donne
vivere di poesia: emily dickinson
«Emily legge… Emily sogna… Legge a fatica perché i suoi occhi sono stanchi. Un giorno mi piacerà scrivere delle donne e dei loro occhi stanchi»
Nuova Inghilterra. Un austero villaggio: Amherst. Niente feste. Bandito anche il giuoco delle carte. Gli uomini lavorano la terra. Le donne provvedono alla casa. C’era stata la guerra agli indiani e qualche vecchio raccontava… La domenica tutti a messa. Il padre, severo, con il suo bastone dal pomo d’oro, in nero, la madre, al suo braccio, in nero, i figli camminano dietro… Un giardino pieno di fiori ( «È il ranuncolo tra i fiori,/ Proprio il capriccio mio/ Siam nati nel frutteto, lui ed io…). Un pollaio. Una stalla. Un granaio. Un orto. L’orto confina con il cimitero. Una casa. Grandi stanze. Un’ampia cucina, dai muri verde pallido, le porte e le finestre in giallo cupo, i rami appesi che luccicano quando il sole li tocca… Qualcuno suona alla porta. Lei fugge su, su per le scale nella sua camera che guarda sull’ovest. Una stanza tutta per sé. Un privilegio da poco. E chi l’ha detto?
È già tanto nella vita di una donna. Virginia Woolf l’ha ben spiegato (che la libertà è l’essenza dell’arte) in un saggio sulla letteratura femminile dal titolo, appunto, «Una stanza tutta per sé». «Ottimi romanzi sono stati scritti da donne la cui esperienza riguardava soltanto quella parte della vita che poteva entrare nella casa di un pastore rispettabile; scritti, poi, nella comune stanza di soggiorno di quella casa rispettabile, e da donne talmente povere che non si potevano permettere di comprare più di due o tre risme di carta alla volta…» Qualcuno suona e lei fugge, su, su nella camera che guarda sull’ovest. È lì che scrive. È lì che studia. È lì che legge. «Emily legge… Emily sogna…» Legge a fatica perché i suoi occhi sono stanchi.
Un giorno mi piacerà scrivere delle donne e dei loro occhi stanchi. Penso a Emily e alle mogli dei «grandi» chine di notte, a ricopiar i manoscritti di loro, e, a quella donna lontana che cuce, davanti alla finestra. «Mi annodo il cappello, mi aggiusto lo scialle — i piccoli doveri della vita / Adempio, proprio come se il più piccolo, fosse immenso per me / Metto nel vaso nuovi fiori, e i vecchi getto via – scuoto dalla veste un petalo che s’era lì impigliato…» (1862). Indossa abiti bianchi Emily. Le piace curare il suo giardino. Detesta i lavori di casa. «Stanno facendo le grandi pulizie, preferisco la peste». . Emily è inquieta. Emily è scanzonata.
Emily piccola come uno scricciolo, i capelli ribelli come un riccio di una castagna, gli occhi come lo sherry che l’ospite lascia nel bicchiere. La descrizione è tutta sua (1862) e non potrebbe essere altrimenti. Di lei nel villaggio si dice: stramba, forastica.
Figurarsi se ne sta sempre chiusa in una stanza a far poesie sgrammaticate! Nessuno del suo tempo capì quei versi particolarissimi nel metro, nel ritmo, nella rima; così stravaganti rispetto alla ‘ lingua e alla tradizione (dov’è la punteggiatura?… e quelle parole in latino che significano mai?) che poi i signori critici andarono nel tempo definendo metaforici, impressionisti, futuristi. Roba d’avanguardia insomma!
Emily non volle mai pubblicare «Mette all’asta la mente/Chi dà alla stamperia», si arrabbiò quando, senza il suo permesso fu inviata ad un giornale una sua poesia. Naturalmente non mancò di correggerla chi la stampò! Scrive a lapis alla rinfusa: su pezzi di carta qualunque, su vecchie lettere, su buste, su ricevute.
Ad un certo punto le lega, fa delle sue poesie tanti pacchetti. Scopro Emily con foga, mi innamoro subito delle sue ruvidezze (anche se mi chiedo son ruvidezze quelle che ti fanno nascondere al mondo), di quella sua volontà di perdersi nel suo io, di affogarvisi dentro e quel suo fuggire lento…
Mi piace tanto di/in lei il senso della comicità.
«Son più in ordine questi versi? Quanto al mio schivare uomini e donne gli è che parlano di cose sacre ad alta voce, e mettono a disagio il mio cane. Lui ed io non abbiamo nulla contro purché se ne stiano a casa loro… A me tutti gli uomini dicono «Cosa?» — ma io supponevo fosse un modo di dire…» (1862). Emily abiti lunghi bianchi. Una stanza. Una finestra. Un prato. Un pino.
