articolo 3 della costituzione: i cittadini sono tutti uguali
ma le donne sono meno uguali degli altri
Lavora da diecimila anni. Ha costruito le piramidi (anche lei, certo, tanto è vero che uno dei primi scioperi della storia, avvenuto a Tebe nel 1200 avanti Cristo, ebbe un gruppo di donne come protagoniste). Ha vestito il mondo per secoli, suo privilegio costante dai tempi di Penelope, tanto è vero che Platone ha potuto dire, con comoda logica maschile, «se la natura non avesse voluto donne e schiavi, avrebbe dato alle spole capacità di filare da sole».
Ha fatto centinaia di mestieri, lungo i secoli, e in genere quelli che di epoca in epoca erano considerati i meno degni: adatti agli schiavi e, appunto, alle donne. Se un lavoro acquistava nobiltà o veniva rivalutato, le veniva immediatamente sottratto: è il caso, ad esempio, della lavorazione della seta e dell’oro nelle Fiandre. Se al contrario la metamorfosi era in senso negativo, diventava suo appannaggio e privilegio. È il caso dell’insegnamento, affidato agli uomini in epoche in cui era una cosa seria, e ghetto quasi esclusivo delle donne oggi che lo è sempre meno (tranne nel rarefatto olimpo dell’università dove allignano i «baroni» e non già le «baronesse»).
Alla donna, quindi, è sempre toccato il lavoro meno bello, meno creativo, meno prestigioso: «inferiore» come si addice ad un essere appunto inferiore.
Di più: le è toccato il lavoro che «non-esiste», passato sotto silenzio, relegato in un limbo opaco, non sfiorato dalla coscienza e dalla storia.
Oggi la situazione non è poi tanto cambiata: è soltanto molto più mistificata e quindi più difficile da mettere a nudo.
Prendiamo un caso concreto, esemplare: quello di Rita, 26 anni, impiegata in una fabbrica tessile del Nord. Rita è entrata qualche anno fa, quando ancora non era sposata. Con la crisi dell’industria tessile la fabbrica si è chiusa. Rita è stata licenziata. All’inizio non si è preoccupata troppo: dopo tutto siamo nel ricco e ben pasciuto nord, in un posto dove ci sono più fabbriche che alberi. «Ma mi sono resa conto che non era poi così facile trovare un altro lavoro, ma non tanto perché non c’erano posti: il fatto è che ogni volta che mi presentavo mi chiedevano se ero sposata. Dicevo di sì e dall’altra parte cambiava subito il tono della voce. Ed era un no».
Sposata, Rita diventa una madre potenziale e quindi, per il padrone che l’assume, una potenziale «grana». Perciò se ne stia a casa, tra le pareti domestiche, a consumare il proprio ruolo «femminile» di moglie e madre.
Oltretutto, osserva Rita con amarezza: «Anche ammesso che lo volessi ‘sto bambino, non lo potrei fare adesso perché non abbiamo soldi abbastanza, proprio perché io non lavoro. Così finirà che non avrò né lavoro né bambino».
Rita oggi è casalinga-moglie, da casalinga-impiegata che era: in realtà non è senza lavoro, ha solo un lavoro in meno. L’altro, anche se non le viene riconosciuto né pagato, anche se inesistente, quindi, come lavoro propriamente detto, sarà suo in aeternum, fa parte del ruolo femminile che le sta incollato addosso come una seconda pelle: è il lavoro domestico.
Da componente della “forza lavoro femminile”, e cioè di quel magro 27,6 per cento di donne italiane che lavorano “fuori casa”, Rita è ripiombata nel magma opaco di quella che, nel linguaggio delle statistiche, è chiamata «altra popolazione». Tra cui, appunto, figurano le casalinghe che producono servizi per 20 miliardi all’anno (secondo il calcolo del vicepresidente dell’ENI, Forte),
Spazzando gratis, cucinando gratis allevando gratis i figli, le Rite di tutta Italia permettono al sistema di cancellare dalla voce “spese” un cumulo di servizi sociali che spetterebbe a lui stesso provvedere. Così, pagando all’uomo un dato salario, il sistema compra in realtà il lavoro di due persone perché se Rita non fornisse gratis al marito una serie di servizi, questo sarebbe ovviamente costretto a procurarseli, pagando, e non potrebbe quindi accontentarsi di quel che guadagna.
