamente gli analisti postfreudiani (e tra questi Reich soprattutto per l’influenza che ha avuto nei confronti del movimento femminista) e le teoriche principali del neo femminismo del dopoguerra: Simone de Beauvoir, Eva Figes, Germaine Greer, Shulamith Firestone, Betty Friedan, Kate Millet, rispettivamente autrici di: «Il secondo sesso»; «Il posto della donna nella società degli uomini», «L’eunuco femmina», «Dialettica dei sessi», «La mistica della femminilità», «La politica del sesso».
Più interessante, anche per la novità del riferimento, è la parte del libro dedicata alla «psicoanalisi esistenziale» di Laing, noto soprattutto per i suoi studi sulla famiglia e sulla schizofrenia. Ma su questo ci ritorneremo. Per chi ha letto già l’altro volume della Mitchell «La condizione della donna», è facile avvertire un certo disagio per la diversità e il tono che caratterizzano «Psicoanalisi e femminismo»; si ha l’impressione, e la Mitchell stessa pare rendersene conto, di trovarsi di fronte ad un buon lavoro di ricostruzione filologica, — soprattutto le parti dedicate a Freud, Reich, Leing — che tuttavia ha il difetto di presentarsi carente quanto a riferimenti di ordine concreto alle realtà del movimento femminista. La riscoperta di Freud corre il rischio di tradursi, a nostro avviso, in una operazione intellettualistico-astratta, nella misura in cui esprime la pretesa che la psicoanalisi in quanto tale possa costituire il fondamento teorico del femminismo con la conseguente riduzione del femminismo a mera ideologia liberatoria. Sicché lo stesso rapporto con la psicoanalisi risulta acritico — ma con segno rovesciato — allo stesso modo di quanto accade ai revisionisti neofreudiani.
Chi sono i revisionisti neofreudiani
Il revisionismo neofreudiano, che costituisce l’obiettivo polemico di fondo del libro della Mitchell, ha rappresentato storicamente il tentativo di sviluppare la critica sociale implicita nella teoria di Freud.
È il caso per es. di W. Reich il quale orientò la psicoanalisi sul rapporto tra la struttura sociale e quella degli istinti. Egli rivelò la misura nella quale la repressione sessuale viene rafforzata dagli interessi del dominio e dello sfruttamento e mise in evidenza fino a quale punto questi interessi vengano rafforzati e riprodotti a loro volta dalla repressione sessuale. E tuttavia, e in questo condividiamo l’acuta osservazione della Mitchell, nonostante il maggior radicalismo politico delle posizioni di Reich (del primo Reich soprattutto «è il radicalismo di Freud che ha da offrirci di più»).
Le obiezioni principali che i revisionisti sollevano contro Freud si possono così riassumere: Freud ha gravemente sottovalutato la misura in cui l’individuo e la sua nevrosi sono determinati da conflitti con l’ambiente. L’orientamento biologico di Freud lo portò a concentrare tutta la sua attenzione sul passato filogenetico e ontogenetico dell’individuo. Egli considerò che il carattere si fissa nei suoi elementi essenziali al quinto o al sesto anno d’età, ed egli interpretò il destino dell’individuo nei termini degli istinti primari e delle loro vicissitudini, particolarmente della sessualità. I revisionisti invece spostano l’accento «dal passato al presente», dal livello biologico a quello sociologico, dalla «costituzione» dell’individuo all’ambiente in cui vive. Ora, il motivo che spinge la Mitchell ad indicare con rigore e piglio polemico i limiti di tali posizioni è che lo stesso femminismo ha assorbito e fatto proprio, in una maniera a dire il vero poco «critica» il revisionismo neo freudiano, individuando in Freud il responsabile, o quasi, di tutti i mali delle donne. Le accuse che da parte femminista sono state rivolte da sempre a Freud sono, schematicamente riducibili a questa: Freud aveva una concezione reazionaria della donna in quanto riteneva che il processo di formazione del carattere femminile fosse nella sostanza segnato da eventi decisivi, nell’ambito dello sviluppo dei due sessi, tale da incombere per sempre sul «destino» della donna.
Brevemente ripercorriamo, per chiarezza, le tappe principali dell’analisi freudiana della sessualità e della femminilità.
