ospedali

i dannati della mutua

«se per esempio un malato chiamasse «cocca» un’improbabile infermiera proveniente dall’alta borghesia lei troverebbe tale definizione perfino divertente…»

ottobre 1978

i luoghi comuni sulle istituzioni, sulle carenze delle strutture, sulla brutalità del personale ospedaliero non ci aiutano ad avere meno paura quando abbiamo bisogno di ricorrere all’istituzione stessa. L’Ospedale è un luogo omogeneo, un raggruppamento di medesimi problemi, una concentrazione di lacrime ed è per questo che può dare claustrofobia come il traffico cittadino. È particolarmente importante per chi vi entra trovare dei punti di riferimento familiari. Come vengono affrontati l’ansia, la paura, il dolore dall’Ospedale che è composto da oggetti, da spazi e da persone? Chiedete alla gente. Molti vi risponderanno di essere stati psicologicamente stuprati dai medici e dagli infermieri. Gli infermieri soprattutto sono mediamente vissuti come categoria infima, teppaglia che pratica il terrorismo approfittando dello stato d’impotenza in cui si trovano le loro vittime. Ma di quale violenza si tratta? perché la violenza? perché il luogo fisico e lavorativo emerge e si stabilizza un tipo di comportamento che diventa come un codice e viene imposto a chi deve iniziarsi a quel determinato ambiente?
Qualche giorno fa mi è capitato di ascoltare un brano di una trasmissione radiofonica durante la quale una cittadina si consultava telefonicamente con un’esperta della Rai proprio su questo argomento. La cittadina si lamentava della crudeltà mentale del personale ospedaliero e l’esperta le aveva risposto che «non bisogna prendersela con gli infermieri perché vengono dalla classe popolare, quindi sono ignoranti e non hanno un’educazione del che non sono del tutto colpevoli». Un punto importante che «l’esperta» non ha nemmeno sfiorato è che anche gli utenti dell’ospedale vengono in altissima percentuale non solo dalla classe popolare ma dal sottoproletariato. Molti di quelli che vengono a morire in ospedale sono degli autentici dannati della terra. Quelli che nessuno vuole curare, emarginati, abbandonati, malridotti anche nel proprio senso della dignità, nella coscienza di sé.
L’infermiere cerca di non identificarsi in quella sofferenza, con quella disperazione di chi non vuole vedere sé stesso riflesso in un suo simile e prova un rancore sia sociale verso chi ha emarginato quel-1’«Oggetto» di cure (parenti e padroni), sia individuale verso chi si è fatto così emarginare.
Inoltre così come tra intellettuali vi sono schemi allusivi, malizie del linguaggio, cenni su cui ci si intende benissimo anche se non sono espliciti, essi esistono anche in altri gruppi sociali con regole del tutto differenti.
Per esempio se un malato chiamasse «cocca» un’improbabile infermiera proveniente dall’alta borghesia lei troverebbe tale definizione perfino divertente, non restandone scalfita e potrebbe rispondergli con un sorriso. Se l’infermiera che riceve lo stesso messaggio è un proletaria gli dirà: «cocca dillo a tua sorella..» poiché conosce l’escalation degli approcci nel suo ambiente e sa che se da quella persona accetterà quel modo di parlarle dovrà in futuro accettare da lui comportamenti peggiori. Accanto ai malati inermi vi sono quelli circondati da una moltitudine incredibile di parenti. Alla morte di una donna di ottanta anni uno dei suoi figli in preda ad una crisi di nervi voleva picchiare tutte le infermiere. Certamente noi promettiamo meno immortalità di un medico il cui mestiere è spesso spiacevole ma il cui ruolo sul piano del gioco è bellissimo. Il medico di guardia viene chiamato nei casi gravi e fa la parte del grande salvatore. Molta gente è convinta che si muore solo perché non si è chiamato in tempo il «dotò». Occorre dire che questi «dottò» sono quasi tutti maschi ed a loro pare naturale essere considerati i cavalieri, coloro che possono riscattare con i soldi e con il loro interessamento altre creature inferiori (le femmine). Sono i primi a non potere mettere in discussione la propria figura carismatica avendone l’abitudine anche nella vita privata.
