televisione

i mille volti di eva

il 30 settembre è iniziata una serie di trasmissioni sulla donna nel cinema, dal muto ai nostri giorni. Gli interventi che seguono, partendo dalla trasmissione tentano di ampliarne la tematica.

ottobre 1978

questi due articoli sono frutto di una discussione e di un lavoro comuni. Dopo aver tentato di scriverne uno solo, ci siamo accorte che la nostra storia ci aveva dato un linguaggio e una impostazione logica diverse, che ci consentivano di ampliare le angolazioni sullo stesso argomento, mentre qualsiasi tentativo di adattamento reciproco, ci portava anche ad un impoverimento reciproco. Gli – spunti che la trasmissione I mille volti di Eva ci suggeriva erano praticamente infiniti. Ne abbiamo comunque dovuti scegliere alcuni per motivi di spazio, ma continuiamo a lavorarci intorno. La trasmissione non ci è piaciuta, complessivamente, e i nostri interventi non sono positivi.
Ma la giudichiamo ugualmente un fatto importante, perché significa aver conquistato l’apertura di nuovi spazi nella Televisione e ringraziamo le donne che hanno voluto farla.
Le nostre critiche vogliono essere solo un «partire da» per continuare un discorso, non sono attacchi alle realizzatrici. Troppo spesso fra noi donne riprendiamo una prassi diretta erede del discorso maschile: la critica distruttiva alle donne che in ogni modo si assumono il rischio di uscire allo scoperto e di fare le cose. Il nostro è un discorso che sentiamo nascere «dall’interno» di una continuità di interessi e di lavoro (il cinema) fra noi e Tilde Capomazza, Mariuccia Ciotta, Ada Acquaviva e Rosalia Polizzi che hanno realizzato I mille volti di Eva.