«Le prime fasi dello sviluppo della libido sembrano essere comuni ad ambo i sessi… Con l’entrata nella fase fallica, le differenze dei due sessi rimangono completamente in secondo piano di fronte alle concordanze. Dobbiamo ormai riconoscere che «la piccola bambina è un piccolo uomo», le cui sensazioni erotiche derivano dall’eccitazione del suo piccolo pene (clitoride). In questa fase, in cui i ruoli sessuali non sono ancora stabiliti, i bambini credono che tutti abbiano un pene; entrambi i sessi concentrano la propria attenzione sulla madre, unico «altro importante». La scoperta o la percezione dei genitali del sesso opposto, la scoperta della differenza e «si deve ammetterlo, anche della sua importanza», insieme all’esperienza del rapportò del padre con la madre, pone in crisi il rapporto con la madre. L’identificazione positiva con la madre è ora respinta. Il bambino fugge l’identificazione perché identificarsi significherebbe essere come la madre, essere castrato; ricorda le minacce che ha ricevuto a causa del pene e «sotto l’impressione» del pericolo di perdere il membro, il complesso edipico viene abbandonato, rimosso nei casi più normali, radicalmente distrutto e, come suo erede, viene istituito un severo Super-io».
Se il complesso di evirazione dissolve completamente il complesso edipico nel bambino (nella situazione edipica egli scopre che erediterà il posto del padre) ; accade il contrario per la bambina, per la quale, mancando la paura d’evirazione del Super-io dovrà soffrirne. La bambina rende responsabile la madre per la propria mancanza del membro e dato caratterizzante di questa fase sarà l’ostilità nei rapporti con la madre egualmente evirata. La clitoride non regge il confronto con il pene e la bambina rinuncerà alla soddisfazione masturbatoria clitoridea, rimuovendo buona parte della sua sessualità. Ma non rinuncerà al pene: tale desiderio è mantenuto nell’incoscio e conserva una notevole carica energetica. L’invidia del pene fa nascere a sua volta nuovi conflitti: da un lato trasferisce sul padre l’amore per la madre, (il desiderio d’amare il padre vuol dire rivalità con la madre, ma anche, come per la madre, accettazione del maschio come potenza). Di fronte e dietro il padre c’è la madre: la castrazione è per la bambina la negazione del primo oggetto d’amore; dietro l’amore di ogni bambina per il proprio padre si nasconde l’amore per la madre; per poter trasferire il proprio desiderio attivo dalla madre al padre, la bimba deve identificarsi con la madre. A questo amore per il padre corrisponde una genitalità costruita sulla propria castrazione, («con la svolta verso la femminilità la clitoride deve cedere la sua importanza in tutto o in parte alla vagina»», sulla rinuncia delle mete attive.
Identificazione con la madre-castrata-dominata; sostituzione della vagina passiva alla clitoride attiva: la piccola bambina-piccolo uomo diventa piccola donna.
Gli elementi di incompatibilità tra Freud e il femminismo sono pertanto da ricercarsi nell’analisi freudiana dello sviluppo ontogenetico (lo sviluppo dell’individuo). Per Freud la differenziazione tra i due sessi, con la conseguente dinamica di costituzione di un sesso più forte (quello maschile) e di un sesso più debole (quello femminile) è un processo che si svolge al di qua della formazione cosciente degli individui e riguarda la preistoria dell’umanità e di ciascuno di noi. Per il femminismo antifreudiano l’inconscio freudiano viene immediatamente recepito come regno del «biologico» e del «naturale» quindi è facile muovergli l’accusa di aver ridotto ciò che è un prodotto storico-sociale (l’inferiorità della donna) ad un fatto meramente naturale. A ciò si aggiunga poi l’atteggiamento privato di Freud nei confronti della propria fidanzata, Martha Bernays, alla quale scriveva: «È proprio un aborto l’idea di inviare le donne al pari degli uomini, nel vivo della lotta per l’esistenza. Se per esempio io immaginassi la mia dolce e gentile fanciulla come una concorrente, finirei per dirle, come feci diaciassette mesi fa, che sono innamorato di lei e che la imploro di ritirarsi dalla battaglia per dedicarsi alla quieta attività senza contrasti del mio focolare». È facile, a questo punto, come nota la Mitchell identificare in Freud il nemico da sconfiggere e risolvere la psico-analisi in una sorta di pregiudizio maschilista. I tentativi più banali in questa direzione hanno prodotto fino ad oggi solo scimmiottature al posto di un rapporto realmente critico nei confronti di Freud.