Ovvio che la società patriarcale capitalista vezzeggi le casalinghe, gratificandole di una mitologia grondante di caramellose ipocrisie:
«L’angelo del focolare» permette al sistema un notevole risparmio di quattrini e vale quindi lo spreco di qualche vuoto mito.
Oltre a questo, le casalinghe sono uno splendido esercito di riserva in cui pescare quando gli conviene: una forza lavoro elastica, supinamente disponibile, facilmente ricattabile. E che continuerà ugualmente, pur lavorando “fuori”, a lavorare “dentro” e a fornire i suoi 20 miliardi annui di servizi gratis.
Il diritto al lavoro passa così per il dovere di sobbarcarsi anche l’altro lavoro, e per soprammercato di non abdicare ai ruoli tradizionali di moglie, madre e interprete dei cosiddetti “valori della femminilità”. Se fosse giustamente pagata per tutte queste prestazioni, il sistema crollerebbe. È opportuno dunque non farle prendere coscienza. A questo scopo il ghetto isolato della famiglia — tante isole parcellizzate e senza contatti tra loro — serve magnificamente allo scopo.
Una Rita licenziata che torna a casa non s’accorge che in realtà non è disoccupata, come prima non si era accorta che in realtà faceva due lavori pur essendo pagata per uno solo.
Non si ribellerà quindi alla sua condizione perché non ha coscienza delle discriminazioni che il sistema le regala a piene mani.
Esclusa non per sua volontà ma per necessità dal mercato del lavoro, ridotta al ruolo di sacerdotessa involontaria della religione della casalinga, costretta a sperimentare in prima persona le contraddizioni tra i vari ruoli che le hanno appiccicato addosso, Rita tocca con mano l’illusorietà dei miti dell’emancipazione.
Rita lavorava come impiegata (un “classico” dell’occupazione femminile) in un’industria tessile (un altro settore tipico del lavoro femminile) e naturalmente prendeva meno di un uomo a pari condizioni.
Tradizionalmente, infatti, la donna che lavora fuori è incanalata verso i lavori “inferiori”, meno qualificati (operaia nell’industria tessile, nel settore alimentare, domestica, commessa, impiegata, insegnante ecc.). Il carattere transitorio del suo impegno sul fronte del lavoro (tanto poi si sposa o comunque torna a casa) non le permette di avanzare verso lavori più qualificati, anche perché questo non fa comodo al sistema che la preferisce come personale facilmente intercambiabile e quindi mantenuto ad un livello di basse qualifiche per poter essere “polivalente a basso costo” (definizione data da un grosso industriale milanese e citata nel libro: «La coscienza di sfruttata» pagg. 157).
All’interno di questa discriminazione, ne esiste un’altra: la disparità salariale, che non è affatto sparita, come molti pensano.
La donna operaia italiana percepisce un salario inferiore del 23 per cento rispetto a quello di un uomo per compiti uguali perché all’interno della stessa categoria le viene assegnata una qualifica inferiore. Per le impiegate e le pochissime dirigenti, la situazione si ripete e lo scarto è superiore (35-40 per cento).
Non solo quindi le donne occupano il gradino più basso di tutte le qualifiche, ma guadagnano meno degli uomini a parità di lavoro e di condizioni.
Come somma beffa, il ruolo di madre, tanto esaltato se viene vissuto tra le pareti domestiche come fatto privato, diventa un handicap appena la maternità minaccia di presentarsi sotto il profilo sociale che le sarebbe proprio. Rita, madre potenziale, può perseguire il suo «meraviglioso destino creatore» in casa, ma non si azzardi a coinvolgerci il suo datore di lavoro e il sistema. In questo caso la maternità diventa un handicap perché contraria alla logica dell’efficienza e del profitto.