Oltre a quel rapporto tra infermieri e pazienti che è pari ed è teso a stabilire chi là dentro è il servo e chi è il padrone (l’infermiere viene chiamato con il campanello come un cameriere, fa lavori estremamente umili e stradevoli però lui è in piedi e chi lo chiama è a letto. La situazione si presta al gioco delle rivalse), vi è un’altra violenza che assolve a sotterranee funzioni.
Il moribondo trattato sgarbatamente è costretto a pensare: — così dunque mi trattano, allora non mi sta accadendo nulla di strano, di terribile, di temibile — e tutto sommato preferisce essere sgridato che non ricevere l’estrema unzione dal prete che è un atto più dolce e compassionevole ma meno equivocabile. Non solo, la premurosità può risultare noiosa, con essa non si spezza la monotonia del lungo tempo dell’allettato. L’infermiera brusca, che fa allusioni volgari ed è disposta al litigio è più apprezzata di quanto non vogliano far credere le lamentazioni ufficiali al proposito perché dà spettacolo. Ricordo quel discorso di una collega ad un uomo, malato di ulcera duodenale, appena ritrasportato nel suo letto dalla camera operatoria: «Ahò, svegliati, che ti lamenti? Cosa ti fa male, il pispolo? Lo sai che io l’ho visto il tuo pisello e che è proprio carino? Che ti sorridi? «’Sto rotto in culo, sta ancora sotto anestesia e se la ride…»
Leggo nel Manuale dell’Infermiera: «Nell’assistenza degli ammalati uomini è di somma importanza per l’infermiera evitare accuratamente quei pericoli spirituali che possono purtroppo nascere se manca quella soda formazione morale indispensabile o se si oltrepassano nell’assistenza i limiti convenienti. In ogni cura prestata e in ogni servizio reso all’ammalato non venga mai meno il riserbo. Nessun tratto confidenziale, nessun discorso non necessario e prolungato, nessuna attenzione particolare in modo da destare anche solo l’ammirazione o il sospetto di un affetto particolare per quell’ammalato».
L’idea che simili consigli vengano impartiti alla Facoltà di Medicina sarebbe considerata offensiva per la categoria medica.
Nessuno dice ad un medico quanto deve durare una palpazione o di non fare spogliare completamente pazienti giovani se non è necessario. È vero che il medico è abituato ai nudi ma ai brutti nudi e di fronte ad un corpo giovane resta gradevolmente stimolato e di solito allunga il tempo della visita.
Insomma l’infermiera che massaggia troppo eventuali ragazzi è vista con sospetto, il medico che palpa a lungo è solo scrupoloso. In Ospedale continua la divisione sessista della morale. L’Ospedale è anzi uno di quei posti in cui la gerarchia di classe e di sesso coincidono quasi perfettamente. Il personale infermieristico è composto in prevalenza da donne e proletarie, quello medico da uomini e borghesi.
