La condizione femminile — testimonianza n.1

mamma mamma

(tratto dal mensile femminista francese «Le torchon brulé».)

febbraio 1973

«Mamma! Mamma! Aiuto Mamma! Dov’è la Mamma?». Con tutta la forza dei miei piccoli pugni di bimpicchio, graffio le pareti della mia prigione. Piango, grido, urlo, singhiozzo, pesto i piedi. Picchio di nuovo e chiamo più forte. Inutilmente. Al fondo della disperazione. È immensa la disperazione di un bambino. Altre grida, più lontano — i miei fratelli e le mie sorelle, I boia devono essere di pietra per non sentirsi sconvolti da questa desolazione infantile. Accanimento gratuito.

Nulla, assolutamente nulla li costringe a sequestrarci in tal modo, ognuno in una gabbia chiusa, separati. Dei sadici. Siamo all’ospedale di Roubaix, viale Julien-Lagache; a casa è successo qualcosa, l’inizio di un lungo incubo per tutti noi, hanno appena arrestato mamma… Questo, naturalmente, l’avrei saputo molto tempo dopo (e in qual modo!). Per il momento, nessuna spiegazione. Siamo qui, disorientati, a domandarci quale tegola ci è caduta sulla testa. Se è la fine del mondo o cos’altro. Possiamo pure morire di paura tra queste quattro pareti spoglie, vero?, tanto chi se ne frega di questi marmocchi che vengono dal Pile, quel quartiere popoloso, sporchi, mal vestiti, certamente pieni di pidocchi. E la madre che ha partorito da sola e ha soppresso il figlio. Ma come ha potuto! Dei delinquenti. E poi saranno spediti domani all’Assistenza Pubblica, quindi…

Molto tempo prima, una sera, una piazzetta bagnata, la chiesa sulla destra, gente che passa davanti al mio naso incollato al vetro ed io che spio a lungo, interminabilmente, l’arrivo di mio padre che deve rientrare dalla fabbrica come ogni sera, e prendermi sulle sue ginocchia stanche, me la beniamina, chiamandomi col suo pittoresco accento belga «la mia Claudin’que». Ma non sarebbe ritornato mai più.

La fabbrica l’ha consunto, svuotato d’ogni forza. Sta crepando per una ferita che non vuol guarire a causa di un dannato diabete; sta crepando su un letto d’ospedale, l’ospedale di Roubaix, viale Julien-Lagache… Io non so ancora nulla di tutto ciò, e aspetto. Ma sempre meno tenacemente, sempre meno attenta-52 mente. A 3 anni un bambino si lascia distrarre e crede alle menzogne pietose.

E mamma che si ritrova sola all’improvviso, con cinque bambini, da 13 a 3 anni, sulle spalle. Come mio padre prima, anche lei prende la strada della fabbrica. Cosa fare altrimenti? I piccoli restano in custodia dei grandi. Lei sgobba per intere, lunghe giornate. Quando rincasa la sera, sfinita da questo pazzesco sfruttamento, non ha certo più la forza di badare molto a noi. E la miseria nera ancor più di prima.

Nonostante questa miseria materiale, siamo felici insieme, ci vogliamo tutti molto bene, nessun tipo di repressione in casa, c’è allegria da noi, tutto sommato, c’è calore, ci si tiene caldo al fisico come al morale: durante il giorno, quando siamo insieme, stiamo tutti nella sola ed unica «stanza di sotto», la notte, ci rintaniamo gli uni contro gli altri nella sola ed unica «stanza di sopra»… Bisognava proprio che ci amassimo tutti molto, perché questa costante promiscuità non provocasse mai delle liti.

Mamma ha un amico. Viene a casa nostra, Sfida alla stupida morale borghese. Rimane incinta. Il tizio, naturalmente, taglia la corda. Lei deve sbrigarsela da sola. Che fare? Non ci sono molte soluzioni. Avere questo bambino, neanche da pensarci. Come nutrire un sesto quando siamo già tutti sottoalimentati.

Abortire? Basterebbe avere soldi, conoscenze…Mamma non fa parte della classe privilegiata di quelle che vanno in Svizzera o altrove. Abortire da sola? Non so se l’abbia tentato inutilmente o se non abbia osato correre questo rischio mortale.

Comunque subì la sua gravidanza fino alla fine. Nasconde il suo stato e continua la sua vita estenuante di operaia e di madre di famiglia numerosa. La sua decisione è presa: non avrà questo figlio, non farà un infelice di più. Le resta solo una soluzione, finalmente adottata, sicuramente con la morte nell’anima, partorire da sola e sopprimere immediatamente il bambino.

Lo grido forte qui e continuerò a gridarlo: accuso la società marcia in cui viviamo, crudele, ipocrita e subdola, di aver costretto mia madre a questa tragica soluzione. E non contenta di averla spinta a ciò, ha voluto ancora completare la sua opera trascinando mia madre (su denuncia di una vicina…) nel fango dei tribunali dove si sa quale «giustizia» regna. Quattro anni di galera. Soppressione dei diritti materni. Spaventoso: neanche più la possibilità di vederci dopo essere uscita di prigione, lei che ci amava tanto. Ciò l’ha sicuramente uccisa, perché è morta, sì, un anno dopo la sua liberazione. È riuscita una sola volta a venirmi a trovare di nascosto da una delle mie balie. Sono io che apro la porta non la riconosco, le dico «Bongiorno signora»… Scoppia in singhiozzi. Allora capisco e mi butto tra le sue braccia.