Una critica a Freud che si limiti ad estrapolare la sua teoria della femminilità dal contesto complessivo della teoria analistica — sostiene la Mitchell — è cosa poco seria; e aggiungiamo noi infeconda. E fin qui siamo d’accordo, Ma pur condividendo con lei queste preoccupazioni, abbiamo l’impressione che neppure ella sfugga ad una certa «deformazione». La Mitchell dichiara di voler difendere Freud dalle popolarizzazioni e soprattutto dalle revisioni e la cosa è abbastanza comprensibile. Ma ci pare che, a questo punto, presa dalla polemica, incorre nel pericolo di aver scritto un libro che non ha molto da dire al movimento femminista, nonostante le buone intenzioni se non che è necessario ritornare a Freud». Una indicazione forse un pò conservatrice! Ci spieghiamo subito.
Il libro ha il grosso merito di sottolineare numerosi aspetti della teoria psicoanalitica troppo spesso liquidati sommariamente, così come ha il pregio di fornire materiale eccellente per la conoscenza di molti autori e autrici (eccellente è la ricostruzione della vita e dell’opera di W. Reich) e soprattutto stimoli grossi di riflessione. E questo non è certamente poco se si pensa «al luddismo» culturale che si va diffondendo un pò dappertutto. Ed è questo che ci auguriamo che le compagne leggano il libro. Ma mi sembra anche giusto fare delle osservazioni, che probabilmente saranno schematiche e un pò estremiste, ma speriamo di poter tornare di nuovo sull’argomento nei prossimi numeri di Effe, sempre che le compagne ritengano utile la cosa.
L’osservazione di fondo che ci sentiamo di dover fare alla Mitchell è la seguente: la psicoanalisi per la Mitchell è una scienza pressoché «eterna» perché il suo oggetto è la società umana in generale nella sua forma «ridotta» dell’inconscio; Freud ha avuto il merito di avere scoperto le leggi universali operanti nella formazione degli individui e in particolare dei due sessi; dunque la psicoanalisi è l’unico strumento che consente alle donne, autoanalizzandosi, di scoprire la propria natura e appropriandosi dell’analisi della legge del patriarcato, sviluppata da Freud, promuovere la propria liberazione ideologica.
«Come la fine dell'” eterna ” lotta di classe si può vedere nelle contraddizioni del capitalismo, così pure, sembra, deve risuonare il canto del cigno della natura ” immortale ” della cultura patriarcale».
Questo modo di assumere la psicoanalisi rivendicandone la validità per il femminismo è, a nostro avviso, acritico e ideologico in quanto elude fin dall’inizio una domanda che pure è fondamentale: perché nasce la psicoanalisi solo con l’avvento della società borghese? perché l’oggetto della psicoanalisi è l’inconscio? e infine perché esiste una scienza psicoanalitica? La possibilità di rispondere a queste domande implica un diverso atteggiamento nei confronti di Freud e della psicoanalisi, che sia fin dall’inizio consapevole delle origini di tale teoria. Altrimenti è inevitabile un restringersi del discorso su Freud allo specifico femminile, per lo più di tipo antropologico e psicologistico. Ci sembra si possa ben dire usando le medesime parole di Adorno, un teorico della scuola di Francoforte, la sola tra l’altro che abbia prodotto contenuti nuovi anche sul terreno della psicoanalisi: «Freud ha avuto ragione dove ha avuto torto. La violenza della sua teoria si alimenta del suo accecamento nei confronti della separazione di sociolologia e psicologia, che a dire il vero è il risultato di quei processi sociali che certi revisionisti chiamano… l’autoestraniazione dell’uomo… …La concezione freudiana dell’arcaicità, per non dire «eternità» dell’incoscio è vera nel senso che le concrete situazioni e motivazioni sociali entrano in quella sfera solo a condizione di trasformarsi, di «ridursi». «Il fatto che l’inconscio e la coscienza non siano contemporanei è esso stesso uno stigma dello sviluppo sociale contraddittorio. Nell’inconscio si deposita tutto ciò che nel soggetto non tiene il passo, ciò che deve pagare lo scotto del progresso e dell’illuminismo. Ciò che è arretrato diventa «eterno». (In questo strato è finita anche l’esigenza di felicità, che in effetti appare «arcaica», non appena mira unicamente alla forma stravolta…). Come la società si isola dalla psicologia, anche la psicologia si isola dalla società, e diventa puerile. Sotto la pressione sociale lo strato psicologico ormai risponde solo al sempre-uguale, e non è capace dell’esperienza dello specifico. Il traumatico è l’astratto. In questo l’inconscio assomiglia alla società di cui non sa nulla e che ubbidisce anche essa alla legge astratta, e serve a cementarla». «Adorno — scritti sociologici — Einaudi».
