letture
davanti a una pagina scritta
abbiamo parlato molto del desiderio-rapporto con la scrittura. E se cominciassimo a parlare del piacere della lettura?
«Di solito ci avviciniamo ai libri con confuse e contraddittorie intenzioni: chiediamo al romanzo di essere vero, alla poesia di essere falsa, alla biografia di essere lusinghiera, alla storia di difendere i nostri pregiudizi». Questa frase è di una persona che molto sapeva ed esclusivamente si nutriva del misterioso processo dello scrivere, e forse ancora di più, o per lo meno in parti uguali, conosceva le vie segrete, i trabocchetti, le insidie e il linguaggio di quello straordinario nostro mondo parallelo che è la lettura. La frase è di Virginia Woolf, ed è tratta da un piccolissimo intervento — saggio intitolato, per l’appunto, «Come dobbiamo leggere un libro?». In esso sono dette, con garbo e senza parere, cose molto intelligenti, alle quali rimando. Mi è venuto in mente perché da un po’ di tempo è il problema della lettura, più di quello della scrittura, che mi assilla, soprattutto per quanto riguarda la questione sempre aperta del rapporto della donna con la pagina. Siccome però non ci ho pensato abbastanza, o forse non lo so formulare correttamente, lancerò solo un sassolino nello stagno, occultandomi per di più dietro questioni di carattere generale. In questo momento l’editoria italiana sembra puntare in modo massiccio sulla ristampa, sulla riscoperta, sulla riproposta, della narrativa del passato, con predilezione particolare per l’area europea otto-novecentesca. Inutile citare titoli e autori, o segnalare i boom più recenti e accreditati, perché l’elenco sarebbe lungo, e noto. Diciamo che l’operazione sta a mezza strada fra la geniale trovata della B.U.R. di tanti anni fa (quegli adoratissimi libricini grigi che rappresentarono in molti casi la prima iniziazione al mondo parallelo, come Alice quando entra dall’altra parte dello specchio) e il gusto^ esoterico di scoprire l’accanto che è stato fin dal primo volume il marchio delle edizioni Adelphi. Oggi che l’industria culturale è riuscita a saldare il circuito, gli scaffali impolverati su cui si allineavano scritti minori, autori dimenticati o sempre disprezzati, voci sommerse e così via, insomma il coté colto e bizzarro, quello più eversivo o più sofisticato, questi scaffali dicevo vengono puntigliosamente riscoperti, rilanciati, insomma per usare una brutta parola rivisitati. Riflusso, dicono. Può darsi. Ma certo è il trionfo definitivo del passato, luogo di sogni fantasmi e proiezioni, obbligatoriamente interdetto alla narrativa contemporanea, che pure nell’editoria italiana ha un suo spazio ben preciso ed economicamente rilevante. Solo che, tranne in casi rarissimi, non produce memoria e riflessione, (si) alimenta (di) un circuito contiguo che non si interseca mai con l’altro.
non solo la scrittura ma anche la lettura è da riscoprire
Fuor di metafora, la narrativa contemporanea è brutta, scontata, il che ancora in altre parole vuol dire che è scrittura che non sì fa leggere, feticcio che non mi desidera, direbbe Barthes.
(Già, perché poi tutti questi suffissi in ri — suonano, oltre che irrimediabilmente stereotipati, per lo meno ambigui: visto che per una fetta considerevole del pubblico sì tratta di primi approcci, di amori giovanili, di scoperte senili, e così via. Insomma, il percorso bizzarro e del tutto privato che ognuno di noi compie nel rapporto con la letteratura: quella che si deve imparare a scuola, e poi all’università (quella che si «porta» all’esame, come in un rito sacrificale): quella che si scopre da soli, quella che si amerà sempre, quella che si abbandona dopo un lungo amore, quella di cui, fuggevolmente, ci si innamora, quella che si dimentica. E quella che non ci piacerà mai). Questo passato, chiamiamolo pure «texte de plaisir», ci si propone spesso ambiguamente, o spesso con correttezza e intelligenza, pronto per l’uso: lo spazio della tua lettura, spazio privato, che è quello della distanza fra te e il testo, che si coprirà di piacere, rancore, complicità, a seconda dei casi, è già ordinato, ahimé semplificato, perché c’è qualcuno che ti spiega come leggerlo. Ciò è giusto e sacrosanto. Ma non è un percorso semplice, anzi è ricco di insidie. Ci vuole una sana schizofrenia per resistere alla tentazione di affogare il piacere della propria lettura nel super-io dell’ideologia. E questo, attenzione, non ha niente a che vedere con il lavoro critico,sul testo: ha a che vedere con i conti che ci facciamo noi, con «la nostra responsabilità di lettori» dice Virginia Woolf. Forse ha ragione ancora Barthes^ quando dice che il piacere critico si deve fare voyeur, contemplando clandestinamente il piacere dell’altro, «entrare nella perversione». E forse si parla troppo di desiderio della scrittura, e troppo poco del suo contrario, il piacere della lettura. E allora parliamo di donne, sottintese fin dall’inizio di questo discorso confuso. Parliamo di donne, e leggiamo le donne (la scrittura femminile… il rapporto donna e scrittura…). Parliamone e riscopriamo percorsi sotterranei, voci sommerse, metafore, difficoltà. Ma che almeno una parte della nostra immaginazione non venga spossessata e circuita, che non si faccia di ogni libro un’arma. Rivendichiamo il piacere della nostra lettura, pur sapendo che «leggere un romanzo è un’arte difficile e complessa», Senza farsi spaventare, senza cedere. Complici di chi scrive, .ma «senza dare ordini» (Woolf). La lettura è controllo, ma resa al tempo stesso. E in genere ci si arrende al(la) migliore.
Forse il problema è anche, paradossalmente, la lettura delle donne, e non solo la scrittura.