scuola

la trappola della cattedra

«a 15 anni è molto facile assumere a modello la propria insegnante, soprattutto se giovane e femminista».

ottobre 1978

Vorrei fare alcune considerazioni per aprire un dibattito con altre donne insegnanti, partendo dalla mia esperienza di due anni in un istituto professionale femminile. All’inizio mi sembrava una situazione ottimale, io donna, femminista, in rapporto con altre donne, non poteva che essere bello e stimolante, dopo alcuni anni di collettivo e di autocoscienza, pensavo ai rapporti con le donne come non certamente facili, ma intensi e positivi. Mai come dopo un anno di scuola, mi sono resa conto di quanto fosse vuoto e privo di senso il: «siamo tutte donne, abbiamo tante cose in comune…».

Nella mia condizione di insegnante, vivo continuamente contraddizioni molto pesanti. Il mio ruolo non è eliminabile solo per un atto di buona volontà o di disponibilità, il rapporto è e resta non paritario, ci dividono molte cose, l’età, le esperienze diverse, e soprattutto una condizione di reciproca non scelta, io non ho scelto di avere un rapporto con loro, loro non hanno scelto me, mi hanno trovata li il primo giorno di scuola. Non riesco ad esempio a vivere la mia classe come un insieme di persone che hanno delle precise individualità, le sento come un tutto unico, non provo per nessuna di loro né spiccate simpatie, né opprimenti antipatie. Non riesco ad uscire dalla logica che loro sono uno schieramento e io un altro schieramento. Non riesco a confrontarmi realmente con loro, se non su discorsi teorici, non mi sento di portare in classe la mia vita, i miei problemi e su questo non mi va nemmeno di mistificare verifiche che non credo possano esserci.

Sento anche il pericolo-fascino di propormi in classe come modello, a 16 anni è molto facile assumere a modello la propria insegnante, soprattutto se giovane e femminista, il mito della donna emancipata è quello che fa più presa su di loro, e anche per me non è pacifico il rinunciare a fare la persona realizzata e sicura, forse mi aiuterebbe a vivere il mio lavoro con meno frustrazione, ma non recitare la parte della donna emancipata è forse l’unica scelta che ho fatto finora rispetto al mio lavoro.

La cosa invece a cui sento di non riuscire a rinunciare, è la stima delle mie alunne, e questa stima passa attraverso la preparazione che dimostro di avere, nel come riesco a trattenere le loro attenzione, o a provocare un interesse, e passa soprattutto attraverso la mediazione che riesco ad avere tra autoritarismo e permissivismo. Non stimano gli insegnanti troppo permissivi, e nemmeno quelli troppo repressivi. Ho più volte sperimentato che la mia stessa sopravvivenza in classe, passa attraverso impennate autoritarie di cui in altre occasioni mi vergognerei terribilmente.

Molte volte le alunne, a me che non sono sposata e non ho figli, fanno delle richieste di disponibilità totale, di abnegazione per la scuola, dato che anche per loro è naturale che una donna che non ha famiglia assuma a suo scopo di vita la scuola. A questo tipo di richieste sento di ribellarmi ferocemente, voglio a tutti i costi far passare il discorso che per me l’insegnamento è un lavoro come un altro, non è né missione, né dedizione totale, che nel mio tempo libero faccio altre cose che ho scelto e che mi interessano.

Queste convinzioni non mi preservano però dai sensi di colpa nei confronti della mia classe, penso di non fare abbastanza, di non usare bene il tempo che ho a disposizione, di non aiutarle a formarsi un minimo di preparazione, penso che sono tutte ragazze di famiglie proletarie che alla fine della scuola troveranno solo lavori dequalificati, e vorrei sfruttare meglio l’occasione che abbiamo di stare insieme. Sono ancora molto legata ai concetti di preparazione, di acquisizione di certi strumenti culturali senza i quali nella vita si è ancora più fregate, ma troppo spesso la loro apatia, il fondamentale disinteresse a tutto, mi fanno pentire di non fare scrupolosamente il programma.

Sono convinta che la violenza e il potere dell’insegnante si possono esprimere benissimo anche attraverso i cosiddetti «programmi alternativi», e forse fanno bene gli studenti a rifiutarli. Ma allora noi cosa possiamo fare? Quest’anno allo scrutinio, nella mia strenua difesa della classe, e nella lotta per la promozione, contro chi invece voleva bocciare a tutti i costi, non so quanto non abbia pesato, oltre alle valutazioni sulla scuola in generale e sulla selezione, il mio senso di colpa per non avere fatto tutto quello che potevo fare, e la voglia di poter avere ancora un anno con tutte loro, per recuperare qualcosa, in fondo spero ancora che stare con altre donne possa anche essere diverso da come è stato finora.