Malgrado le proteste della balia, lei entra e, per un’ora, resto rannicchiata tra le braccia di mia madre. Devono strapparmi di forza. Atroce. È finito, deve andarsene. Se ne va. Sento che è l’ultima volta. Effettivamente, non la rivedrò mai più.

Dopo la notte d’«incarcerazione» all’ospedale di Roubaix, siamo tutti e cinque inviati all’Assistenza Pubblica di Lille. Poi sparpagliati ai quattro venti, a destra e a sinistra, da varie «balie». Tutti cresciuti separati senza vederci mai, tranne qualche eccezione e di nascosto. Come se non bastasse la nostra infelicità, scoppia la guerra. I locali dell’Assistenza Pubblica vengono trasferiti a Phalempin. Mi ricordo di un’immensa cantina dove dormivamo, o cercavamo di dormire, 2 e anche 3 bambini per ogni letto. Grida e pianti dappertutto. Un’infermiera ha pietà di me e mi diventa amica. Mi tira fuori da quel letto e mi promette, per calmarmi e arrestare il mio pianto, di chiedere alla sua balia (perché anche lei è stata allevata dall’Assistenza Pubblica) di prendermi con lei. Mantiene la sua parola. È l’unico posto dove sarò trattata bene. Sfortunatamente la loro casa viene distrutta dai bombardamenti. Trasferiti in baracche, non hanno più posto per me, Ritorno all’Assistenza Pubblica.

Mia sorella maggiore resta particolarmente traumatizzata da questi avvenimenti (tanto più che è nella fase della pubertà). Adora la mamma. La separazione è un primo terribile choc. Poi, sapere che la mamma uscendo di prigione e non potrà mai più riprenderci è atroce per lei. Essendo più grande, capisce meglio. Reagisce molto male al fatto d’essere inviata, da un giorno all’altro, dall’Assistenza Pubblica come domestica tutto fare, presso dei privati. Le cose vanno molto male per lei. Quando la mamma muore, non vuole crederlo, perde gusto a tutto e si lascia letteralmente deperire. Sopravvive ancora qualche anno e poi muore per deperimento organico.

Mio fratello, più grande di me di 2 anni e mezzo, viene anche lui affidato a diverse balie. A 14 anni lavora nei campi. Non. riesce a curvare la schiena. Catalogato come «ribelle», viene sballottato di fattoria in fattoria. L’Assistenza Pubblica, non potendo «più fare niente» di lui, l’invia in riformatorio. E il cerchio infernale si chiude quando, a 21 anni, viene ricoverato d’ufficio, con l’etichetta di schizofrenico, all’ospedale psichiatrico di Armentières, dove marcisce tuttora.

Le mie sorelle vengono sistemate a 14 anni come domestiche.

Ecco.

E si vorrebbe che accettassimo tutto ciò calmamente, tranquillamente? Che trovassimo normale lo sfruttamento della mamma, la doppia oppressione che subì, il processo schifoso e l’uscita di prigione con tutte le sue conseguenze? No, no, no, mille volte no! Mi hanno educata per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza nel disprezzo di mia madre. Erano quasi riusciti a convincermi, quei mascalzoni. Ora lo gridò con forza: il mio disprezzo devo sputarlo, e lo sputo, sul muso di questa società. Ah! far sempre passare il nero per bianco. Basta. Che la verità esploda, su tutti i punti. Dappertutto. Che il velo dell’ipocrisia sia strappato. Io, ho già cominciato. Faccio delle ricerche nei giornali dell’epoca, alla Biblioteca Nazionale. Cerco i vecchi vicini di mamma, li interrogo, interrogo anche le mie sorelle che essendo più grandi di me hanno più ricordi. Cerco e cerco ancora. Prendo appunti. Registro testimonianze al magnetofono. Faccio fotocopie di documenti, ecc. Voglio costituire un dossier su questo flagrante caso di GIUSTIZIA DI CLASSE e d’OPPRÈSSIONE FEMMINILE. Effettuo queste ricerche, da una parte, con delle compagne e dei professori della Facoltà di Vincennes e, dall’altra, con delle ragazze del M.L.F. (Movimento di Liberazione Femminile).

Voglio accusare pubblicamente la borghesia di avermi rubato mio padre, morto di super sfruttamento in fabbrica, mia madre, mia sorella maggiore e mio fratello, tutte vittime di questa miserabile società in decomposizione.

Considero tale lavoro come qualcosa Che, da una parte, devo alla memoria di mia madre e che, dall’altra, è vitale per me stessa; riterrò che non sarà stato inutile se potrà aiutare anche una sola persona a «prendere coscienza».