Abbiamo riportato questo passo per la limpidezza con la quale è svolta la critica a Freud: la psicoanalisi freudiana è la descrizione senza mezzi termini di una realtà in cui gli uomini sono effettivamente atomizzati e separati gli uni dagli altri da un abisso insormontabile. Il presupposto da cui egli muove è l’accettazione di questa struttura monadologica della società. In questo senso è possibile indicare il limite ideologico della psicoanalisi freudiana e al tempo stesso il limite di fondo del libro della Mitchell. La difesa di Freud la conduce in un certo senso agli stessi risultati: ciò che restava fuori dall’orizzonte di Freud, resta fuori anche dal suo orizzonte: l’origine sociale dell’astrattezza, della rigidità dell’inconscio è ipostatizzata da entrambi in una determinazione antropologica. L’uomo divenuto «carcassa del tempo» è anche il bimbo di Freud: il sempre-uguale dell’inconscio è l’equivalente del tempo di lavoro in generale che regola i rapporti di scambio nella società borghese.
Priva di premesse critiche, l’appropriazione del vero Freud da parte della Mitchell rischia poi di ridurre la stessa portata del discorso freudiano sul «disagio della civiltà», eh’è tutto centrato sulla rilevazione dei tratti repressivi della civiltà fino ad oggi. Le conclusioni alle quali si giunge in «Psicoanalisi e femminismo» erano in parte già contenute nelle premesse: la sfera dell’ideologia o del livello culturale è ancora oggi dominata dalla legge del patriarcato la quale «parla a, e attraverso, ogni persona nel suo inconscio… Ha quindi enorme importanza la contraddizione che esiste tra questa legge (ora sostanzialmente superflua, ma che continua ovviamente a parlare nell’inconscio) e la forma della famiglia nucleare.
La famiglia borghese è nata, diciamo così, per prestare ascolto un’ultima volta a quella legge.
Quel che interessa alla M. è di svolgere la critica delle spiegazioni «biologiche» e di quelle «sociologiche» della oppressione delle donne. «Anche se alcuni aspetti importanti di queste teorie sono esatte, sia la formulazione di un problema biologico e la sua soluzione tecnologica, che la spiegazione in chiave «sociologica» del dominio maschile e del suo superamento (…) possono entrambe in sostanza indurre all’errore» (p. 476 ivi).
La spiegazione vera è un’altra: è la «legge dell’ipotetico padre preistorico assassinato» — il riferimento è al mito svolto da Freud in «Totem e tabù» — che definisse il posto che spetta alla donna e all’uomo nell’ambito della storia umana» (ivi). Questo «padre» — prosegue Juliet — «e i suoi rappresentanti, costituiscono l’espressione fondamentale della società patriarcale. Il potere decisivo è dei padri non degli uomini». La conclusione del discorso è di una semplicità sconcertante. «E non si tratta né di biologia, né di una particolare società, ma della stessa società umana» (ivi). Insomma la donna sta fuori della natura e fuori della storia, essa è costituita, nel suo essere attuale, come prodotto «culturale.» della società umana. Qui idealismo e metafisica si danno come al solito la mano. L’uomo — e la donna — ente generico — naturale non ci sono più. La storia si spiega con il mito del padre ucciso, l’oppressione si elimina con la ideologia. La «rivoluzione culturale» riguarda la donna perché essa è «prodotto culturale»; la rivoluzione sociale è degli uomini: la società e la lotta di classe sono ridotte in una dimensione economicistica. Il tempo, con la storia reale, scompare: il presente è la coscienza.
Questo libro va letto. Occorre però che torniamo a parlarne in maniera più determinata. I suoi limiti sono quelli della cultura inglese, in cui il marxismo è stato sempre presente come teoria economica soltanto o come vulgar-materialismo. Ma sono anche i nostri: la liberazione nostra è anche la liberazione dal dominio del feticismo del capitale e del suo stato.