televisione

l’abominevole bambina delle nevi

Heidi è un esempio di cattiva letteratura e di splendido «business».

ottobre 1978

è il supermercato dei buoni sentimenti, è il festival dell’agro-silvo-pastorale, l’ultima spiaggia del «buon selvaggio» svizzero. Ma i bambini amano Heidi, questa storia «inizio di secolo» che ha dato origine l’anno scorso a un programma televisivo e ora a due films (uno a cartoni animati, l’altro con attori) con il regolare contorno di magliette, posters, dischi, adesivi e caramelle omonime. I bambini amano Heidi, se è vero che ha avuto 90 di indice di gradimento in televisione e se è potuto succedere che una madre abbia scritto alla RAI raccontando come sua figlia, per aver perso una puntata di Heidi, fosse stata colta da una crisi di nervi e chiedendo quindi la ritrasmissione della puntata a un’ora qualsiasi del giorno o della notte. Heidi si è inserita nella cultura infantile da Gela a Torino, per questo le facciamo le pulci.
Heidi, bambina senza genitori, vive in una baita isolata fra i monti col vecchio nonno in pipa e bretelle. Corre felice fra capre e torrenti, con un amichetto dalle orecchie a sventola e la faccia da scemo, senza scendere mai al villaggio dove il nonno affonda umori rancorosi e senza andare a scuola, ignorante e sorridente, sana e rubizza. E sempre prodigiosamente buona. L’incanto è rotto da una zia, cuoca a Francoforte presso una ricca famiglia, che decide di portarsi dietro Heidi per far compagnia alla bambina paralitica (anche lei senza mamma) della ricca famiglia e per consentirle così, sia pure di straforo, di ricevere una «buona educazione».
Heidi è infelice a Francoforte nella ricca dimora della ricca bambina provvista di una tremenda istitutrice: la signorina Rottermayer.
Ma la bontà di Heidi è come un carro armato, non conosce ostacoli, e finisce a far camminare la paralitica, a conquistare il ricco padre, il medico di casa, i servi e ad accendere una scintilla di umanità persino nella signorina Rottermayer. Finalmente Heidi si ammala di nostalgia e le viene così consentito di tornare dal nonno dove verrà raggiunta dalla bambina miracolata. Gran finale con il nonno che fa la pace col villaggio, gran scampanìo, baci e abbracci, frizzi e lazzi. Questo film si regge su contrapposizioni frontali: la campagna è bella, la città è brutta; il nonno è buono, la signorina Rottermayer è cattiva; Heidi scoppia di salute, Clara è malata. Invano cercherete altro concetto che questo: chi ama la vita alpestre è sano, buono, felice, fa i miracoli e mangia la marmellata. Nella sceneggiatura nessuno stereotipo possibile ci è stato risparmiato: la casa di ricchi con scalone e argenteria, l’uomo d’affari molto indaffarato; il servo intrigante, le cameriere pettegole e fatue, la buona nonna che racconta le fiabe e il nonno burbero e tenero. Il nonno è tenero ma sessista ed esprime l’unico suo pensiero esclamando giulivo «Ma sì, lasciamole parlare le donne, dato che le galline non possono».
Certo che dopo due ore di celebrazione del pane casareccio, di cascatelle e caprette, campanellini e torrenti, vette, guance tonde, aria buona, risatine e corsette, ci è venuta una voglia impellente di smog e scatolame, del vecchio caro metrò, delle sirene delle autoambulanze e delle familiari frenate. I bambini no: impietriti davanti al video (oggi davanti ai grandi schermi) inghiottono tutto con occhi tondi e fiato sospeso. Si identificano anima e corpo con la «bambina buona», una specie di Papa Giovanni dell’infanzia, di modo che dopo avere compiuto l’esorcismo contemplando lo spettacolo, possono tranquillamente tornare ad essere bambini normali, cioè largamente imperfetti: capricciosi, insolenti, ansiosi, aggressivi a seconda dei casi e comunque mai miracolanti.
Credo che ai bambini succeda in questo caso quello che capita a molte donne con la letture dei forotomanzi: fino al capolinea dell’autobus sono ricche ereditiere innamorate di un bel miliardario, poi si scende ma si affrontano meglio i letti da rifare. L’identificazione gaudiosa dei bambini nella sovrana bontà di Heidi è il primo motivo del trionfo di questo mostriciattolo, ma ce ne sono altri. Per esempio la mancanza di insegnamenti e messaggi. I bambini sono stufi marci di giochi didattici e libri didattici: come si costruisce un grattacielo, quante zampe hanno le api, la sessualità dei castori e dov’è l’Amazzonia. C’è stata in questi anni una superproduzione di messaggi, troppo spesso rozzi e pallosi, che sono serviti a rilanciare cinema e letteratura di evasione. Ecco perché anche operazioni dementi come «La famiglia Partridge», «Furia» e «Heidi» hanno sollevato tanto entusiasmo. Non che i bambini siano stupidi, ma si arrangiano con quello che trovano e, siccome una moderna letteratura infantile è largamente insufficiente e anche quando c’è viene trascurata da cinema e televisione, ecco che loro fra Heidi e «la breve storia dei rettili», preferiscono Heidi.
Un altro motivo di successo, a mio parere, sta tutto nella furbizia di quel disegno animato, che è il frutto di lungo lavoro a tavolino di disegnatori giapponesi e managers americani. Il risultato offre un paesaggio e dei personaggi che non hanno niente di naturalistico; sono pupazzi in un mondo di cartone, personaggi di fiaba, non bambini in carne e ossa. Questa dimensione grafica fantastica, irreale, accentuata ancora dal particolare meccanismo di movimento del disegno, tocca il profondo bisogno dei bambini di sognare, di immaginare, di uscire dalla gabbia di un realismo figurativo opprimente. Alcuni altri autori per l’infanzia, che io rispetto profondamente, mi hanno detto che non è giusto schierarsi e giudicare questi films. Spetta ai bambini farlo. Seducente nel suo apparente culto dell’autonomia, questa posizione mi pare invece mistificante e pericolosa. perché Heidi non è l’ultimo gioco inventato da loro o in una dimensione da loro controllabile nella quale è giusto non intervenire. Heidi è una colossale operazione industriale, organizzata da una multinazionale e venduta a mezza America e a tutta Europa. Non è un loro prodotto, è un prodotto imposto anche se gradito. E niente è casuale in questo modello di bambina e nei valori deformati che propone: l’ubbidienza che diventa servitù, la semplicità che diventa scioccheria, la gioia che diventa ilarità. Nonostante tutto, dice il film, si può essere felici : basta sghignazzare per i prati con una salsiccia nel tascapane. Naturalmente se si è buoni. E allora come difendiamo i bambini dai coloranti, dai pidocchi e dalle scottature, perché non li dobbiamo difendere dai films falsi, zuccherosi, sessisti, perché non dobbiamo armarli contro la cattiva letteratura? Naturalmente non è vietando Heidi che li si difende, anzi, ma è discutendone con loro, cercando di analizzare i personaggi con loro, smontando il film e smascherandolo. Non importa se non saranno d’accordo e se anche (come mio figlio) per un po’ ci terranno il muso, avranno comunque qualche utile strumento nelle mani che prima o poi gli servirà. A meno che non si creda che lo sviluppo intellettuale del bambino è qualcosa che si fa da sé, anzi, qualcosa che bisogna lasciare fare alle multinazionali. Una visione acritica di spettacoli di questo genere apre la strada maestra che porta a C.L. e anche a certe lettere a Lotta Continua.