Potrei tentare un controritratto cattivo, paradigmatico di un medico ospedaliero medio visto dall’occhio fazioso di un’infermiera che ce l’ha con quei malati che sia amandolo sia odiandolo eccessivamente danno a lui il fascino dello stregone:
«Maschio fobico, oscillante tra l’ipocondria e il delirio d’onnipotenza e d’immortalità, seguace in tono minore della cultura borghese (non ha abbastanza tempo per essere raffinato), fortemente competitivo. Appena appena sadico. Il suo in realtà è un sadismo da noia. Angosciato dai pazienti poveri che sono quelli che adulano di più il suo senso di potenza ma che al tempo stesso sminuiscono il valore del suo servizio, servile con quei pazienti ricchi che pagandolo direttamente gli conferiscono la mentalità del piccolo commerciante, terrorizzato dagli intellettuali con cui non riesce a stipulare alleanze e da cui sa di non essere amato, ossessionato dalle belle donne che vorrebbero averlo come medico portatile o da comodino e che si rivelano sempre troppo malaticce per essere affascinanti, insensibile alla solennità del dolore in quanto banalizzato dal quotidiano, affranto dall’incubo di fare errori irreparabili, tormentato da ciò che ci si aspetta da lui, vergognosissimo di problemi religiosi che di tanto in tanto lo punzecchiano, sogna che l’ospedale si trasformi in un casino promuovendo talvolta con successo la prostituzione tra le infermiere che, gerarchicamente inferiori, non sono matrimoniabili, ma stanno là e perché lasciarle del tutto inutilizzate?» Tornando al problema della comunicazione con i pazienti vorrei fare un esempio che tratta una situazione conosciuta da moltissime donne e di cui i meccanismi non ci appaiono chiari. A tutte le partorienti che si agitano per gli intensi dolori uterini, le ostetriche dicono frasi standardizzate: «La maternità è una gioia» «È con i dolori forti che si partorisce..» «Se fai così non vuoi bene al bambino perché non lo ossigeni». «Prima non urlavi così!» e così via. Tutti questi messaggi hanno in comune un contenuto moralistico, colpevolizzante per la donna e possiedono un’altra stranezza. È evidente che ogni levatrice ha un temperamento, caratteristiche psicologiche ed interiori assolutamente diverse. Il fatto però che quasi tutte dicano le stesse cose, con tono simile dà a chi ha bisogno del loro ruolo un senso di barriera e di fatalità. La partoriente non può provare, supponiamo, antipatia per un’ostetrica estroversa o simpatia per una dal carattere dolce. L’ostetrica è quella che dice quelle cose e la donna che la vede, magari per la prima volta al momento del parto, non può scegliere di interagire con lei in un modo piuttosto che in un altro. Il suo stato di bisogno la rende più passiva che mai e particolarmente ricettiva ai ruoli rigidi.
Io che amo gli «scandali comunicativi» ho provato a parlare con una donna in preda alle doglie, in sala travaglio, di tutt’altre cose che non dei suoi dolori. Le ho detto che avevo visto suo marito che aspettava fuori dalla porta e del perché lo trovavo molto attraente. La cosa l’ha incuriosita; in quel momento, in quel posto non poteva pensarmi come una rivale e ne è nato un senso di complicità. Abbiamo parlato di altre cose finché non ho potuto verificare l’effetto del mio comportamento, diciamo così deviante. La donna mi ha detto che non poteva partorire se io non c’ero in sala parto. Cos’è che vale di più: una persona umana o un ruolo? Nessuno saprà mai davvero cos’è la vita anche se vuole viverla. Si può ironizzare affermando che, ugualmente, conoscere qualcuno è impegnativo e spesso insoddisfacente mentre sapere che cosa questo qualcuno può fare, ci è utile.
Se io, a quel punto, me ne fossi andata dal mio luogo di lavoro senza avere visto la neonata né osservato la bellezza dell’espressione di sua madre che variava dalla tensione dolorosa ad una gioia compiaciuta, mi sarei sentita in colpa. Tutto ciò è poco pratico per l’istituzione e non si sa quanto può essere utile per l’utente che ha più bisogno di avere fiducia nell’istituzione nel suo insieme che non in un singolo individuo con cui godere di una relazione significativa positivamente. Non si vogliono con questo negare i valori della tolleranza, della gentilezza e della comprensione, valori di cui non si può mai fare indigestione soprattutto in un periodo storico nevrastenico come questo.
Vorrei però negare l’assoluta gratuità di certi comportamenti che risultano invece comprensibili interpretati in un’ottica di classe o di funzionalità.