la vendetta della diva
Quello che colpisce a prima vista è la scontatezza del discorso sullo stereotipo. Qualcosa di predeterminato, di assunto ideologicamente piuttosto che riscontrato nella ricerca, come da tema di scuola: «La donna nel cinema è rappresentata attraverso una serie di stereotipi»; svolgimento: «I mille volti di Eva». E questa parola stereotipo ad un certo punto non significa più niente, perché, da un lato è abusata: chi ormai nega il suo uso ai danni delle donne?; ma perché dimenticare che colpisce anche le figure maschili nel cinema, di genere e non?; ghettizzando lo stereotipo al femminile si impedisce una comprensione del meccanismo del cinema nel suo insieme, impedendo perciò una reale comprensione del ruolo femminile al suo interno. Dall’altro perché come esempio di stereotipo si prendono le attrici che lo hanno inventato, adattando alla proprio personalità un fantasma maschile.
Da appassionata telespettatrice, faccio un confronto con trasmissioni maschili sullo stesso tema {Scatola Aperta, a giugno, la 1a rete, Gli uomini preferiscono le bionde, in agosto, 2a rete) e mi sento a disagio per la timidezza con cui quando se ne dà l’opportunità, trattiamo argomenti che ci riguardano da vicino. Nel momento in cui contenuti inventati da noi vengono consumati dagli uomini della televisione, e non sempre così rozzamente come vorremmo, noi donne, per paura di distoglierci l’attenzione della casalinga (immaginata, forse con un po’ di puzza al naso, come una specie di bagonghi) diamo contenuti blandi, interpretazioni a circuito chiuso sovrapposte ad una storia maschile rimasticata solo un pò. Niente di nuovo, di problematico, di stimolante, di progressivo.
Per timidezza o per sciatteria (quello della sciatteria che studiose serie usano quando fanno «cose di donne», è un discorso tutto a parte e coinvolge altro ordine di problemi) nella trasmissione si lanciano affermazioni/interpretazioni un po’ a casaccio, non verificate e facilmente smentibili. Nel corso della  4a puntata, per esempio, Marilyn Monroe è presentata come colei che svela il reale meccanismo dell’amore, portandone alla luce la base materiale e con ciò distruggendo il mito dell’amore. Le frasi rivelatrici sono quelle famosissime del film Gli uomini preferiscono le bionde: «I diamanti sono i migliori amici delle ragazze» e «Per un uomo essere ricco è come per una donna essere bella», dove noi abbiamo sempre visto un esorcismo maschile.
Quando mai la femmina calcolatrice, ancorché bionda e svanita, è appartenuta alla nostra produzione culturale o peggio ancora è stata coscientemente assunta e felicemente vissuta?
Inoltre se poniamo la Marilyn-disvelatrice-del-mito-dell’amore nel contesto complessivo dei suoi film, come non sentire l’omerica risata di chi si ricorda che lei generalmente o sposa un milionario per caso, credendolo poverissimo (Come sposare un milionario) o sposa un poveraccio credendolo milionario (A qualcuno piace caldo) rimanendo comunque fedele schiava dell’amore e non del denaro, che è solo un premio, quando capita, al sostanziale disinteresse. Per convalidare l’affermazione fatta nella stessa puntata secondo cui Brigitte Bardot è la donna liberamente sensuale che detta le condizioni all’uomo, abbiamo rivisto alcune sequenze de La ragazza del peccato, film che finisce con la «giusta» punizione della libertina massacrata dall’amante giovane (Franco Interlenghi) e rimpianta dal maturo avvocato (Jean Gabin) che si è rovinato per lei. Oppure nella seconda puntata ci sentiamo dire a commento della sequenza finale — meravigliosa — della Signora di Shangai (Orson Welles, 1948) che con quel film «finisce il mito della femminilità» e «finisce anche Hollywood» (cito a memoria). Ci sembra che il mito della femminilità conoscerà ben altre e pericolose stagioni e che Hollywood, intesa come industria che produce film di genere, nasce in quegli anni (da qui il nome «complessivo» dei suoi prodotti). Orson Welles non era «Hollywood». Tutta questa confusione nasce forse dall’aver assunto una metodologia poco adeguata.
Generalmente si parla di stereotipo in relazione ad un prodotto fatto in serie: il termine è filologicamente opposto a prototipo, infatti. I mille volti di Eva che abbiamo visto, sono invece altrettanti prototipi: Katherine Hepburn, Theda Bara, Marlene Dietrich, Anna Magnani, Jean Harlow, Joan Crawford, presentati per di più con la dicitura: «Theda Bara è la donna fatale», dove forse più utile sarebbe stato: «Theda Bara interpreta la donna fatale». Non è una questione formale. «La Tal dei Tali interpreta XY», cerca di capire qualcosa di più, cerca di scoprire che la Tal dei Tali, come donna e come attrice è qualcosa di più della semplice pedina passiva nelle mani di chi, a questo punto? del regista? del produttore? dell’industria? della cultura? della società patriarcale? Meglio allora tenere distinta la diva-prototipo dallo stereotipo ripetuto all’infinito, ma dopo di loro; meglio darsi (e dare) una chiave di lettura meno semplicistica e scontata della figura femminile nella produzione filmica e del lavoro delle donne-attrici. Appartiene al modo maschile di fare storia e cultura dimenticarsi dell’individualità e del personale (o di esaltarli in mitologie eroiche, il che è lo stesso) e procedere per astrazioni che chiudono il discorso anziché aprirlo. Ed anche nel loro mondo questa prassi è messa in discussione. perché ripeterla?
Maricla Tagliaferri

