il tribunale delle donne

marzo 1976

Bruxelles 1976

«1975: l’anno internazionale della donna è morto. 1976: W la lotta delle donne». Questo slogan delle femministe francesi è forse quello che più di qualunque altro ha sottolineato la differenza fra il Congresso messicano organizzato dall’ONU nel 1975, e questo Tribunale di Bruxelles organizzato il 4 marzo dalle femministe di tutto il mondo. Quanto quello del 1975 era espressione dell’establishment maschile internazionale, che vuole prospettare in maniera mistificata i problemi della donna, tanto questo di Bruxelles era sincero, vivace, combattivo, anche se pieno del disordine e delle contraddizioni tipiche

di chi agita problemi mai affrontati o affrontati in modo isolato. Difficile raccontare questi cinque giorni di assemblea arroventata, zeppa di interventi personali, di analisi politiche, petizioni, interruzioni, litigi e fischi; gruppi di lavoro, scambio di documenti, di giornali, di indirizzi, di libri e di appuntamenti.

Un programma tuttavia, nonostante la crescente confusione e eccitazione, è stato seguito, iniziando dal primo giorno con i delitti contro il corpo, la parte sicuramente più scabrosa e sconvolgente di tutto il congresso. Abbiamo sentito, per esempio, che nei paesi arabi e africani ancora si pratica alle bambine il taglio della clitoride e delle piccole labbra, affinché alla donna sia negato il piacere assicurando così la sua fedeltà all’uomo; che le torture alle prigioniere politiche di certe nazioni, come l’Iran o il Cile, avvengono soprattutto sull’apparato genitale.

Abbiamo sentito da più voci che sulla donna si praticano operazioni superflue, si asporta l’utero con estrema facilità, si insultano e si trascurano le partorienti; aborti, parti e raschiamenti, anche in casi difficili, avvengono senza anestesia. Anche in paesi che a noi sembrano i più progrediti, come l’Inghilterra, le difficoltà per chi ha bisogno dell’aborto gratuito sono a volte insormontabili, e nel migliore dei casi umilianti e dolorose. A furia di rimandare una ragazza che vuole abortire si arriva spesso alla diciottesima settimana, di modo che o non si può più abortire o si può farlo per mezzo delle prostaglandine, che procurano contrazioni e dolori terribili.

Sulle donne povere di Portorico sono state fatte sperimentazioni di pillole con dosi da elefantesse. Sintomatici sono gli interventi personali. Una belga di 35 anni dice: «Due anni fa mi fu asportato l’utero per una semplice infiammazione. Dopo l’operazione il chirurgo mi disse che, visto che c’era, mi avrebbe asportato anche le ovaie: data la mia età non mi sarebbero più servite…» Una ragazza tedesca: «Due anni fa, durante un piccolo intervento, senza preavviso mi sono state legate le tube: da allora sto sempre male. Ho saputo poi che quell’operazione era del tutto superflua e che non potrò mai più avere figli».

In mezzo a questi drammi che la società ha sempre cercato di farci accettare come normali della nostra condizione di donna, il self help, cioè l’auto-visita, appare come l’arma più rivoluzionaria per la difesa del nostro corpo, non solo perché ci consente di guardarci, scoprirci e difenderci dalle manomissioni dei medici, ma anche perché è una pratica che appartiene esclusivamente a noi e sulla quale nessuno può speculare, né in senso economico, né pubblicitario, né istituzionale.

Nella sala superiore del Palais du Congrès, è stata allestita una tenda bianca dentro la quale alcune americane insegnavano a gruppi di donne a usare lo speculum di plastica, che permette una concreta e gioiosa riappropriazione del proprio corpo. «Sono stata sempre separata da me», dice una giapponese, «c’era una parte del mio corpo misteriosa, proibita, accessibile ai miei uomini e al mio ginecologo, quindi loro e non mia. Adesso non ho più padroni».

Ai delitti sul corpo sono seguite le testimonianze sulle violenze sessuali, a livello sia individuale, sia statistico che di analisi politica. Nell’androne della sala del congresso è stato proiettato un film pornografico nel quale due ragazze vengono barbaramente violentate e seviziate. Un film tanto raccapricciante che la maggior parte delle congressiste intervenute ha dichiarato di non volerlo vedere. Le danesi che l’avevano portato hanno perentoriamente obiettato che rifiutarsi di vederlo significava non voler documentarsi su una realtà diffusissima, dato che questo film è distribuito fra gli uomini, allargando e rafforzando la loro convinzione di poter fare delle donne ciò che vogliono. Il giorno successivo erano di scena i delitti economici contro la donna. Il «Comitato Triveneto per il salario al lavoro domestico» ha denunciato «una immensa ricchezza espropriata alla schiavitù domestica». L’intera assemblea era d’accordo, ma di fronte alla proposta di chiedere il corrispondente salario si è levata una forte reazione provocata dall’odio che «la prigione-casa» crea nella donna. Una ragazza indiana ha ricordato alle compagne europee, e «soprattutto ai gruppi inglesi e francesi che accettano lo sfruttamento delle loro sorelle negre e indiane, sotto pagate, isolate, terrorizzate», il fatto che lavano i loro cessi e i loro pavimenti. «Questo Tribunale sarà una beffa», ha continuato la ragazza, «un inutile gioco tra signore, se dalle sue risoluzioni non ci sarà l’impegno di tutte le bianche a partecipare e sostenere la lotta di classe delle operaie, delle serve, delle lavandaie, delle disoccupate negre che vivono nei loro paesi in condizioni di miseria disumana». L’intervento finale delle compagne israeliane ha gettato un ponte fra questi due mondi. «Le femministe israeliane sono contrarie alla politica nazionalista del governo. Ci siamo qui incontrate per la prima volta con le sorelle arabe e abbiamo deciso di incontrarci ancora». Indubbiamente questa è stata la dichiarazione che più di ogni altra sembra porre le basi verso una internazionale femminista. Argomento inedito per l’Italia la prostituzione. Il movimento delle prostitute francesi, americane e giapponesi ha dibattuto i propri problemi inserendoli nell’ambito dello sfruttamento della donna. «Dicono che sia il mestiere più vecchio del mondo», ha dichiarato una prostituta americana, «ma io dico che è la violenza più vecchia del mondo».

Le omosessuali hanno rivendicato il diritto di amare le altre donne senza essere perseguitate dalla famiglia, dalla stampa, dagli psichiatri e dalla gente in genere. «Le lesbiche sono tante. Contiamoci». E così dicendo sono salite cantando sul palco. Erano circa duecento.

Una compagna americana di 74 anni ha proposto un dibattito sul problema delle donne anziane. Altrettanto hanno fatto le ragazze madri. Per tutti e cinque i giorni l’aula della assemblea era stata interdetta agli uomini. Il comitato promotore aveva pensato di riservare ai giornalisti una conferenza stampa ogni pomeriggio. Ma dopo il primo giorno le congressiste hanno deciso di eliminarla, accusando gli uomini di scorrettezza e parzialità giornalistica. Confinati nel bar i fotoreporter si aggiravano come avvoltoi affamati.