«Presso la mia finestra ho io per scena/Un mare su uno stelo/ Se all’uccello e al villano sembra un pino, / Quanto a me non ho nulla di ridire…». Nessun carico di esperienze, nessun viaggio, lesse si, ma, poi, mica tanto. «Le confessioni di un mangiatore d’oppio» di De Quincey di nascosto…
Mi viene in mente una lettera di Elizabeth Barret Browning, quel suo definirsi «un poeta cieco» : «Io ho vissuto soltanto di vita interiore… sogni, libri e la vita di famiglia… L’umanità ignota, comprendete quale difficoltà da superare sia codesta ignoranza, per la mia arte?… quasi tutte quelle che si chiamano emozioni io le ho vissute attraverso la poesia…»
Emily. Abiti bianchi. Una stanza che guarda sull’ovest. Una finestra. «Tutto e sobrietà… avendo il babbo deciso che nella vita tutto è realtà…»
«Mio padre mi compra molti libri ma mi scongiura di non leggerli, perché teme mi confondano le idee…» «La mia vita è stata troppo semplice e severa per mettere a disagio chicchessia»
È la seconda metà dell’ottocento. E lei — in poesia — fa la rivoluzionaria. Ma in silenzio.
A ben guardare la storia della letteratura al femminile… eccole le donne scrivono e depongono. Nascondono. E… la celebrità?
…per quel certo disagio esistenziale
Emily e la. sua porta chiusa. E i suoi versi (duecentocinquanta poemetti) adottati per corrispondenza. Lontana dall’Istituzione Letteraria. Lontana dall’angoscia per il «bello» stile. Lontana dalla preoccupazione del pubblico che ha afflitto -nei secoli – tante menti illustri. Le sorelle Bronte e i loro cassetti carichi di nomi maschili per pubblicare. Jane Austen e la sua carta assorbente per celare — arriva qualcuno — il contenuto dei suoi scritti. Un romanzo. Che svergognata! Alla stampa ci arrivò Anonimo decise l’editore.
«Se leggo un libro che mi geli tutta così che nessun fuoco possa scaldarmi, so che è poesia. Se mi sento fisicamente, come se mi tagliassero la testa, so che è poesia. Questi sono gli unici modi che ho di conoscerla… Ve ne sono degli altri?»
(1870)
Emily sa che la sua è poesia e che altro modo di vivere non ha se non quello di dedicarsi a lei. È semplice in lei poesia è vita e vita è poesia. È per questo e, per quel certo disagio esistenziale che dentro preme, che al mondo chiude la porta. Un po’, si sa, c’entra anche l’amore. E che amore…!
«Perché dovremmo censurare Otello?…»
Sue è briosa, raffinata, pungente. La sua bellezza raccontano ancora i libri «calda». Centinaia di versi a Sue. E lettere e versi e versi e lettere. Da Emily.
«Tu ed io abbiamo stranamente taciuto su questo soggetto Susie, lo abbiamo spesso toccato, solo per fuggirne via così presto, come i bambini chiudono gli occhi quando il sole è troppo fulgido per loro…» (giugno 1852)
Sue sposa nel 1856 Austin, fratello di Emily.
Kare è bella, alta, bruna come Sue. E, come Sue, raccontano sempre i libri, è elegante e un po’ intellettuale. «Io non sono nessuno! E tu chi sei?/Nessuno pure tu?/Allora siamo in due ma non lo dire!/Potrebbero bandirci, e tu lo sai!…»
Amore di una donna per una donna… quanti nel passato così strazianti… Il desiderio è lì a concretarsi in poesia e nel sogno…
Come esplode di passione nel verso Emily…
«Oh, miele di un’ora! La tua virtù io non conobbi mai. È a questo punto che Emily così frettolosamente penetrata in me sembra fuggita. Il suo rapporto con la religione, quel suo interrogare la morte, le storie d’amore con ministri protestanti e giudici vari che da qualche biografo vengono narrate… dove sono, non ne parlo. Penso ad un titolo e mi viene: vivere di poesia. Rileggo. E dico: è romantico Mi chiedo se troppo.
«Il medico dice che ho l’esaurimento nervoso. Forse è così. Non conosco il nome delle malattie…» (1883)
Piccole cugine – richiamata – Emily (lettera di Emily alle cugine Norcross – 12 maggio 1886)
Emily muore nel 1886 il 15 maggio. Ha 56 anni.
«… Stavo con Sue, come spesso mi succede – qualcuno suonò il campanello e corsi via, com’è mia abitudine. Quali furono la mia sorpresa e la mia vengogna quando udii il signor Chapman chiedere della signora Dickinson! Kate Scott, un’ospite di Sue, era la mia alleata, e stringendoci forte l’una contro l’altra, come due sorci colpevoli, aprimmo le consultazioni. Siccome pure i morti avrebbero potuto sentirci mentre scappavamo era impossibile sostenere che non eravamo corse via…» (1859).