assumiamoci Il rischio
«I mille volti di Eva» si articola su un piano di analisi delle figure femminili nel cinema, volto a dimostrare l’invadenza dello stereotipo (insieme di valori/norme/atteggiamenti immediatamente riconoscibili) anche (e soprattutto) nella produzione di immagini. Quindi, potremmo dire che lo specifico (il cinema e l’attrice, ih questo caso) è’ stato un pretesto per dimostrare la validità di un discorso sulla ruolizzazione violenta, sulla normativizzazione rigida. L’analisi «per stereotipi», per modelli sociologici è quindi, un discorso adattabile a tutte le realtà sottoposte ad un lavoro di normalizzazione e standardizzazione; suturato, in questo caso, sulla figura-attrice (non sulla «realtà» del suo lavoro).
Può essere, ed è, un approccio corretto, ma non ci apre nessuna altra possibilità di analisi (comprensione) — dell’esperienza specifica e del lavoro cinematografico e dello stesso lavoro di spettatore.
Non credo di essere stata la sola a provare fastidio per il commento-discorso, quasi una morale, che mi richiamava alla disciplina e mi distoglieva dal piacere del gioco di sguardi dell’attrice e del mio guardare quelle performances, quegli itinerari di corpi che rimandavano ad un vissuto o ad un sentire ben oltre il detto. Il commento-discorso «a tutto tondo» toglie la possibilità di interrogarci sul valore e sulla funzione sociale più profonda (e contraddittoria) della presenza del corpo della donna nel cinema.
Il discorso che definisce e limita risponde ad una logica «maschile». È l’inscrivere realtà sfuggenti e ambigue in «formule» immediatamente fruibili e funzionali ad un Discorso: quello della critica cinematografica che, nel cineclub televisivo, traduce le immagini in discorso di potere e di riconoscimento del nome — del critico.
L’esaurirsi del discorso nell’analisi sociologica del «ruolo interpretato» (personaggio, valore di scambio, stereotipo) ha portato all’impossibilità di lavorare sull’altro polo della relazione dialettica, «l’attore», il suo lavoro, la sua «storia».
Possibilità che si è, invece, aperta dallo scollamento tra commento e immagini; le immagini ad un certo punto hanno rifratto il commento; si è verificato uno scarto tra commento e immagini, ad opera di queste ultime, il cinema ha avuto ragione del discorso.
In questo scarto ha preso corpo l’attrice (lavoro pulsionale, deroga al copione, creatività del lavoro-attrice che sorprende le attese).
Scarto che le immagini di Fermata d’autobus (1956, quarta puntata) hanno reso irrecuperabile.
Marilyn/attrice al lavoro è sorpresa nel processo di creazione di una mimica e di una gestualità fatta di accenni, rimandi e (ancora? ) intelligenza. Marilyn, nel commento, viene ridotta ad uno «bella e stupida» : è qui che si rende palese l’insufficienza di un metodo.
Hollywood si fonda sullo stereotipo; ha organizzato la produzione e riproduzione sullo stereotipo come garanzia, per il mercato, del riconoscimento immediato di certi valori.
Dire che esiste la stereotipizzazione, la modellizzazione è un primo passo, utile, come utile né è stata l’analisi. Occorre poi mettersi d’accordo sul da dove e di cosa si vuol parlare. Amiamo il cinema, ci sentiamo attratte da questo linguaggio, non sappiamo spiegare «razionalmente» questa nostra scelta.
Assumiamoci il rischio. Iniziamo a parlare dal di dentro, dall’esserci del corpo nel cinema; da cosa accade a questo e per questo corpo; dal piacere che ci dà il cinema; da ciò di cui ci è difficile «parlare».
Un’ipotesi da cui si potrebbe partire: l’investimento nel lavoro-attrice di «qualcosa-in-più» che eccede il copione-mansionario (quindi lo stereotipo-garanzia per il mercato). E ancora, la spinta narcisistica che porta l’attrice a voler fare cose belle, il desiderio di fissare, nonostante tutto, qualcosa di sé nel prodotto; spinta/desiderio che, di fatto, garantisce da un’adesione gelida ai dettami del modello (purché non la si voglia riconoscere come spinta puramente reazionaria).

«l’attrice è dunque solo un’alienata
Nel rapporto di osmosi attore-personaggio, l’attrice «carica» il personaggio della sua storia, delle sue caratterizzazioni fìsiche e sociali. D’altronde Hollywood, con lo star-system, articolava il darsi del suo corpo per danaro, fin nella sua vita privata. Lo stereotipo «vergine-donna fatale-divina» ha la caratteristica di essere impostato interamente sulla differenza sessuale, e qui anche il discorso della prostituzione «doppia» per l’attrice; come corpo-attore e come corpo-donna. L’attrice nell’attraversare il personaggio investe un di più anche, e proprio, su questo suo «dover essere femmina». Gioca sulla differenza. Espone il suo corpo di donna in una sfida alle differenze sessuali e sociali. Pensiamo a Marlene/Bijou («La taverna dei sette peccati») che canta, per la marina, travestita da marinaio. Lo sguardo sempre diretto, il suo lavoro esplode in mille atteggiamenti di provocazione e di padronanza (anche del set); una tensione fisica che si risolve in impennamenti delle spalle, movimenti delle mani e del volto, dapprima attesi e riconoscibili poi via via imprevedibili, eccedenti la «mansione». L’attrice è, dunque, soltanto un’alienata che calca un cliché?
E poi, ancora, soffermandoci a considerare il potere contrattuale di queste dive, che arrivano a scegliere il regista, a cambiare copione e dialoghi. Come passa e si trasforma nel lavoro questa possibilità di potere/scelta? Iniziamo, allora, a pensare a quello che può accadere nel percorso dal corpo (la resistenza alla riduzione ad un detto, il luogo del desiderio), allo cambio (adesione ai modelli — di produzione, di recitazione — il comportamento, la norma). In questo percorso, nello scarto tra corpo e comportamento; tra lavoro-attrice e prescrizione; nell’investimento del «qualcosa in più» che entra in gioco dal narcisismo e dalla «prostituzione», non vediamo, forse, articolarsi un modo di produzione?